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EX PROFESSO, CON COGNIZIONE DI CAUSA

11 Mag 20

A cura di mariaferretti0

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La sorte, finora,
mi è stata benigna.
 
Poteva non essermi dato
il ricordo dei momenti lieti.
 
Poteva essermi tolta
l’inclinazione a confrontare.
 
Potevo essere me stessa – ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.

Wisława Szymborska, Nella moltitudine

 

Il sistema conscio e’ sempre codardo, calcolatore, risparmiatore.
Ma l’inconscio è traccia di memoria che resiste ed insiste per uscire dal legame con la ripetizione : il già accaduto.
So già come andrà a finire. Il gioco si ripete sempre nello stesso modo.
Ma il vero si nasconde tra pieghe di dubbio, negli accadimenti ingovernabili.
Il “mai accaduto” mette alla prova le verità del soggetto.
Dice: sono schiavo o sono libero?
Penso o non penso con la mia testa?
Chi sono?
Le situazioni traumatiche mostrano irrimediabilmente come e dove ci muoviamo nella nostra storia.
Coraggioso o vile?
Passivo o attivo?
Masochista o sadico?
Monco o intero?
 
Correre il rischio.
 
Dottoressa la questione non è vado o non vado, ma chi vado a prendere ?
Quale ombra si nasconde dietro le nostre scelte, materna o paterna.
Un uomo o una donna?
Nessuno, Dottore, nessuno.
Solo  mancate scelte che garantirono la morte eterna della vita.
Voi in fondo al pozzo, io che vedo la vostra morte.
Hai mai provato ad esser dall’altra parte?
Dalla parte di chi può solo assistere all’agonia di chi non ha scelta, di chi non può piu ridere.
È dolore da impossibilità, il dolore dell’irrangiungibilita’dell’altro.
Il dolore della rassegnazione dell’altro, vedere morire la vita che ti da vita. Davanti ai propri occhi.
Si cura così.
Si ama cosi.
Si ama per garantirsi la vita. Ancora.
Mi sta dicendo che lei si è curata curando?
Ogni volta che ne porto fuori uno, porto fuori me dall’essere spettatrice di impossibilita’.
Ogni volta la stessa emozione.
 Amo curando, per esser viva con l’altro.
L’emozione della liberazione. Non ti abitui mai.
Ma lei sta bene.? È felice?
Io sono felice nella misura in cui apprezzo quello che mi è stato donato non per merito, ma che ho saputo riconoscere e coltivare. Ho assunto il mio peso e me ne sono fatta carico.
Cosa posso fare con queste mie orecchie e questo mio continuo pensare che ai più disturba, violenta, ma che dentro nella stanza della cura salva la rotta della vita?
Si, c’è un prezzo da pagare, uno scarto tra quel che si ottiene per se’ e quel che si fa ottenere all’altro.
Lo spazio di non risoluzione di chi cura si da’ al servizio altrui come eterna fecondazione e comporta anche una particolare solitudine indotta da un sapere complesso ma non oscuro.
Attimi unici, di altissimo livello.
Ci ricongiungiamo come rinnovati amanti in quello splendido piacere che è l’intimità umana, così rara la’ fuori.
Ma qui dentro si gioca il “tutto per tutto”. Si gioca a fare se stessi, quelli sognati e desiderati, quelli impossibili da essere con chicchessia là fuori .
Riappropriarsi di un pezzetto di se’, tenerselo tra i denti quel pezzo. Assaporarlo .
Perché sono felice? Non ho ancora tutto quel che desidero o forse si.
Forse l’arte della cura, quella che da nuova forma è il mio grande amore, irrinunciabile.
Non mi si può chiedere di non pensare, sarebbe come uccidermi.
Non mi si può dire di abbassare l’intensità se quella è la via per restare vivi e udibili.
Devi riuscire e allungare la mano per esser tirato fuori dal pozzo.
La paura di essere quel che siamo è incredibile.
Abbiamo paura di far uscire i nostri pensieri perché questo sancisce la distanza abissale dai nostri legami primari.
Abissale spaventa perché se siamo cosi diversi c’è esilio, la perdita totale delle proprie origini.
Non tutti per essere liberi, possono migrare nella terra di nessuno. Si   resta attaccati a quel lembo dove posso ancora aver l’illusione di un origine.
Che cosa comporta l’amore per ciò in cui si crede quando chiede di lasciare la propria patria?
L’insostenibilità di quel dolore, il disorientamento, la perdita momentanea dell’identita’, non riconoscersi allo specchio.
Un travaglio per una vita nuova.
Alcuni non possono.
Possono solo spiare da un buco. Spettatori al caldo di sogni. Un mondo sottocoperta.
Io fuori, tu dentro.
E allora che fare se uno non ha mani da allungare, da agganciare?
Lasciarlo nel pozzo, assistere alla morte. Atroce.
Scappare, per non vedere. Vile.
Tempo e spazio. Una possibilità.
Non perdere tempo, avanzare nel luogo e strapparti in un unico tentativo decisivo dalle fauci della non vita. Non guardare indietro, fino alla meta.
La possibilità di farcela passa dal riconoscimento di non aver mani, dal riconoscere la potenza dell’altro che le possiede e dalla paura dell’esser agganciato.
Colui che aggancia che e’fuori deve aver ben fermo dentro di se’ una via, averla già battuta, sapere perche’ corre il rischio, sapere che “e’ via giusta, non folle per se e l’altro”.
Si pensa tanto, ci si interroga attorno al pozzo, mai soli.
Quando si decide si decide sempre con cognizione di causa, ex professo.
Io non ho paura di morire da sola, io rido, rido ancora e ogni avanzo di tempo e di spazio e’la nostra salvezza.

Amare e’ tener unito il vivo a ciò che si e’ perduto per sempre”. A.A. Semi
 

 
Il poco che abbiamo, poco e buono,
è già tutto crollato. Ed è già tanto
riuscire nell’impresa che fa
d’una costellazione un calcinaccio:
vedi, il miracolo è questo
tenere in piedi l’azzurro,
somigliare alla cosa lontana,
chiamare lo spigolo poesia,
ogni avanzo di spazio salvezza.

 
Giovanni Perri, Manovre di sopravvivenza

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