La creatività capace di trasformare in modo costruttivo il mondo non nasce dalla pura fantasia: se questa si pone al servizio esclusivo dei nostri desideri, perdendo ogni contatto col mondo esterno, essa diviene il veicolo di una fuga dalla realtà del tutto sterile. Non meno sterile è la pura e semplice adesione alla realtà oggettiva: se questa porta a perdere il contatto con il nostro mondo interno (con le emozioni, i desideri, le fantasie), ciò porta all’aridità, vale a dire all’incapacità di concepire un mondo diverso da quello che percepiamo. La creatività è frutto di una sintesi dialettica (un superamento della contrapposizione) tra realtà e fantasia. Si tratta della “immaginazione creativa”, ossia di un’attività mentale che, senza discostarsi dalla realtà, elabora un progetto di trasformazione del mondo che riesce ad essere originale, costruttivo e realistico.
Una madre-puerpera sufficientemente sana ed equilibrata, nel suo rapporto col neonato, rappresenta il modello più importante di capacità creativa. Grazie alla sua immaginazione creativa riusciamo a trasformarci, da semplici organismi biologici dotati di una mente primitiva (incapace di pensare ed esprimersi) quali nasciamo, in esseri umani. Un semplice esempio: all’inizio della vita non esiste una vera e propria fame: c’è solo l’attività di un centro cerebrale (ipotalamico) sensibile alle variazioni della glicemia; attività che si lega ad un’oscura sensazione innominabile e impensabile. È la mamma che, mettendosi in sintonia con noi, dà vita, con la sua immaginazione creativa, ad un essere umano che sente il bisogno di nutrirsi, ci tratta come tale e ci permette di diventarlo.
Il modo in cui la mamma ci concepisce è, quindi, un fattore decisivo riguardo alla nostra futura evoluzione, sana o malata. L’immagine che la genitrice si è creata di noi si esprime nel modo in cui ci guarda: ognuno si rispecchia nello sguardo materno. La letteratura ci offre il modello di due casi estremi di fallimento dell’immaginazione creativa della madre e del suo sguardo: il Narciso delle “Metamorfosi” di Ovidio, ed il Gregor Samsa del racconto dal titolo analogo di Kafka. Nel primo, l’importanza dello sguardo materno è più chiara. Esso è rappresentato metaforicamente dalla fonte di cui Liriope, la madre di Narciso, è la ninfa. È la fonte in cui il protagonista del mito si specchia ed in cui, cadendovi, annega. Egli vi trova un’immagine di lui stesso estremamente idealizzata dalla fantasia materna, ma non realistica. Narciso cerca invano di raggiungere se stesso tramite quell’immagine, ma ne rimane tragicamente catturato. Per inciso, quest’interpretazione del mito (che dobbiamo allo psichiatra-analista americano Leonard Shengold) ci restituisce un’immagine del paziente narcisista diversa da quella che si costruisce chi ne fa oggetto di disprezzo, o di riprovazione moralistica. Vi si legge un bisogno insopprimibile (di per sé, sano e per nulla riprovevole) di esibirsi e rispecchiarsi allo scopo di costruire un’immagine accettabile di sé; bisogno che, nel narcisismo patologico, è esasperato perché frustrato. Il paziente narcisista-esibizionista cerca disperatamente di ritrovare, negli occhi di chi lo osserva, quell’immagine idealizzata (però fasulla) che a suo tempo gli aveva restituito lo sguardo materno. È l’unica immagine, che egli conosca, capace di sostenere la propria autostima; un’autostima malata, perché fondata su basi non realistiche. Nello sforzo di ritrovare l’antica esperienza, il narcisista patologico impiega tutte le sue energie: nello sguardo materno (o in quelli che lo sostituiscono) egli si perde.
All’estremo opposto di Narciso (ma non meno malato) si colloca Gregor Samsa. Se Narciso ha di sé l’immagine esaltante ma impossibile del “più bello tra gli uomini”, il protagonista del racconto di Kafka si ritrova, svegliandosi un mattino, trasformato in un orribile scarafaggio del tutto privo di umanità. Vediamo, in Gregor Samsa, l’immagine tragica del paziente schizofrenico gravemente deteriorato, ridotto ad organismo biologico dotato di un modo di essere primitivo, ossia regredito ad una fase precoce, anteriore all’integrazione e alla personalizzazione dei processi mentali e del vissuto corporeo, oltre che alla comparsa dell’esame di realtà (Winnicott). In altre parole: regredito alla fase in cui la sensibilità e le cure materne non hanno ancora dato vita ad un vero e proprio essere umano. Per Gregor, come per il grave schizofrenico, è difficile stabilire se la causa della sua tragedia risiede in una défaillance della sensibilità materna, o in una estrema fragilità costituzionale che lo ha reso refrattario alle cure della genitrice (ossia incline ad attaccare difensivamente quanto di queste cure viene interiorizzato, come teorizzato da Bion), o in gravi fattori accidentali, o in una situazione familiare sfavorevole, o nella concorrenza di tutti questi fattori. In ogni caso, in Gregor Samsa, come in Narciso, vediamo il fallimento dell’immaginazione creativa materna. In Narciso possiamo ravvisare l’influenza di una madre che ha forgiato l’immagine del figlio in base alle proprie esigenze narcisistiche di avere un bambino “bellissimo”, il “più bello” di tutti; una madre, quindi, in cui ha prevalso la fantasia e che ha ignorato la realtà del piccolo. In Gregor vediamo il tragico destino di chi non ha saputo, o potuto, giovarsi del tutto dell’immaginazione creativa materna.
Compito di noi terapeuti è quello di offrire a pazienti del genere sopra descritto una “corrective emotional experience”: ossia quello di correggere, o completare, o sostituire quelle cure materne che non hanno saputo, o potuto, raggiungere il loro scopo. È quindi molto importante renderci conto se, nel modo in cui percepiamo il paziente e influiamo su di lui, sappiamo effettivamente far uso di un’autentica immaginazione creativa; ossia di una facoltà che nasce dall’equilibrio tra fantasia e realtà, e consiste nel superamento dialettico della contrapposizione tra l’una e l’altra. Se prevale in noi la considerazione della realtà oggettiva, sapremo soltanto vedere il paziente come entità corporea, limitandoci a correggere le alterazioni neurobiologiche che sono alla base dei sintomi. Se prevale in noi la fantasia, animata dal narcisismo terapeutico, sapremo vedere soltanto il paziente ideale, quello capace di guarire. Ignorando i suoi limiti e le sue miserie mentali e corporee, rischiamo d’ignorare il malato nella sua realtà e, talora, di rafforzare un “falso sé patologico”, o favorirne la formazione.
Alcuni colleghi credono d’avere molto da insegnare alla mamma-puerpera. Certamente possiamo esserle d’aiuto se la donna è ostacolata, nel suo compito di accudire il bambino, da insicurezza patologica o da altri disturbi mentali. Tuttavia, una volta ristabilita la sua serenità e il suo equilibrio, è lei che può insegnarci come svolgere il nostro lavoro. Lei che sa cogliere la realtà materiale, corporea del suo piccolo e, nello stesso tempo sa, partendo da tale realtà, dar vita ad un essere umano. Esattamente come un Artista che, partendo dalla realtà materiale di colori, o di suoni, o di parole, sa dar vita ad un’opera d’Arte.
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