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Ethos del drone e trasformazioni nell’arte della guerra.

30 Set 14

A cura di Fabio Milazzo

La guerra, come declinazione della violenza dell’uomo sull’uomo, è una delle caratteristiche più naturali della communitas umana. Le prime testimonianze scritte in forma di poema che ci giungono dall’antichità testimoniano conflitti, sangue, eroismi e codardie sul campo di battaglia. La guerra costituisce l’essenza del genere umano? Forse la tesi è un po’ forte- per quanto non nuova- e non tutti sono disposti ad accettarla. Sicuramente, però, tutti devono riconoscere l’impatto che la guerra e, più in particolare, le strategie militari e le tecnologie di combattimento hanno avuto -e continuano ad avere- sull’immaginario collettivo, sull’etica, sulle questioni giuridiche – come il “diritto di uccidere” il nemico senza incorrere in sanzioni giudiziarie- sulla psicologia e la percezione identitaria di quanti combattono e di quanti la guerra la vivono indirettamente.

Sull’argomento si dilunga Grégoire Chamayou, ricercatore di Filosofia al CNRS di Lione, l'autore di “Cacce all'uomo” (manifestolibri, 2010) e di “Les corps vils” (La Découverte, 2008), nella seconda parte di “Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere” (Derive e Approdi). Ci soffermeremo, in particolare, su questa sezione del suo lavoro con qualche breve considerazione. In essa egli affronta il tema delle trasformazioni psichiche di un modo di fare la guerra che sovverte i tradizionali principi dell’ethos militare ufficialmente fondato sul coraggio e lo spirito di sacrificio. L’argomento rientra in un discorso più generale sulla trasformazione del concetto di «guerra» che, secondo l’autore, entrerebbe definitivamente «in crisi» (p. 16) a favore di qualcosa di diverso definibile come «caccia all’uomo». L’orizzonte è così riassumibile: «Il tentativo di sradicamento di ogni reciprocità nell’esposizione alla violenza nelle ostilità riconfigura non solo la condotta materiale della violenza armata, tecnicamente, tatticamente, psichicamente, ma anche i principi tradizionali di un ethos militare ufficialmente fondato sul coraggio e lo spirito di sacrificio» (p.18). La problematizzazione di Chamayou appare molto interessante sul piano metodologico, poiché fa sua la lezione di Foucault e l’invito a sovvertire le consolidate costruzioni di senso attraverso gli scavi genealogici e la critica delle trasformazioni sociali.

Eppure, la lettura del testo fa sorgere immediato un primo interrogativo, quasi propedeutico a tutti gli altri: siamo sicuri che la guerra sia mai stata vissuta, soprattutto, come criterio di affrancamento dalla paura di morire, tipica degli uomini, in vista di una perimetrazione della società basata sull’esercizio di sentimenti eccezionali come il coraggio, il disprezzo delle angosce legate alla sofferenza e il sacrificio? Se pensiamo all’epopea della cavalleria e alla letteratura apologetica di stampo teologico attraverso la quale gli si riconosceva un posto d’eccezione nella società medievale, forse sì[1]; eppure, se ampliamo gli orizzonti, abbandonando per un attimo la vulgata, possiamo riflettere sul fatto che la guerra, quella vissuta sul campo, sia stata non soltanto lo “spazio atopico” per la celebrazione del coraggio ma anche il “perimetro” per l’esercizio dell’inganno, dei sotterfugi, del sabotaggio, della controinformazione, del tradimento, tutti elementi che soltanto al prezzo di qualche forzatura possono essere inclusi in un’etica del coraggio e dello spirito di sacrificio. Proprio come ci mostra sagacemente Yuval Noah Harar, uno storico israeliano, laureatosi in Storia al Jesus College dell'Università di Oxford e dal 2005 insegnante all'Università Ebraica di Gerusalemme, in un libro interessante,  “Operazioni speciali al tempo della cavalleria 1100-1500” (2008, LEG edizioni). Qui egli sostiene che la guerra, sempre per rimanere nel medioevo, era fatta anche- soprattutto?- di assassinii mirati, rapimenti, tradimenti e sabotaggi. Si trattava di operazioni segrete che avevano come bersaglio obiettivi di rilievo: sovrani, consiglieri di corte, prelati, ma anche postazioni fortificate d’importanza strategica, come i ponti, i mulini e le dighe. Una serie di operazioni clandestine poco onorevoli che spesso decisero silenziosamente l’esito di un conflitto molto di più rispetto alle tanto celebrate e eclatanti battaglie campali, agli assedi e agli scontri pubblici. Alla luce di ciò possiamo essere così certi che le trasformazioni etiche e psicologiche della guerra fatta attraverso i droni rappresentino un radicale momento di rottura nella millenaria storia della guerra tra gli uomini? Possiamo inserirla, come fa Chamayou, nel paradigma della “caccia all’uomo” considerando quest’ultimo qualcosa di diverso rispetto alla guerra propriamente detta? Non lo crediamo, anche perché, come mostrato implicitamente da Yuval Noah Harar, le operazioni clandestine, il “Targeted killing”, con un linguaggio un tantino anacronistico, la “guerra sporca” e senza regole, ha sempre costituito l’essenza del conflitto tra gli uomini e l’idea di combattimenti regolati secondo codici validi sul campo sembra essere più un effetto della retorica e della documentazione privilegiata – soprattutto giuridica e letteraria- per le ricostruzioni che il riscontro della situazione reale.

I droni, come suggerisce  Sergio Luzzatto, «entrano sulla scena pubblica americana in esatta coincidenza con l'uscita degli Stati Uniti dal disastro militare del Vietnam. Il 26 febbraio 1973, quando l'amministrazione Nixon ha firmato da un mese gli accordi di pace e va completando il ritiro delle forze armate dalla penisola indocinese, in un'audizione parlamentare i vertici dell'Air Force riconoscono di avere segretamente impiegato, nel corso della guerra, i cosiddetti Uav: gli Unmanned Aerial Vehicles che finiranno per essere designati come droni. Non erano ancora mezzi da combattimento. Erano aerei senza pilota non armati, mezzi di sorveglianza. ». [2] Da allora è parecchia la strada percorsa se pensiamo che anche le forze armate italiane, alla fine dell’anno scorso hanno testato, in Sicilia, un nuovo tipo di drone-spia che potrebbe essere riconvertito in mezzo da combattimento. Secondo il generale Claudio Debertolis, segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli armamenti: «Lo “Squalo martello” (HammerHead)- questo il nome del mezzo- potrebbe essere chiamato a sostituire i velivoli senza pilota Reapers, utilizzati dalle forze aeree in Afghanistan e Pakistan e da qualche mese pure nel Canale di Sicilia nell’ambito dell’operazione anti-migranti “Mare Nostrum”. Debertolis ha aggiunto che l’Italia potrebbe ordinare una decina di questi nuovi droni e che gli stessi potrebbero essere dotati di sistemi missilistici o bombe. “I P.1HH sono abbastanza grandi da poter ospitare armi al loro interno”»[3].

Il successo dei droni, come velivoli da ricognizione o armi da combattimento, è legato alla «crescente intolleranza dell'opinione pubblica verso l'idea che in una guerra muoiano anche i "nostri"»[4]. In verità anche questo un elemento non nuovo se pensiamo- solo per fare un riferimento- alle pagine di «Guerra e Pace» dedicate agli struggimenti prodotti dall’eventualità che in guerra  potessero «morire anche i "nostri” valenti uomini». La novità del discorso, forse, sta nel peso politico assunto dalle morti in guerra dei nostri valenti uomini sull’opinione pubblica, sempre meno disposta a comprendere e accettare le logiche della guerra. I droni consentono – questa sì una novità quasi assoluta- una minimizzazione dei costi politici che gli effetti letali del conflitto a distanza possono gestire e contenere: «Rispetto alla guerra tradizionale avrebbe consentito notevoli risparmi economici, ma soprattutto avrebbe garantito un decisivo vantaggio politico. Avrebbe zittito qualunque opposizione interna, perché con le imprese dei droni, quand'anche fallite, non ci sarebbe stato più neppure un soldato americano ucciso in combattimento o fatto prigioniero di guerra: “I giocattoli non hanno madri o mogli per protestare contro la loro perdita”»[5]. Ciò che la guerra attraverso i droni riesce a raggiungere è l’obiettivo di un conflitto potenzialmente a costo 0, il sogno di ogni amministrazione politica tardo-moderna. Ma questo elemento, indubbiamente rilevante, ha un risvolto osceno, quello di portare alla luce il vero volto della guerra, fatto di mera contabilità tra nemici abbattuti e perdite subite tra le proprie file. L’eroismo cantato dalle epopee su cui si regge la civiltà umana è soltanto una piega sovrastrutturale necessaria per obnubilare quella che è la vera essenza della guerra: la necessità di causare quanti più danni all’avversario, con qualunque mezzo e in qualunque modo. In tale ottica la guerra con i droni appare teoreticamente interessante non tanto per la riduzione «del nemico a preda» e la trasformazione della «guerra tradizionale in campagna senza confini di esecuzioni extragiudiziarie»[6], quanto per il paradossale risvolto che si cela dietro il successo di una «strategia vincente […] nella quale la capacità di ferire si esercita in una sola direzione» (p.14): quello di mostrare nella forma più cruda possibile l’essenza della guerra.



[1] Solo per un riferimento di massima vedi: A.Demurger, I cavalieri di Cristo. Gli ordini religioso-militari del Medioevo XI-XVI secolo, trad.it. di E.Lana, Garzanti, Milano 2007.
[2] Cfr. S.Luzzato, L’era delle armi senza corpi in «Il sole 24 ore | Domenica», 23 marzo 2014, http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-03-23/l-era-armi-senza-corpi-082039.shtml?uuid=ABifD24
[3] Cfr. A.Mazzeo, Test a Trapani Birgi dei nuovi droni squalo in «Antonio Mazzeo Blog», http://antoniomazzeoblog.blogspot.it/2013/12/test-trapani-birgi-dei-nuovi-droni.html
[4] Cfr. S.Luzzato, L’era delle armi senza corpi…cit.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem

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