Il primo libro che ho letto di Sigmund Freud è stato “Lettere a Fliess”: omaggio dell’Espresso per gli abbonati del ’61 o ’62 (mio padre lo era, ma lasciava a me la scelta del testo fra quelli che la rivista ogni anno proponeva).
Poiché anch’io, come Freud, sono un grande estimatore di Annibale, fui colpito da questa comune passione per quel gran perdente (che in Freud era accentuata dalla comune origine semitica con Annibale).
Ovviamente di quel testo mi colpirono anche molte altre cose: ad es. quei brandelli di autoanalisi che Freud comunicava all’amico, fra i quali – appunto – l’accenno alla sua inibizione ad entrare in Roma la prima volta che aveva visitato questa città. Inibizione che lui attribuiva proprio alla sua identificazione con Annibale, che – com’è noto – non era mai riuscito a mettere piede in Roma.
Poi, alla vigilia del mio trasferimento a Trento presso la facoltà di sociologia, mi era capitato di leggere i “Tre saggi” che, insieme all’”Elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam ed al superamento dell’esame di guida, segnarono – ma allora non me ne rendevo conto – la mia separazione fisica da Locorotondo, il paese in cui sono nato ed al quale sono oltremodo legato.
A Trento Freud ritornò ben presto attraverso Fornari che in quegli anni insegnava lì da noi “Psicologia Dinamica” (e col quale stavo per entrare in analisi), ma soprattutto attraverso il movimento studentesco che mi ricongiunse a Freud attraverso la Scuola di Francoforte, e soprattutto attraverso Marcuse.
Ricordo una lettura collettiva di “Eros e civiltà” e una discussione vivacissima sulla introduzione di Jervis che coinvolse Mauro Rostagno, Marianella Pirzio Biroli (poi Sclavi), Matteo Spagnolli e altri, in cui ci accalorammo sulla diatriba “liberazione del lavoro” (come sembrava predicare Marx) o “liberazione dal lavoro” come asseriva Marcuse (io sostenevo che non c’era contraddizione, poiché nel momento in cui Marx immagina la società degli eguali non parla più di “lavoro” ma di “libera attività”, va buo’!).
Ricordo soprattutto l’importanza che ebbero per me sul piano politico le interpretazioni freudiane della filogenesi della civiltà, che noi trentini ricollegavamo agli scritti marxiani ed engelsiani (“Le opere filosofiche giovanili” del primo e “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato” del secondo).
E, su un piano più intimo, i lavori più clinici di Freud; e soprattutto “Inibizione, sintomo e angoscia” e i casi clinici che leggevo voracemente, ma in solitudine, e che mi riportavano al grumo di problemi interni che proprio in quegli anni – e non per motivi professionali -, avevo deciso di sciogliere attraverso l’analisi.
L’arrivo a Reggio Emilia e l’incontro con Jervis non mi spinse a riprendere la grande contesa “trentina” su Marcuse e il lavoro: mi metteva in imbarazzo il suo sapere. E poi c’erano altre impellenze: il lavoro di deistituzionalizzazione e la chiusura del manicomio, il lavoro sulla disabilità e sulla psicosi che inizialmente cercammo di affrontare riportando i bambini istituzionalizzati a casa, e mettendo in piedi le cosiddette strutture intermedie.
Ma poi, proprio a partire da questi due elementi, e in coincidenza con l’andata via di Jervis a Reggio, ci fu un riavvicinamento a Freud e alla psicoanalisi. Un nutrito gruppo di noi – fra i quali anch’io – cominciò un percorso con Pier Francesco Galli e con la Bolko. Altri presero la strada per Via Ariosto a Milano. Molti – fra i quali ancora una volta io – entrarono in analisi.
L’aggancio fra disabilità e psicoanalisi (a prima vista proibitivo) è legato al counselling rivolto ai genitori dei disabili ed alla loro necessità di elaborare il lutto derivato dalla nascita di un figlio assolutamente non corrispondente al figlio idealizzato[1].
Mentre l’interesse per i temi della psicosi nel mio ricordo è collegato al fatto che l’approntamento delle strutture intermedie e l’avvicinamento a quei luoghi di frontiera fra normalità e follia (come li avrebbe chiamati più tardi Diego Napolitani, un altro dei miei maestri) richiedevano a noi operatori di frontiera una preparazione che non avevamo, e che ritrovavamo in quegli psicoanalisti che avevano preso a scandagliare gli aspetti più arcaici del mondo interno; aspetti che ritrovavamo massicciamente presenti nella quotidianità dei nostri pazienti gravi e dei loro familiari.
Poco dopo una parte di noi psicologi reggiani intraprese la strada della frequenza di una scuola di specializzazione, che vedevamo molto più in sintonia con il nostro ambito di interesse rispetto alla sclerotizzata analisi didattica (che, fra l’altro, era di fatto off limits per i non medici).
Io mi iscrissi alla SGAI di Milano. E questo mi permise di riattraversare tutto ciò che avevo fino ad allora sedimentato dentro di me; di rivederlo da un nuovo punto di vista che trovavo estremamente attraente e convincente, anche rispetto a quegli interrogativi sulla filogenesi che tanto mi avevano affascinato durante la mia giovinezza.
Quegli stessi fra noi che avevano intrapreso la via dell’analisi e delle scuole aprirono qui a Reggio per tutti (voglio dire anche per i non psicologi) una specie di atelier permanente fatto di lezioni, di supervisioni in cui noi eravamo un po’ allievi e un po’ formatori (un percorso formativo sugli adolescenti gravi, con tanto di prefazione della Balconi – poi riassunto in Setting riabilitativi con gli adolescenti handicappati[2] – diventò in quel periodo uno dei testi più letti dagli operatori reggiani della disabilità).
Son passati in quegli anni da Reggio: Bauleo, Lai, Ammaniti, per quasi un decennio la Balconi e poi la Del Carlo Giannini, i docenti dell’ADEG di Torino ed infine Pietropolli Charmet; mentre negli ultimi anni – e fino alla sua scomparsa – molti di noi sono stati in supervisione quindicennale con lo psicoanalista reggiano Raul Melandri, che ha rappresentato una specie di padre per una generazione di psicoterapeuti e di operatori della psichiatria reggiana.
Sotto l’influenza di questi maestri è cresciuta in quegli anni in noi dell’evolutiva una propensione ad un uso più attento e clinico del gioco, e nel sottoscritto un amore per le fiabe e per il narrare orale in situazione, che poi mi ha condotto ad un’attività di ricerca su questo piano, che ha avuto non poca parte nella definizione dentro di me di un processo riconciliazione con la mia terra d’origine.
Con la nascita dell’ordine e dei due elenchi quello che, sempre a partire dalle emergenze della clinica, era stato un percorso definito in libertà ha rischiato di diventare qualcos’altro sotto una spinta normalizzatrice e appiattente, chiamata: 'scuole', 'Miur', ed 'ECM'.
Finora però nulla è riuscito ad attentare all’autenticità dei nostri percorsi [stiamo lavorando ora (2007) con Simona Taliani e Roberto Beneduce sui temi psy connessi con i processi migratori]. Ciò a testimonianza del fatto che, in una situazione in cui da sempre i percorsi formativi sono stati da noi psicologi attentamente presidiati, è ancora possibile far rientrare questi percorsi più veri ed autentici all’interno degli ECM, almeno per chi, come noi, opera all’interno dell’Ausl, e per coloro che si trovano ad operare con noi come borsisti o incaricati a tempo determinato.
Noto con sgomento però che la logica delle esternalizzazioni e degli appalti tende, per ragioni di bilancio, a non prevedere una remunerazione della formazione, e ciò fa da pericolosissima premessa ad un sostanziale abbandono della formazione in itinere, senza la quale il nostro mestiere muore d’inedia.
La formalizzazione dei percorsi e la loro compressione all’interno delle scuole Miur fa il resto.
Per questa via un percorso psicoanalitico serio, necessariamente più lungo e costoso rispetto agli altri percorsi, è destinato o ad adeguarsi inquinandosi pesantemente, oppure ad aggrottarsi definendo percorsi carsici per pochi iniziati.
Ritengo immodestamente che una ridefinizione della supervisione che valorizzi il patrimonio di competenze accumulate in itinere in questi 30 anni dai professionisti nel campo della clinica possa rimettere in circolo quelle pratiche e quelle procedure che giungono a noi da Freud e dalla psicoanalisi, ma anche dagli altri luoghi del pensiero e della pratica psicologica che oggi tendono ad essere soffocati dalla miseria dei percorsi formativi “riconosciuti”.
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