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Facciamoci del male

31 Lug 15

A cura di info_1

Occuparsi di psicoanalisi applicata significa interagire non solo con gli  ‘analizzanti’ ricevuti nel proprio studio, ma anche con le istanze sociali: amministrazioni, associazioni, corporazioni. Questo implica fare i conti con un’ ondata neoproiobizionista che pare pervadere le nostre città. C'è tutto un fiorire di verbi che si assomigliano :vietare, limitare, contenere, promuovere campagne per sradicare o ridimensionare qualcosa nella città. Una logica politica improntata alla sottrazione. All'ammonimento. Divieto è una parola che si applica in maniera indistinta, scambiata spesso e volentieri come verbo di  buona pratica politica. Non bere, non giocare, non ti drogare, non ingrassare, non fumare, non fare il bullo.

La psicoanalisi è, o almeno dovrebbe essere viste le recenti conversioni cattorestaurative di alcuni suoi teorici, lontana dal discorso imperante che punta ipocritamente ad un  azzeramento di facciata del godimento presente in città. Il suo orizzonte invece deve mirare a sostenere l’individuo nel suo saperci fare col godimento, senza essersene sopraffatto. L'uso della legge per vietare un comportamento ritenuto dal senso comune 'dannoso' ma alquanto gratificante per il soggetto non porta sempre ai risultati sperati. Anzi, in molti casi crea delle zone grigie nelle quali  questi comportamenti si esercitano in maniera libera, senza limite, per sfuggire alla legge. Non c’è corso di formazione rivolto ai medici nel quale io non ricordi che uno dei desideri primari dell'essere umano, è darsi la morte. E ciò non avviene che rarissime volte in maniera eclatante e subitanea. Piu' spesso questa cupio dissolvi prende la forma regolata di quella che siamo soliti chiamare dipendenza: drogarsi, bere, giocare d'azzardo, fumare pesante, lanciarsi con l'auto di notte oltre il semaforo rosso. Farsi picchiare.  La voracità con la quale gli uomini tentano in mille modi di accorciare la loro vita non è segno di un impellente desiderio di morire, quanto di vivere. Vivere in modo intenso, illimitato, come erano le promesse adolescenziali. Questo è l'obbiettivo che tanti si prefiggono. Nessuno può contrastare la volontà di chi, resosi conto della finitezza della vita e, per certi versi della sua meccanicità, cerca di ridursi a puro corpo per sfuggire all'angoscia dell'essere esistente, vivente. E' una delle grandi barzellette che ci raccontiamo quella dei buoni 'stili di vita'. Questo lo dico per tutti qui mondi che si muovono verso il sole dell'avvenire della cura, della riabilitazione, del contenimento del danno. La sola cosa sensata che resta da fare è cercare di stabilire con questi soggetti un modo meno violento di saperci fare col proprio modo di godere, di consumare la vita. Tutto è il resto è una mascherata proibizionista ed ipocrita, doppiogiochista, interessata, di chi vuol tenersi al di fuori delle vita, perchè troppo impaurito dal suo gorgheggiare.  La legge non può nulla contro il godimento.   Se non esaltarne la magica attrazione. La legge incontra un limite  . Non un limite tecnico, che è inerente alla     sua buona o cattiva applicazione. Il limite è costituto dal fatto che ci sono zone non regolabili, non addomesticabili. Dei punti solidi , dei monoliti la cui  presenza preesiste al legame sociale.  La legge del codice penale non può intersecarsi tra uomo e donna,  tra uomo e droga
tra uomo e gioco d'azzardo.
I protocolli di divieto, dei quali oggi tante amministrazioni si fanno belle, sono un modo di mantenere inalterate queste zone franche, barattando una linea poliziesco-giudiziaria con quella che dovrebbe essere una spinta a ragionare sul godimento diffuso
 Ho accennato alla inutlità e pretesuotistà dell’appicazione della legge quando si tratta del rapporto malevolo col proprio corpo ( http://www.psychiatryonline.it/node/5130), o della necessità di una sua rettifca e ripensamento della sua applicazione meccanica  quando si incotrano forme eclatanti di masochimso (http://www.psychiatryonline.it/node/5742)
 
 
 

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