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Febbraio 2017 I – Voci, sguardi, corrispondenze

4 Mar 17

A cura di Luca Ribolini

LA VOCE È IL VETTORE DELL’ESPERIENZA PIÙ VICINO ALL’INCONSCIO, CONVERSAZIONE CON LAURA PIGOZZI. La psicanalista e insegnante di canto nel suo libro “A Nuda voce – Vocalità, Inconscio, Sessualità” si è concentrata sugli aspetti visivi dell’esperienza, ponendo solo il problema della voce e del suono 

di Cinzia Ficco, unita.tv, 1 febbraio 2017
 
“La voce è il vettore dell’esperienza più vicino all’inconscio. La sua melodia ci canta, dice qualcosa di noi, delle nostre provenienze, dei bagni sonori in cui fin dall’origine siamo stati immersi e dei flussi vocali che ci hanno allattato, così come rivela gioie ricevute e sofferenze patite. La vita psichica soggettiva lascia sedimentazioni sul timbro, sulla pasta, sul tessuto, sulla materia stessa della voce, rendendola inconfondibile e unica. Per questo, come il corpo, non mente, nemmeno quando le parole lo vorrebbero”. E’ Laura Pigozzi, milanese, psicanalista ed insegnante di canto, ad affermarlo nel suo libro, pubblicato di recente da Poiesis Editrice, intitolato: “A Nuda voce – Vocalità, Inconscio, Sessualità”. Duecentotrenta pagine che la professionista ha voluto scrivere per completare lo studio di Jacques Lacan il quale, come Sigmund Freud, nei suoi studi si era concentrato sugli aspetti visivi dell’esperienza, ponendo solo il problema della voce e del suono – peraltro senza svilupparlo – e lasciando solo intravedere gli sbocchi di un’analisi uditiva.
“Eppure – dice Laura – la voce è vita. Ascoltare la voce permette, per esempio, di individuare una stretta parentela tra vocalità, godimento femminile, estasi mistica, e la cosiddetta pulsione invocante, scoperta da Lacan e che potremmo definire come qualcosa che nasce fin dal primo grido del neonato. Una pulsione rivolta a un Altro. Chi riflette sul canto, per esempio, può vedere il legame che c’è tra laringe e zona genitale. L’antico nome delle corde vocali era infatti labbra vocali e la loro forma anatomica ricorda quella della vagina, un’osservazione che dà un valore anche anatomico alla relazione tra il suono che si espande nel corpo come un’onda concentrica e il godimento femminile. Non solo. La voce è memoria, corpo della parola. La sua musica conserva le tracce della nostra storia che, a partire dal soffio iniziale, ne ha formato la trama, il timbro, il colore. La voce, dunque, come sessuale, o reale della parola. Rispetto a essa la voce, in quanto suono, è il suo eccesso libidico, il suo erotismo, il suo godimento. Per questo la voce rivela anche quando non vuole e la menzogna le è preclusa”.

Segue qui:
http://www.unita.tv/interviste/pigozzi-la-voce-e-il-vettore-dellesperienza-piu-vicino-allinconscio/ 

AL DI LÀ DEI NOSTRI OCCHI. IL REALE DELLO SGUARDO LACANIANO

di Pietro Bianchi, leparoleelecose.it, 1 febbraio 2017
È uscito in questi giorni in inglese, per l’editore londinese Karnac, Jacques Lacan and Cinema: Imaginary, Gaze, Formalization di Pietro BianchiQuesto è il primo capitolo tradotto in italiano e riadattato per LPLC].
1.    Quentin Meillassoux. Un realismo anti-correlazionista
Uno dei grandi meriti del filosofo francese Quentin Meillassoux [1] – esponente di quella corrente di pensiero che è stata nominata del “realismo speculativo”[2] – è stato di rimettere al centro del dibattito filosofico contemporaneo [3] una delle domande più antiche e semplici della storia del pensiero, quella relativa alla conoscibilità della realtà. È possibile conoscere come è fatta la realtà indipendentemente dalla mediazione della nostra mente? Possiamo prescindere dalla condizione di esseri umani conoscenti e storicamente determinati ed elaborare un pensiero dell’assoluto? È lecito sostenere di avere accesso a quello che gli anglosassoni definiscono il “great outdoor”, il grande fuori, ovvero quello che è esistito, esiste ed esisterà indipendentemente dal nostro stare al mondo?
L’ambizione di domande del genere è evidentemente molto alta. Si tratta in primo luogo di mettere sul banco degli accusati gran parte della filosofia occidentale successiva alla svolta kantiana. Meillassoux ha inventato a questo riguardo un termine, “correlazionismo”, che vorrebbe sottolineare un tratto comune a correnti filosofiche molto diverse – l’empirismo, la tradizione kantiana, la fenomenologia, l’heideggerismo, l’idealismo, tutte le filosofie del linguaggio etc. –. Per Meillassoux questi sistemi di pensiero risiederebbero su un principio, elementare quanto arduo da mettere in discussione e che recita così: ogni oggetto è innanzitutto un oggetto di conoscenza per un soggetto. X è innanzitutto X nella sua datità a un soggetto. In altre parole ogniqualvolta consideriamo un elemento, sia concreto sia astratto, non possiamo che considerarlo in relazione (o in correlazione) a colui che lo conosce, pena incorrere in una contraddizione pragmatica.[4]
Una contraddizione pragmatica avviene quanto l’enunciato di una proposizione viene negato dalla sua enunciazione, come nel celebre esempio di “io non sto parlando”. Secondo il filosofo correlazionista sostenere che esista una realtà indipendente dalla mediazione del soggetto trascendentale costituirebbe uno degli esempi più lampanti di suddetta contraddizione. Come è possibile sostenere l’esistenza di una realtà indipendente dalla mediazione di un pensiero quando è nella forma di un pensiero che stiamo facendo tale asserzione? Non sta forse Meillassoux pensando nel momento in cui dichiara l’esistenza di una realtà indipendente dal pensiero? Le filosofie correlazioniste dunque pur nelle loro rilevanti differenze, sono concordi nel sostenere questa tesi: non è possibile considerare né un soggetto né un oggetto al di fuori della relazione che li lega. Ogni opzione filosofica realista non potrà mai essere assoluta, ma semmai solo relativa alla mediazione che in essa compie il soggetto trascendentale. O in altre parole non sarà mai possibile distinguere le proprietà assolute di un oggetto da quelle che invece sono relative a un soggetto della conoscenza dal momento che in ogni oggetto è da sempre inestricabilmente implicato un soggetto.
Non ci è possibile nei limiti di questo intervento ripercorrere tutte le stringenti argomentazioni portate a sostegno delle proprie tesi da quel cantiere filosofico di straordinario interesse che è il pensiero di Quentin Meillassoux. Ci basti però costatare che le critiche alle filosofie correlazioniste sono la precondizione essenziale per la costruzione di una filosofia realista capace di pensare il reale nella sua assolutezza e non solo nella sua relatività ad un soggetto della conoscenza. È in questo senso che si può dare una prima definizione che differenzi il concetto di realtà e quello di reale. Se infatti la prima non può essere separata dall’essere posta fenomenicamente dal soggetto trascendentale, il secondo invece se ne sottrae, costituendo semmai ciò che a questa realtà non cessa mai di venir meno. Nel presente contributo proveremo a declinare la proposta di un pensiero realista limitatamente a quella sfera particolare della realtà che è il campo visivo, mantenendo sullo sfondo i termini del dibattito così come sono stati delineati da Quentin Meillassoux. E per farlo faremo ricorso alle riflessioni sulla disgiunzione tra realtà e reale del visivo che si trovano nell’insegnamento di Jacques Lacan.
2. Lacan e il visivo, tra reale e realtà
Normalmente nella letteratura lacaniana si usa dire che le riflessioni di Jacques Lacan sul reale del campo visivo siano contenute in due corsi seminariali della metà degli anni Sessanta: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi[5] del 1964 e L’objet de la psychanalyse [6] del 1965-1966. In realtà per comprendere il pensiero dello psicoanalista francese sulla visione è impossibile non prendere in considerazione l’interezza del suo insegnamento. Prima di presentare la riflessione che Lacan sviluppa sul reale del visivo, altrimenti definito oggetto-sguardo, e che avviene negli anni della maturità del suo pensiero, faremo un breve detour in quella che è stata fino agli anni Sessanta l’interpretazione dominante del lacanismo nei confronti del campo visivo, ovvero il visivo come immaginario. Questo passaggio intermedio è necessario per constatare come nel pensiero di Lacan il visivo sia stato per molti anni il principio costitutivo della realtà nel suo darsi fenomenico all’esperienza di un soggetto. È solo con il seminario del 1964 che Lacan compie un’audace inversione di rotta attraverso cui il visivo diventa segno dell’emersione di un reale irriducibile sia alla realtà sia alla mediazione del soggetto della conoscenza. La scissione che separa realtà e reale si riproduce in Lacan all’interno del campo visivo: che è per un verso principio cardine della consistenza dell’esperienza della realtà (come immaginario), mentre dall’altro è elemento di irriducibilità alla realtà (come oggetto-sguardo). Vedremo ora in che senso.
Segue qui:
http://www.leparoleelecose.it/?p=26027

 

IL GIUSTIZIERE CHE VENDICA LA MOGLIE UCCISA

di Claudio Risè, ilgiornale.it, 2 febbraio 2017
L’odio uccide. Ma anche ti uccide. Se non riesci a liberartene, ti mangia dentro, ti paralizza, non riesci a far niente tranne coltivarlo con cura. Diventa il tuo demone. Fino a quando lo agisci, passi all’atto (come dice la psicologia, col termine acting out, usato in tutto il mondo per descrivere questo ultimo passaggio). Che, quando la pulsione/demone è l’odio, è spesso un omicidio. Più il tuo odio ha ragioni profonde, fondate, più è difficile liberartene. Le sue «buone ragioni», in realtà ben poco ragionevoli, diventano la sua forza, e aumentano la tua debolezza. Dargli forma con un’azione diventa la tua ragione di vita, il tuo impegno quotidiano. È così che nasce la vendetta, spesso vissuta come una missione. Così è stato per Fabio Di Lello, calciatore, atleta, uomo di principi. Che sa cos’è la disciplina, ma vi rimane anche intrappolato se lascia che l’odio diventi il mister, il capo. Qui le ragioni per nutrire l’odio, la distruzione dell’altro, e la tua, non mancavano. Il grande amore, la tua donna uccisa appena sposata, anche un po’ più grande di te, quindi pure più madre di quanto ogni donna sempre sia. Quindi ancora più «famiglia» di quanto già sia ogni donna amata.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/giustiziere-che-vendica-moglie-uccisa-1358797.html

 

INTERVISTA CON MASSIMO AMMANITI: “ILLUSIONI CHE CELANO VORAGINI INTERIORI”. La parola felicità non è mai stata così diffusa. Essere felici sembra un obbligo, un’ossessione, quasi una condanna. Ma in realtà è un obiettivo irrealizzabile. Colloquio con lo psicoanalista Massimo Ammaniti

di Emanuele Coen, espresso.repubblica.it, 2 febbraio 2017
La corsa alla felicità coinvolge tutti e attraversa le generazioni, in un certo senso è anche una tendenza interclassista. Per comprenderne portata e implicazioni, risulta significativo il punto di vista di uno psicoanalista attento da sempre alle dinamiche dei rapporti genitori-figli, e più in generale alle trasformazioni della società. 
Massimo Ammaniti, professore onorario alla Sapienza di Roma e autore del saggio “La famiglia adolescente” per Laterza e ora di “La curiosità non invecchia” per Mondadori (vedi la rubrica di Eugenio Scalfari a pagina 108), delinea i contorni di un fenomeno in continua evoluzione.
Professor Ammaniti, la parola felicità non è mai stata così diffusa. Film, romanzi, manuali, corsi online. Essere felici sembra un obbligo, un’ossessione, quasi una condanna. Come spiega questo fenomeno?
«Nel passato la parola felicità non faceva parte del lessico utilizzato 
dai giovani. Un tempo i giovani parlavano di impegno, responsabilità, prendersi cura degli altri. In primo luogo, a essere cambiato negli ultimi anni è proprio questo lessico. In buona parte il fenomeno è riconducibile a quella che il sociologo americano Christopher Lasch chiamava “la cultura del narcisismo”. Prima esisteva un’azione sociale, una finalizzazione rispetto a delle regole, delle norme a cui occorreva rifarsi. Poi, come dice Lasch, il mondo è diventato sempre più complesso».
Segue qui:
http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2017/02/02/news/illusioni-che-celano-voragini-interiori-1.294675?ref=fbpe

 

TRAUMA DA MIGRAZIONI E TERREMOTO: COME IL FATTORE UMANO PUÒ FAR AMMALARE O AIUTARE A GUARIRE. Quanto conta nei traumi il fattore umano affinché ci si ammali o si recuperi più rapidamente? Lo abbiamo chiesto alla psichiatra psicoanalista Adelia Lucattini, CTU del Tribunale di Roma

di Sara Ficocelli, repubblica.it, 3 febbraio 2017
In questi ultimi mesi stiamo assistendo – e in alcuni casi siamo personalmente coinvolti – a due eventi collettivi inusitati e traumatici, eccezionali per la loro portata intrinseca, fatta di morti e distruzione, e per la loro coincidenza: migrazioni da terre insanguinate da guerre e miseria, e territori del centro Italia devastati da terremoti. Entrambi questi fenomeni hanno lasciato e continuano a lasciare una scia di feriti nel corpo e nella mente e, purtroppo, anche di morti. Il parallelo può sembrare forte e lontano ma lo è solo apparentemente, dato che in entrambi i casi quello che fa la differenza nel presente e la farà anche in futuro è proprio la cosa che queste tregedie hanno in comune: il fattore umano. Ne abbiamo parlato con Adelia Lucattini, psichiatra psicoterapeuta e psicoanalista, autrice del libro “Il dolore dell’analista. Dolore psichico e metodo psicoanalitico” (Astrolabio) e CTU del Tribunale di Roma.
Che differenza c’è fra trauma causato da un evento naturale e trauma causato anche da persone?
“Negli eventi traumatici è proprio la quota di componente umana che questi contengono a produrre i maggiori danni sul momento e alla distanza. Il male patito da persone è sentito come più forte, potente e duraturo di quello causato dagli eventi naturali, per quanto catastrofici e distruttivi. Il male organizzato e inferto da altre persone volontariamente o involontariamente costituisce un fortissimo elemento traumatico. Tutto questo è più facilmente intuibile nei migranti, che si sottopongono a una vera propria “tratta” che ha paragoni soltanto in quella degli schiavi del XVIII e XIX secolo: l’incertezza del viaggio, la crudeltà degli scafisti, le minacce alle famiglie rimaste in patria, ostaggio dei trafficanti a cui devono restituire le migliaia di euro che si sono impegnati a pagare per il loro congiunti che hanno intrapreso il viaggio, senza nessuna certezza di arrivare. Basti pensare che molte donne che intraprendono il viaggio, alla luce dei racconti dei superstiti, si sottopongono a terapie anticoncezionali per via iniettiva con durata trimestrale, poiché hanno la certezza quasi assoluta che andranno incontro a ricatti sessuali, violenze e stupri. A questo destino non possono sottrarsi talvolta neppure uomini adulti e purtroppo, questo ci dicono gli studiosi del settore, adolescenti e minori non accompagnati”.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/solidarieta/emergenza/2017/02/03/news/trauma_da_migrazioni_e_terremoto_come_il_fattore_umano_puo_far_ammalare_e_o_aiutare_a_guarire-157501496/

 

QUELLA SCISSIONE TRA GENERAZIONI

di Massimo Recalcati, repubblica.it, 3 febbraio 2017
Una settimana fa il priore di Bose Enzo Bianchi ha comunicato ai suoi fratelli la decisione di lasciare la guida della comunità che ha fondato e diretto. L’ha resa pubblica con una lettera che si apre con una citazione del commento di Agostino al Salmo 41: «Si dice che i cervi quando camminano nella loro mandria appoggiano ciascuno il capo su quello di un altro. Solo uno, quello che precede, tiene alto senza sostegno il suo capo e non lo posa su quello di un altro. Ma quando chi porta il peso è affaticato, lascia il primo posto e un altro gli succede».
In questa immagine dobbiamo leggere quell’avvicendamento necessario che garantisce la trasmissione dell’eredità nelle generazioni a venire. Enzo Bianchi lascia la testa della fila dei cervi per appoggiare il proprio capo stanco sulla schiena del cervo che chiude la fila. In gioco è una interpretazione efficace dell’eredità: non si abbandona la comunità, non si esce dal branco, né, tanto meno, si agisce contro di esso, non si minacciano scissioni, ma si decide che è semplicemente venuto il momento del proprio ritiro. Nietzsche ricordava che questa è la saggezza più grande nell’uomo: saper tramontare nel tempo giusto.
Da tempo sostengo che uno dei mali della politica italiana è l’assenza di una giusta interpretazione dell’eredità. Basta guardarsi attorno: in quel che resta della Destra abbiamo la sagoma rediviva di Berlusconi che anziché sfilarsi dal suo ruolo di leader lo ripropone incessantemente come sola condizione di aggregazione di un campo ormai sfilacciato, politicamente moribondo e elettoralmente drasticamente rimpicciolito. Nessuno dopo di lui. Nessun erede, nessun figlio legittimo, nessun discendente. I figli che hanno rivendicato una loro autonomia — come Alfano o Fitto — se ne sono dovuti andare. Nella Destra più estrema sembra che più che un passaggio di testimone si sia compiuto un parricidio: Bossi è innominabile, forse rancoroso nel suo isolamento, in ogni caso senza parola, fuori scena.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/02/03/quella-scissione-tra-generazioni33.html?ref=search

 

BLUE JASMINE: L’INGANNO COME DESTINO

di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto, 3 febbraio 2017
Il film di Woody Allen Blue Jasmine, il più tragico dei film sulla crisi finanziaria, mostra oggi una potenza di rappresentazione che al suo apparire non era del tutto dispiegata. Narra la caduta di una donna dell’alta borghesia newyorkese, finita “in bolletta” dopo l’arresto di suo marito, un ricco uomo d’affari.
Ancora sotto l’effetto di un crollo psichico, lei si rifugia nel modesto appartamento di sua sorella a San Francisco. Faticosamente, ambiguamente sembra adattarsi alla nuova vita. Il contrasto tra la vita fatua di Jasmine a New York, narrata in flashback, con la vita grama, a ma più a contatto con la realtà e con le emozioni, a San Francisco, mette in rilievo la divisione nel mondo interno della protagonista.
Le strade delle due sorelle, non consanguinee, sono state divise dallo sguardo della madre adottiva. Bella, slanciata, elegante, Jasmine, dotata di “geni buoni”, è stata predestinata dalla madre a un grande avvenire, mentre Ginger, la sorella priva di qualità, diseredata dalla natura, è stata esiliata in un futuro di sfigata. Il racconto del loro ritrovarsi, dialoga nel film con il racconto dello svelamento dell’inganno in cui aveva vissuto, nel suo mondo ovattato,  la sorella privilegiata. Ricoperta d’oro dal marito, aveva preferito non vedere il loschi traffici di lui e i suoi reiterati tradimenti.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788

 

TUTTA LA CORRISPONDENZA DI FREUD DISPONIBILE IN DIGITALE

di Redazione, agi.it, 3 febbraio 2017
La biblioteca del Congresso degli Stati Uniti ha scannerizzato e pubblicato circa 20 mila documenti privati tratti dalla corrispondenza di Sigmund Freud. Dall’enorme mole di materiale reso disponibile online, spiccano le lettere scambiate dal padre della psicoanalisi con altri giganti del secolo scorso, come Carl Gustav JungAlbert Einstein e Thomas Mann, ma anche missive di carattere più mondano, come le cartoline dei viaggi in America spedite alla moglie o i carteggi con il nipote Edward Bernays, suo agente letterario, nei quali si lamenta del ritardo nei pagamenti dei diritti d’autore per l’edizione statunitense di “Al di là del principio del piacere”. “Sono in ritardo di tre mesi”, scrive a Edward Bernays, considerato il padre delle moderne pubbliche relazioni, “è l’unico libro che rende”.
Il pezzo forte sono ovviamente le celebri corrispondenze con l’allievo prediletto prima e rivale poi Carl Gustav Jung. In una lettera del 1910, Freud parla delle sue precarie condizioni di salute e discute della difficoltà dell’utilizzo dell’allegoria nelle interpretazioni.
Segue qui:
http://www.agi.it/cultura/2017/02/03/news/tutta_la_corrispondenza_di_freud_disponibile_in_digitale-1445784/

 

IL PRATO BIANCO DI FRANCESCO SCARABICCHI

di Massimo Recalcati, doppiozero.com, 7 febbraio 2017
Il prato bianco e l’ascendenza di Giorgio Morandi 
Il prato bianco è il titolo di una intensa raccolta di poesie di Francesco Scarabicchi pubblicata originariamente nel gennaio del 1997 per i tipi delle edizioni l’Obliquo di Brescia e riproposta oggi, esattamente venti anni dopo, da Einaudi nella sua prestigiosa serie bianca. La poesia del marchigiano Franco Scataglini, a cui il libro è dedicato, e quella di Umberto Saba sono presentissime sullo sfondo, ma le radici della poetica di Scarabicchi affondano anche in un’altra, meno evidente, terra: quella di Giorgio Morandi. È possibile, si chiedeva il grande maestro bolognese, dipingere il silenzio? Dipingere ciò che non ha né immagine, né suono, né nome? È possibile elevare l’immagine della semplice presenza alla dignità di un assoluto? Dedicarsi alle cose più umili del mondo (bottiglie, teiere, bicchieri, caraffe, ecc), esposte nella loro nuda esistenza, non significa, infatti, per Morandi illustrare il mondo, ma provare a coglierne il mistero, il suo enigma irrisolvibile. La dimensione anti-illustrativa dell’immagine mostra che in essa viene preservata una trascendenza che esorbita ogni fredda riduzione tautologica all’oggetto che rappresenta per mostrare che nell’immagine artistica c’è sempre, come direbbe Adorno, “qualcosa che resiste”, una eccedenza interna che rende impossibile ridurre la sua presenza a una semplice presenza. Ebbene la poesia di Scarabicchi riprende in modo originalissimo questa lezione. La sua attenzione appare assorbita dalla nuda solennità dalle cose del mondo, da immagini silenziose, prive di ricami linguistici, libere da ogni gioco intellettuale, incisive, assolute. Vocazione anti-romantica e anti-espressionista, radicalmente ascetica, della sua poesia come del figurativismo di Morandi. Entrambi non cedono alla scorciatoia dell’astrazione, alla sirena facile della dimensione pulsionale del colore o del suono. Scarabicchi nella sua raccolta di poesie più importante quale è L’esperienza della neve (Donzelli, Roma, 2003), dirige il timone della sua parola verso presenze nude, ridotte all’osso alla loro più pura immanenza. Gesto di spogliazione ascetico del mondo dall’involucro conformista della sua percezione canonica. Egli non indica alcuna trascendenza separata dal piano di questa immanenza ma, nondimeno, eleva il tratto anonimo di tale immanenza a cifra dell’eterno che si ripete:
“I vivi sostituiscono i vivi, le case hanno finestre e porte, la pioggia cade e bagna, per camminare ci vogliono le scarpe. Ciascuno ha un nome, i nomi tornano, si cambiano, le frasi sono sempre le stesse, il pane tagliato, i bambini, gli adulti, i morti, la cenere.” (idem, p. 74)
Gli oggetti del mondo, come nella grande pittura di Morandi, non sono semplicemente consumati dal tempo, ma eterni che resistono nella loro fragile sagoma al passare del tempo. Inserzione dell’eterno nel tempo, luce che filtra nella notte. Gli oggetti sono ciò che innanzitutto resta:
“Una bottiglia, una mela…Solo ciò che è concreto sopravvive: lo scheletro, un anello, i denti. Gli occhiali di tartaruga rimasti nella custodia del comodino la notte in cui si è spenta. La coroncina del rosario fatta con i gusci di noci, il ditale che portava nella tasca del grembiule, la spilla a balia, un pettinino rosso.” (idem)
La presenza non occulta la verità, non è ombra destinata platonicamente a dileguare di fronte alla permanenza del mondo delle idee. L’essenza non è nascosta dietro l’esistenza. In Scarabicchi, come in Morandi, la nuda presenza dell’oggetto evoca il resto che il trauma del linguaggio genera separando irreversibilmente l’uomo dall’Uno: l’oggetto è il resto, sempre plurimo, che incarna questa separazione e, al tempo stesso, ciò che la commemora insistentemente.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/il-prato-bianco-di-francesco-scarabicchi

 

SE A UN GIOVANE MANCA L’IDEA DI FUTURO. Il terribile insegnamento di Michele: non permettere a un giovane l’uscita dal lungo inverno della dipendenza familiare è come uccidere la fiducia e la speranza

di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 9 febbraio 2017
Quando leggi una lettera tragica come quella terribile di Michele che a trent’anni dopo averla scritta si toglie la vita per non essere riuscito a trovare un lavoro, ti domandi cosa sta accadendo ai nostri giovani. Non puoi ignorare che la crisi economica e la mancanza del lavoro sia un’esperienza angosciante per un ragazzo che sta cercando di affrontare la vita, ma forse non è abbastanza spiegarlo chiamando in causa il problema del precariato infinito. Di certo il malessere è profondo, strettamente collegato alla mancanza di prospettiva e il disagio intimo scava gallerie spaventose che inducono alcuni a fare scelte definitive.
Il problema è sicuramente quello di trovare un lavoro, ma anche quello di individuarne uno adeguato alle aspettative.
Segue qui:
https://www.ladigetto.it/permalink/62314.html

 

IL PADRE, TRA CALORE FAMIGLIARE E DUREZZA DEL MONDO. L’affascinante viaggio di Luigi Zoja attorno alla figura paterna, dalle origini a oggi, servendosi anche della letteratura

di Paolo Perazzolo, famigliacristiana.it, 11 febbraio 2017
Servirebbe un trattato per presentare Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri), uno degli studi più importanti sulla paternità, pubblicato in una edizione rivista, aggiornata e ampliata. In un viaggio affascinante e documentatissimo, Luigi Zoja ci porta a scoprire la nascita della paternità, il suo edifiarsi nel secoli, fino alla sua scomparsa, con la quale ancora oggi conviviamo. Schematizzando, possiamo dire che se la maternità è un ruolo più biologico, quello della paternità è invece culturale. Che appunto fiorisce nella nostra storia evolutiva, portando il maschio a distanziarsi dall’aggressività istintiva per diventare, appunto, padre.
Segue qui:
http://www.famigliacristiana.it/articolo/luigi-zoja-il-gesto-di-ettore.aspx

 

IL DISAGIO NASCOSTO DEL PUDORE

di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 11 febbraio 2017
Fatti molto diversi tra di loro, apparentemente incomparabili, possono essere accomunati da un elemento fondante, seppur non in grado di determinare, e di spiegare, da solo la loro eterogenea genesi. Tale elemento, un fattore facilitante, oltrepassando i singoli fatti eterogenei da esso co-determinati, segnala  una tendenza generale, che spesso rivela un rischio.
Il disagio del pudore  è l’elemento che accomuna l’intreccio di stravaganze in cui si è impigliata Virginia Raggi, sindaco di Roma, e l’omicidio compiuto da un giovane uomo, a Vasto, ai danni di un ragazzo, colpevole di avere causato, in un incidente stradale, la morte di sua moglie.
Sia la tragicomica faccenda della polizza Vita intestata a Raggi dal suo più stretto collaboratore, che l’assassinio compiuto a Vasto, hanno cause più complesse dell’eclissi del pudore. Tuttavia, questo aspetto condiviso configura i due eventi come “fatti di costume”, delineando i tratti di una mentalità collettiva anonima che se da una parte facilita la loro realizzazione dall’altra resiste a una loro vera elaborazione.
Nel caso di Virginia Raggi, il venir meno del pudore porta a mescolare con indifferenza fatti privati e atti pubblici. Non c’è bisogno di “gole profonde” per lavare i “panni sporchi” in presenza di tutti, quando la disinvoltura si fa disinibizione. La trasparenza, “il non aver nulla da nascondere”, da questione politica e civile è diventata oggetto di marchingegni legali. Si possono commettere leggerezze gravi in modo spensieratamente esibito perché non è importante dimostrare di essere seri e capaci, ma solo di non essere penalmente perseguibili.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6641

 

NEI MEANDRI DELL’ANIMO: DA DOSTOEVSKIJ A ‘BREAKING BAD'”

di Luigi Campagner, ilsussidiario.net, 11 febbraio 2017
Jesse: Io… Io non so come altro dirtelo, signor White. Cinque milioni di dollari non sono “niente”.
Walt: Hai sentito parlare di una compagnia chiamata Grey Matter?
Jesse: No.
Walt: Be’, l’ho cofondata ai tempi della specializzazione con un paio di amici. Per la precisione l’ho chiamata io così. Allora era solo una cosa dilettantesca. Avevamo un paio di brevetti in corso di registrazione, ma niente di sconvolgente. Eravamo consapevoli però del suo potenziale. Sì, avremmo conquistato il mondo. Questo pensavamo. Poi questa… Be’, successe qualcosa fra noi tre e, non scenderò in particolari, ma per motivi personali decisi di lasciare la compagnia e vendetti la mia quota ai due soci. Accettai una buonuscita di ben cinquemila dollari. Ah, be’, a quel tempo si trattava di un sacco di soldi. Indovina quanto vale adesso la compagnia?
Jesse: Eh… Milioni?
Walt: Miliardi. Mi spiego? 2,16 miliardi fino a venerdì scorso. Controllo tutte le settimane. E io ho venduto la mia quota, il mio potenziale, per soli cinquemila dollari. Ho venduto il futuro dei miei figli per qualche mese d’affitto.
Jesse: Non è la stessa cosa, però.
Walt: Jesse, ricordo che mi hai chiesto se il nostro scopo fosse produrre metanfetamina o fare soldi. Nessuno dei due. Costruire un impero è il mio scopo.
(Stagione 5, episodio 6, “Buonuscita”)
Per commentare Breaking Bad (2008­ – 2013) c’è anche chi come Movieplayer.it ha scomodato Dostoevskij. Paragone fin troppo lusinghiero ma non inappropriato per Vince Gilligan, autore, regista e produttore della premiatissima serie americana. Va infatti ricordato come anche l’autore di Delitto e castigo (1866) e dei Demoni (1873) fosse una brillante mente criminale prestata alla letteratura — Freud lo evidenziò in Dostoevskij e il parricidio (1927) — che ancora cattura i lettori attorno alle vicende dannate di Raskolnikov e Stavrogin, protagonisti rispettivamente dei due romanzi. Vince Gilligan è riuscito a stregare milioni di fan in tutto il mondo con la discesa agli inferi di Walter White e l’incontro­scontro con la mente luciferina dell’insospettabile Gus Fring. Un indizio, forse non trascurabile, di una parentela con il genio mefistofelico dello scrittore russo. Padre e marito, Walter White è un insegnante cinquantenne e chimico di valore che si scopre malato di cancro; molto competente, ma con scarsissimo seguito tra i suoi studenti è costretto ad arrotondare il magro stipendio con lavoretti umilianti in un autolavaggio. Il cancro entra in scena nei primi episodi della serie come fosse un personaggio e ne diventa il motore trainante per le prime due stagioni. Con i giorni contati, angosciato per le sorti economiche della famiglia, White intravvede nella produzione e nello spaccio di metanfetamina l’unica possibilità di riscatto. Lentamente ma inesorabilmente si trasforma in Heisenberg: il nome di battaglia che indica la sua nuova identità di avido criminale, ispirata a Werner Karl Heisenberg (1901­1976), il fisico tedesco padre della fisica quantistica e del principio di indeterminazione, premio Nobel nel 1932. Heisenberg era rimasto in Germania anche dopo l’avvento del nazismo mettendo la sua scienza al servizio del progetto perverso di Hitler, cosi come White metterà la propria al servizio del progetto criminale che persegue attraverso il suo alias. Passo dopo passo Heisenberg avrà il completo sopravvento su White, nel frattempo impegnato nell’elaborazione di una coscienziosa morale famigliare il cui asserto fondamentale — lo faccio per la famiglia — ripete continuamente alla moglie Skyler, al giovane complice Jesse Pinkman e soprattutto a se stesso. Milioni di spettatori hanno così assistito alla creazione di ciò che in psicoanalisi si chiama “discorso ufficiale”: il discorso che il soggetto costruisce per giustificare la propria situazione e per alleviare la propria sofferenza. “Il discorso ufficiale” non è un discorso veritativo, ma di pura apparenza che è bene saper riconoscere per non farsi trarre in inganno. Le cinque stagioni di Breaking Bad sono sotterraneamente collegate tra loro da alcuni flashback del protagonista. I riferimenti al passato sono però scarni e lasciati dal regista volutamente nell’indeterminatezza. Solo pochi minuti dei sessantadue episodi sono dedicati a far conoscere al pubblico Elliot e Gretchen Schwartz, l’amico d’un tempo e la fidanzata con i quali White ha fondato la Grey Matter Technologies, una start­up di successo, destinata a diventare un “impero” economico. White aveva lasciato entrambi all’improvviso, uscendo anche dalla società. Gilligan, che non ama spiegare le sue scelte come regista, lasciando libero il pubblico di simpatizzare per White o per i coniugi Schwartz, non ha mai nascosto che la “svolta dark” del protagonista non andasse ricercata principalmente nella malattia, ma piuttosto nel feroce risentimento di White, dovuto a un senso di inferiorità nei confronti di Gretchen e della sua famiglia.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2017/2/11/LETTURE-Nei-meandri-…

MASSIMO AMMANITI: “IL NOSTRO MONDO È MALATO DI GIOVANILISMO, IL TERMINE ROTTAMAZIONE È INSOPPORTABILE”

di Nicola Mirenzi, huffingtonpost.it, 12 febbraio 2017
L’amore può essere anche il dono di un rimprovero: “I giovani hanno perso il coraggio di rischiare. Hanno smarrito la speranza. Li vedo ripiegati su se stessi in maniera narcisistica. Cercano conferme, anziché trovare la forza di affermarsi”. Per Massimo Ammaniti – psicoanalista, docente onorario di psicopatologia dello sviluppo a La Sapienza di Roma –, le rituali parole di compassione per la generazione precaria, senza lavoro, incerta, sfortunata, priva d’opportunità, sono il travestimento di una prigione: “In passato, i figli si contrapponevano ai padri, lottavano contro le loro norme, mettevano in discussione le loro ideologie, trasgredivano i loro divieti. Scontrandosi, incontravano se stessi, ciò che desideravano. Oggi, invece, i padri tendono ad assecondare i figli, forse perché si sentono colpevoli di non poter dar loro quello che vorrebbero. Ma così, anziché farli crescere, li ingabbiano in un’eterna adolescenza”.
Nel suo ultimo libro, “La curiosità non invecchia” (Mondadori), Ammaniti affronta lo “scandalo” della terza età, secondo la definizione che della vecchiaia diede Simone De Beauvoir: un tempo della vita che consideriamo come un “attesa nel corridoio che porta alla fine” e invece è il momento nel quale emerge “la forza del carattere e può essere un momento di grande vitalità”.
Si sente ancora giovane a 74 anni, Professore?
Cronologicamente, sono avanti con gli anni. Tuttavia, credo che si diventi veramente vecchi quando si rinuncia a vivere, si perde interesse per ciò che accade, si considera la propria vita vita un’anticamera della morte.
E invece? 
La vecchiaia può essere un periodo molto produttivo e ricco della vita, il momento in cui se ne può ricostruire il senso, rintracciando il desiderio che ci ha spinto a fare ciò che abbiamo fatto.
Quando si è accorto di esserci dentro?
Non accade da un giorno all’altro. Fino ai cinquanta, sessant’anni è come se si percorresse la strada che si porta alla cima del monte. Arrivati lassù, si vede cosa c’è dall’altra parte. Cambia la visione. Si scorge la propria storia diversamente. Si può cominciare a dialogare con la morte.
Un tema tabù, la morte, per la nostra società.
Il nostro mondo è malato di giovanilismo. Viviamo un’eterna giovinezza artificiale, dove la vecchiaia è nascosta come qualcosa di cui vergognarsi. Corriamo il rischio, così, di creare una società di plastica, abitata da perpetui adolescenti che non sanno distinguere i momenti della vita.
Segue qui:
http://www.huffingtonpost.it/2017/02/12/massimo-ammaniti_n_14702008.html 

VIDEO

DRAMMA VASTO, RECALCATI: “SE L’UOMO ELEVA LA VENDETTA ALLA DIGNITÀ DELLA GIUSTIZIA”

da video.repubblica.it, 1 febbraio 2017
Il gesto violento “che riempie il vuoto creato dal lutto, dalla mancanza dell’amato”. ‘uomo “che eleva la vendetta alla dignità della giustizia cercandosi un’altra giustizia e si paragona sui social al Massimo Decimo Meridio del film ‘Il Gladiatore”. Lo psicoanalista Massimo Recalcati riflette sul delitto di Vasto, la storia de giovane sposo che ha sparato all’investitore della moglie e poi si è consegnato ai carabinieri. E ricorda cosa spiegava Freud: “La vita diventa vita umana se è in grado di rinunciare alla violenza e l’esistenza della legge sancisce il non esercizio della violenza in cambio dell’appartenenza alla comunità degli uomini”.
Vai al link per sentire l’intervento audio di Recalcati:

https://video.repubblica.it/cronaca/dramma-vasto-recalcati-se-l-uomo-eleva-la-vendetta-alla-dignita-della-giustizia/266707/267086 

(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com

 

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