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Febbraio I – Scelte e computer, giovani, passioni e peccati

15 Feb 14

A cura di Luca Ribolini

GIOVANI CONTRO I PADRI SEGUITE CAMUS. L’educazione (im)possibile? “Quella del Nobel francese insegna a dire un no responsabile, in sintonia con i princìpi”

di Marco Neirotti, La Stampa, 1 febbraio 2014
 
Abitiamo un teatro nel quale siamo spettatori, prigionieri, attori di una deriva morale nell’assenza di riferimenti. Divampano sconforto e inerzia come su una nave che si frantuma sugli scogli con capitani ubriachi di potere e denaro. Eppure si può reagire, ricostruire. Si ostina a provarci Vittorino Andreoli, psichiatra, autore d’una cinquantina di opere (saggi, narrativa, teatro), una vita a curare la follia, lenire la sofferenza dello spirito, analizzare i percorsi dei più incomprensibili delitti. Con L’educazione (im)possibile, in testa alle classifiche, Andreoli, «pessimista attivo», penetra senza schemi né ricette l’abbandono di quest’epoca massacrata dall’individualismo feroce, di questo mondo «senza padri», e ci accompagna a un recupero di punti fermi, stili di vita, senso della comunione.
Professor Andreoli, la sua pare un’accorata preghiera laica a un’educazione da ritrovare in noi stessi. Possiamo farcela se anche chi dovrebbe porgerla respira un clima tetro di sopravvivenza attraverso furbizia e talento nell’arrangiarsi?
«Dobbiamo ritrovarla, riconoscendo e accettando sé e gli altri. Vivere non è un’astrazione, insegnare a vivere è fare insieme, gestire sentimenti. E’ una prova d’orchestra, in famiglia come in classe come nel gruppo sociale».
Si è spenta l’autorevolezza. Con quali riferimenti, allora?
«Non facciamo confronti con il passato, sono cambiati gli strumenti, basta pensare al digitale. Si deve insegnare a usarlo, non proibirlo: toglierlo ai ragazzi è come togliergli il maglione perché noi non abbiamo freddo. La scuola dell’obbligo per prima, che ancora boccia chi deve andarci. Vogliamo accordare i violini o soltanto tirarceli dietro?»
Scuola e famiglia. Un continuo accusarsi a vicenda.
«E’ insopportabile che si continui a colpevolizzare e colpevolizzarsi. Se anche esistesse la madre perfetta non darebbe garanzie: nella crescita agiscono la scuola, i pari, la società, la tv, i social network. Soltanto tutti insieme possono educare».
La figura simbolo è quella del «padre».
«Il cui ruolo non è dare ordini e castighi. E’ essere esempio, aver coerenza. S’è scoperchiata l’immoralità di Tangentopoli, poi per vent’anni ha dominato la “cultura” dell’immoralità, volontà precisa di diffondere la tendenza a imbrogliare, con soltanto differenze quantitative. Come può un padre del genere dire al figlio di restituire subito i dieci euro al compagno?».
La nuova solitudine incomincia in famiglia?
«L’educazione muore là dove non si può parlare di sentimenti ma di emozioni soltanto. L’emozione è reazione a uno stimolo (come davanti al computer), il sentimento è un legame fra persone basato sulla fedeltà, che ha la stessa radice di fede. Gli alpinisti in cordata, legati sulla parete del Monte Bianco, hanno grande fede l’uno nell’altro. Oggi invece c’è dissipazione di sentimenti, a partire dalla famiglia: i figli non si vedono dentro una storia».
Eterna conclusione: non ci sono più valori.
«I valori portano un’eco che sa di economia. Io parlo di legami fondati su princìpi. Non è difficile trovarli. Vedo gente indaffarata tra mille telefonate e domando: quante a tuo figlio? Nessuna, non avevo tempo, nulla da dirgli. E chiedergli come va? Il legame è la presenza dell’assente».
L’individualismo è ovunque. Come superarlo?
«Passando dal successo dell’Io all’affermazione del Noi. Freud inventò l’Io, che contiene l’inconscio che condiziona l’agire. Dunque: curare l’Io per risolvere i conflitti. Oggi mi batto il petto. Non esiste l’Io, esiste in quanto esiste l’Altro, non c’è attimo in cui siamo Io. Sono stati scoperti i neuroni specchio, che si attivano quando siamo in contatto con l’altro, dunque siamo biologicamente fatti per l’altro».
Lei accusa la politica di calpestare questo rapporto.
«Il Parlamento dovrebbe essere Noi, invece è un gigantesco insieme di sovrastrutture dell’Io. Il delirio dell’Io ha ucciso la democrazia, non viviamo in una democrazia ma in un’autarchia o in un’oligarchia mascherata, dominata da soggetti con la sindrome di Caligola. Guardi un politico con mille volti nello stesso istante. La grandezza di Pirandello, “uno nessuno centomila”…».
I «padri» nella letteratura. Chi altri nei suoi scaffali?
«C’è lo psichiatra Eugène Minkovski con il suo “tempo vissuto”. Per l’educazione dei giovani c’è L’uomo in rivolta di Albert Camus. L’uomo in rivolta è quello che dice no, ma soltanto dopo aver valutato la richiesta, incompatibile con i suoi princìpi. Ci sono tre modi di dire no. C’è l’opposizione feroce (faccio l’opposto per partito preso) ed è dipendenza al contrario. C’è la trasgressione, che nasce nel Carnevale di Venezia: dietro la maschera si poteva anche insultare il Doge, ma poi si tornava nei ranghi. E c’è la rivolta: non dire sì andando contro i princìpi».
I princìpi come libertà, non come gabbie.
«Altrimenti è la “libertà di uccidere uno sconosciuto”. Pensi a Dostoevskij, ai Fratelli Karamazov. Dostoevskij è un caposaldo, lui stesso malato, di epilessia e di gioco, che si faceva prestare i soldi da un altro grande, Ivan Turgenev, l’autore del fondamentale Padri e figli».
Padri e figli, legame che genera ansia.
«Fu Italo Svevo, tra l’altro traduttore di Freud, il primo a parlare di ansia. La prima cosa è essere se stessi, come si è».
Lei auspica un «umanesimo della fragilità».
«E’ la via per un’educazione. Da una parte c’è l’uomo con i suoi limiti specifici, quelli della carne, dell’impossibilità di rispondere ai quesiti che lo angustiano, dall’altra il mondo, nella duplice veste della natura e delle relazioni umane. Un conto è la debolezza, dove la forza è diminuita, come nella vecchiaia, un conto è la fragilità, legata alle condizioni esistenziali. La fragilità dell’uno è necessaria a quella dell’altro».
Neghiamo il nostro limite definitivo, la morte.
«Grazie alla scienza l’abbiamo sostituita con la malattia. Il potente gira con due medici al seguito, perché la malattia si può vincere, la morte no».
Un quadro desolante, eppure «pessimismo attivo».
«Il pessimismo immobile è fatalismo, come l’ottimismo ad ogni costo. Perciò continuo a darmi da fare. Nella Peste di Camus il medico sa bene qual è la realtà, eppure resta lì, a curare».

http://rassegnastampapagineculturali.wordpress.com/2014/02/01/sabato-1-febbraio-2014-la-stampa-tuttolibri/
 

PAPA. “SENZA” IL PECCATO, CI RESTANO SOLO FREUD E IL LEXOTAN

di Luca Doninelli, ilsussidiario.net, 1 febbraio 2014
 
Non è facile, nel nostro tempo, trovare un’ipocrisia paragonabile a quella che ci salta agli occhi ogni volta che la parola peccato compare nelle nostre conversazioni. Ne ha parlato, con la sua terribile semplicità, Papa Francesco ieri, a Santa Marta, commentando l’episodio biblico di Davide e Betsabea.
Davide, dice, considera ciò che ha fatto (non solo un adulterio, ma anche, indirettamente, un omicidio) come un problema da risolvere, qualcosa per cui è necessario trovare una soluzione. Tutti noi, ha detto, siamo tentati di fare altrettanto. Il fatto è che non è un problema: è un peccato.
La cultura che si definisce moderna ha in odio questa parola, anche se poi la confonde (secondo me in malafede) con la colpa. Ora, sarebbe sbagliato sostenere che nella Chiesa non si sia mai usato lo spauracchio del peccato per asservire le coscienze. È successo. Ma di qui a confondere il senso di colpa (che è sempre schiavizzante) con quello del peccato, ce ne corre.
Quello che irrita, nella parola “peccato”, è il suo riferimento alla libertà. Essa ci ricorda che il destino è inchiodato alla nostra libertà. E tante volte ci piacerebbe sbarazzarci della libertà. Meglio la dialettica storica, meglio i riflessi condizionati, meglio le palude della coscienza di cui parla Pirandello, meglio le reazioni inconsce, meglio il Dna e le sinapsi neuronali, meglio tutto.
Ma ecco un bel brano di Péguy, molto illuminante e pieno d’ironia, tratto dal Mistero dei Santi Innocenti.
Non mi piace, dice Dio, l’uomo che non dorme.
Colui che, nel suo letto, arde d’inquietudine e di febbre.
Sono favorevole, dice Dio, a che ogni sera si faccia l’esame di coscienza.
È un buon esercizio.
Ma poi non bisogna torturarsi al punto da perdere il sonno.
A quel punto la giornata è fatta, ben fatta e non c’è da rifarla.
Non ha senso tornarci sopra.
Quei peccati che ti danno tanta pena, ragazzo mio,
bè, è semplice:
amico mio, bastava non commetterli
quando eri ancora in tempo.
A questo punto è fatta: dormi. Domani non li rifarai più”
Tutta l’irritazione che la parola “peccato” ci trasmette si lega a quell’impertinente versetto, bastava non commetterli, che se la ride della dialettica storica, di Freud e del Dna. Perché alla fine è così: tutto il problema (questo sì, è un problema) di una buona educazione alla libertà – che è l’educazione fondamentale – sta nell’educare all’idea che le cose si possono fare e non fare, e che questo dipende soprattutto da noi.
Quello che irrita è tutta questa importanza che il cristianesimo dà all’uomo. Importanza vuol dire responsabilità, e questa è un’altra parola poco popolare (tranne quando si tratta di accusare qualcun altro, allora saltano fuori le “precise responsabilità”).
Noi odiamo queste due cose insieme, e Péguy ce lo ricorda con un sorriso. Preferiamo cullarci nel nostro limbo moderno di esseri perennemente irrisolti. Come disse un amico: ci infuriamo se qualcuno ci pesta un piede sul tram e non facciamo una piega se calpestano la nostra dignità.
Il rischio è che non teniamo più a nulla, che il mondo (ivi compresa la nostra vita) si riduca per noi a una specie di macchina da far andare avanti. Se fosse così, ci sarebbero al massimo errori, inadempienze, disattenzioni.
Ma prima o poi la libertà irrompe nella nostra vita, con il suo carico di peccato, e allora scatta l’alternativa: o cominciamo a prenderci sul serio, o dovremo accontentarci del lexotan (o del viagra).
 
http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2014/2/1/PAPA-Senza-il-peccato-ci-restano-solo-Freud-e-il-Lexotan/463124/

 

LE PASSIONI / 2: L’INVIDIA. È un desiderio frustrato di ciò che non si riesce avere e di quello che non può godere

di Giuseppe Majolo, ladigetto.com, 2 febbraio 2014
 
Si tratta di una passione intensa che sovente nasce dall’idea che l’altro o gli altri siano, rispetto a noi, in posizione di vantaggio. Si tratta di una passione intensa che sovente nasce dall’idea che l’altro o gli altri siano, rispetto a noi, in posizione di vantaggio. In questo confronto tra noi e gli altri si mescolano desiderio e ammirazione, rabbia e ostilità. Qualche volta odio. L’invidia è diversa dalla gelosia anche se spesso viene coniugata insieme. La gelosia è sempre in relazione con un rapporto affettivo, mentre l’invidia può non essere collegata ad una relazione. Perché si può invidiare la condizione sociale di un altro, il suo benessere materiale o quello psico-fisico, le cose che possiede che vi sia un legame affettivo con la persona invidiata.
L’invidia è un sentimento «adulto». È un desiderio frustrato di ciò che non si è potuto avere e di quello che non può godere. Chi invidia desidera cose materiali o spirituali che gli altri hanno oppure ne vorrebbe di più per se stesso. Così questa passione quando tracima si trasforma in risentimento, malanimo e malevolenza, pensiero ostile e inimicizia. Diviene una tensione negativa che non di rado si accompagna a una desolante speranza che l’altro perda quello che ha o provi umiliazione e insuccesso, sventura ma anche malattia o, addirittura, morte.
In questo senso allora l’invidia diviene un sentimento patologico e disturbante quando chi la prova non la sa contenere. Infatti se si è perso il senso del reale si rende visibile un malessere profondo che ha origine non tanto dal confronto, quanto da una valutazione errata di se stessi. Quando sfugge totalmente alla ragione, ha un lato paranoico e inquietante, che devasta. Perché è lo sconfinamento nell’odio, cioè in un’altro sentimento acuto e alle volte devastante.
In ogni caso senza un aspetto così negativo, l’invidia come passione presente nelle relazioni umane, di solito è occulta, nascosta, difficile da rintracciare. Da un punto di vista psicologico spesso rappresenta una ferita interna che secerne umori negativi e produce sofferenza e continua insoddisfazione. Se invece è contenuta entro limiti accettabili, può essere una passione preziosa che aiuta a migliorare se stessi.
 
http://www.ladigetto.it/permalink/31124.html

 

È UN LUOGO DELL’ORRORE MA ANCHE DI FASCINAZIONE. In tali figure incarniamo le pulsioni più scabrose e meno riconducibili a un’idea di civiltà. Rappresentano qualcosa che abita in noi, ma che è eccessivo

di Massimo Recalcati, la Repubblica, 2 febbraio 2014
 
Le immagini del mostruoso hanno da sempre popolato la fantasia umana e le sue narrazioni: dai graffiti preistorici alle ultime immagini cinematografiche, dai miti alle ultime produzioni letterarie. La tesi che Freud sostiene è che in tutte queste rappresentazioni gli esseri umani provano a dare voce e corpo al mostro che li abita. Quale mostro? Le spinte pulsionali più scabrose e più irriducibili al programma della Civiltà: la pulsione aggressiva e la pulsione sessuale, l’avidità sconfinata della pulsione che per raggiungere il suo fine rifiuta ogni limite imposto dalle leggi della Cultura.
L’apparizione del lupo cattivo, del cane nero, dell’animale feroce, dell’orco spietato, del drago con la lingua di fuoco, popolano regolarmente l’universo immaginario dei bambini che in questo modo provano a prendere contatto con le loro dinamiche pulsionali più perturbanti. Anche nell’adolescenza la presenza del mostruoso ricorre con costanza. Con le trasformazioni della pubertà l’adolescente fa l’esperienza inquietante che ciò che minaccia la propria identità viene dal proprio corpo. Il corpo pulsionale sgomita, emerge come una lava vulcanica che destabilizza l’immagine dell’Io che l’infanzia ha forgiato. È il problema che attraversa il disagio della giovinezza: come dare una forma al corpo informe della pulsione sessuale? Come dare diritto di cittadinanza al mostro che portiamo dentro di noi? Conosciamo la diffusione tra gli adolescenti di quei fenomeni che la psicopatologia ordina come dismorfofobici e che riguardano l’alterazione della percezione della propria immagine corporea riflessa nello specchio. In questi fenomeni l’immagine si deforma, appare straniera, il soggetto non vi si può più riconoscere. La sua deformazione mostruosa denuncia il sisma della pubertà come ingovernabile: cosa sto diventando? Chi sono? In quale mostro mi sto trasformando? Una mia giovane paziente bulimica alla fine di ogni abbuffata si sentiva simile a Hulk, il celebre mostro verde di Marwell risultato di un esperimento scientifico finito male. Metamorfosi atroce dell’immagine che troviamo anche in moltissime altre sequenze cinematografiche dove il corpo, parassitato al suo interno, diventa teatro di trasformazioni drammatiche.
Il mostruoso non è solo il luogo dell’orrore, ma anche quello di una fascinazione misteriosa perché incarna qualcosa che pur abitando in noi stessi ci eccede, diventando un oggetto, al tempo stesso, d’angoscia e di curiosità. La figura narrativa e cinematografica di Harry Potter ha ottenuto un successo planetario tra i ragazzini proprio perché il suo essere continuamente alle prese con mostri, demoni, magie e incantesimi rivela lo statuto ambivalente del mostruoso, sorgente di terrore ma anche di una vera e propria passione euristica.
Questo carattere tutto interno, “inconscio” direbbe Freud, del mostruoso ci viene rivelato, in un contrappunto sottile, da uno storico film di David Lynch com’è Elephant man.
Il protagonista è un essere umano deturpato nel volto da masse tumorali abnormi e costretto a ricoprirsi con un sacco per non diventare oggetto di angoscia. Nondimeno al di sotto di questa orribile immagine non c’è affatto un mostro, ma una persona dolce e sfortunata che rimpiange con tenerezza l’amore della propria madre, come per indicare la non coincidenza tra l’interno e l’esterno. Lo sappiamo per esperienza: al di là di un cattivo e farsesco lombrosianesimo i volti d’angelo non sempre rivelano un’anima altrettanto angelica. Per questa ragione il vero mostro nel film di Lynch non è il povero “Elephant man”, ma colui che sfrutta cinicamente quella mostruosità facendone uno spettacolo da circo e gli spettatori che pagano il biglietto per contemplarla divertiti. Accadde anche con l’anarchico Valpreda nel tempo della strategia della tensione: il mostro in prima pagina sembrava offrire un trattamento rassicurante dell’orrore della strage, la quale però non fu affatto concepita da chi era fuori dal sistema, ma da servizi deviati interni al sistema stesso. È questo tutto il peso specifico della tesi freudiana: l’angoscia per il mostruoso – l’attentato terrorista – riaccende le opzioni fobiche dei bambini impauriti dalla presenza misteriosa del loro corpo pulsionale. C’è bisogno di una sua evacuazione immediata: il mostro non sono Io, ma è sempre l’Altro (il cane nero, la strega, l’Orco, l’ebreo, il gay, l’anarchico terrorista). Questo significa che i “veri” mostri (Hitler, Stalin o il padre-padrone incestuoso che prostituisce e abusa sessualmente delle proprie figlie rappresentato dal film greco di Alexandros Avranas, Miss Violence), sono coloro che non vogliono in nessun modo incontrare il mostro che sono. Paranoia e perversione: per evitare l’incontro con il mostro il perverso si elegge ad Io ideale, realizzando con tenacia e perseveranza il suo disegno di costituirsi come un Egoarca; il paranoico ricerca invece l’impuro con il quale identificare il mostro per scagliarvi contro il proprio odio infinito. In questo senso Gesù aveva anticipato Freud: guardare la pagliuzza nell’occhio del nemico ripara dal dover constatare la trave che ci acceca.
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WATSON, IL SUPERCOMPUTER IBM, DIVENTA PSICANALISTA. NASCE L’INTERPRETAZIONE DEL TWEET
di Gianni Rusconi, ilsole24ore.com, 5 febbraio 2014

Dalla medicina alle predizioni di natura finanziaria fino al marketing in chiave social: i campi di applicazione del supercomputer Watson di Ibm sono i più disparati. L’ultimo di cui siamo venuti a conoscenza è la psicoanalisi. Spieghiamo subito di cosa si tratta. Le capacità cognitive del cervellone di Big Blue, e quindi le sue avanzatissime doti di comprensione del linguaggio umano, permetteranno di analizzare i messaggi che le persone pubblicano sui social network ed estrarre da questi dati utili a delineare la personalità della persona stessa. Watson, e non è fantascienza, potrà cioè studiare cosa (nonchè come e quando) scriviamo in ogni singolo tweet ed arrivare perfino a predirre eventi importanti che ci potrebbero accadere in futuro.
Un post diventa un input per elaborare proposte
Operativamente, la tecnologia cui Watson attinge scandaglierà tutto il materiale che circola online e le informazioni presenti in un database aziendale per conoscere in anticipo i legami fra i social media e i clienti-consumatori fedeli a un determinato marchio, prodotto o servizio. Compito del supercomputer sarà quindi quello di inviare al soggetto interessato offerte e proposte mirate, strettamente correlate al tipo di vita che questo sta conducendo, agli eventi che lo interessano, alle interazioni e alle relazioni da lui perseguite online. Cosa significa? Che, per esempio, cambiare lo status del proprio profilo Facebook o LinkedIn suggerirà a Watson analisi ed elaborazioni in ambito personale o professionale. O ancora. Annunciare in 140 caratteri la data delle proprie nozze darà modo alla super macchina di processare informazioni e suggerimenti relativi a prodotti e servizi per il futuro bebé.
La questione della privacy 
Emerge, da questa evoluzione ulteriore di Watson, l’intento ormai declarato di Ibm di mettere al servizio delle grandi multinazionali l’intelligenza del suo cervellone, e l’area del marketing è sicuramente fra le più sensibili all’utilizzo delle tecnologie di tipo cognitivo. Un tweet o post in cui si parla negativamente di una società o di un brand, infatti, permetterà a Watson di profilare il tal utente anche nell’ottica di migliorare il servizio di assistenza che la tal azienda garantisce ai propri clienti. Quanto alla privacy, chi non vorrà essere profilato e quindi non essere oggetto di analisi dovrà semplicemente mantenere in forma privata le informazioni personali contenute sui siti social. Ibm, dal canto proprio, sembra stia lavorando allo sviluppo di una funzione di “opt-out” universale, tramite la quale si potrà interrompere le comunicazioni di carattere commerciali di cui si è destinatari.
http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2014-02-05/watson-supercomputer-ibm-diventa-psicanlista-nasce-interpretazione-tweet–124953.shtml?uuid=ABlHGdu

SE LA DONNA È UN’OSSESSIONE. Perché si prende di mira il corpo femminiledi Massimo Recalcati, la Repubblica, 6 febbraio 2014

Quando irrompe l’insulto ogni forma di dialogo diviene impossibile perché la condizione del dialogo – sulla quale si sostiene ogni democrazia – è il riconoscimento di eguale dignità dell’interlocutore. L’insulto è l’irruzione di uno stop, di una violenza che rende la parola stessa una sorta di oggetto contundente. Nei recenti episodi che hanno coinvolto il leader del M5S e i sui adepti esso si è però colorato di un riferimento forte alla sessualità che sarebbe opportuno non sottovalutare. Perché? L’insulto sessista scavalca il dibattito politico pretendendo di toccare direttamente l’essere dell’avversario. L’odio più puro non è infatti per le idee, ma per l’essere: negro, comunista, ebreo, gay, donna? Il politico regredisce qui alla dimensione ciecamente pulsionale del pre-politico. Il nemico non è qualcuno che ha idee diverse dalle mie, ma è un impuro, un essere profondamente corrotto, indegno, privo di etica, per definizione reietto. Una donna è per il leader del M5S questo? Perché altrimenti suggerire la fantasia di cosa si potrebbe fare alla Boldrini avendocela in auto? A chi verrebbe mai in mente di proporre un quesito del genere? Gli psicoanalisti sanno bene che le fantasie non sono mai innocenti perché traducono moti pulsionali inconsci. Che razza di rappresentazione inconscia il leader del M5S ha del femminile? Lo scatenamento delle fantasie sessuali sul web ha fornito unritratto inquietante della pancia del movimento che egli rappresenta. Di questo ritratto vorrei mettere in luce due aspetti particolari.
Il primo è la prossimità perturbante con quella cultura berlusconiana che ha fatto della degradazione del corpo femminile una sua tristissima insegna illuminando così la matrice inconscia di quel movimento che si propone come alternativa al berlusconismo. “Sei una puttana!” “Sai fare solo pompini!” non sono affatto insulti post-ideologici, da bar sport, ma riflettono una ideologia totalitaria in piena regola che riduce la donna a roba, oggetto, strumento di godimento, pezzo di carne da dare in pasto agli appetiti di maschi in calore.
Il secondo è un arcaismo di fondo: quello del padre totemico che gioca coi figli al gioco della rivoluzione senza rendersi conto di quale potenziale ad alto rischio maneggia. Ha allora ragione la Presidente Boldrini a ricordarci che in chi esercita questa violenza verbale si cela uno stupratore potenziale. Con l’aggravante che l’appartenenza ad un collettivo, ad un gruppo in assunto di base rigido direbbe Bion, guidato cioè da un forte ideale di purezza autorizza a ingiuriare le donne rendendo il pericolo dello stupro ancora più reale: i commenti osceni, lo scatenamento di fantasie sadico-aggressive, la regressione dell’umano all’animale disinibito è, come mostra bene Freud ne La psicologia delle masse, un effetto del fare e del sentirsi “massa”. Non c’è limite al Male per coloro che pretende di fare le veci assolute del Bene.
Gramsci sosteneva che il valore etico di una Civiltà dovesse avere come sua misura di fondo la condizione e il rispetto per le donne. Potremmo tradurre questo concetto affermando che la democrazia ha sempre un’essenza femminile. Essa si fonda sulla cura delle relazioni, sulla legge della parola, sull’unione delle differenze, sulla dimensione fatalmente precaria che sempre comporta la vita insieme. L’ingiuria e il disprezzo verso le donne e le istituzioni democratiche non sono l’opposizione legittima all’ingiustizia, ma sono solo l’altra faccia dell’uso perverso e corrotto delle donne e delle istituzioni democratiche che ha fatto nel nostro paese scempio della politica.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/06Feb2014/06Feb20149f9337e3aaeaa06e3caa38ceab212b20.pdf
 
VERAMENTE È “TUTTA COLPA DI FREUD? Quali sono le terapie attualmente più efficaci? E come scegliere un analista? Due “professionisti della mente” ci guidano in un viaggio alla scoperta della psicoanalisi moderna
di Angelo Piemontese, panorama.it, 6 febbraio 2014
 
Ma davvero è Tutta colpa di Freud? Parafrasando il titolo del recente film con Marco Giallini, dove il protagonista è uno psicologo alle prese (con scarso successo) coi problemi esistenziali delle figlie, sorge spontaneo domandarsi se il pensiero del padre della psicoanalisi sia ancora oggi, a distanza di un secolo, davvero efficace nel curare il disagio psichico. Siamo ancora disorientati, e forse anche un po’ sospettosi, nei confronti del vasto e a noi profani oscuro mondo della psicoanalisi, specialmente se influenzati da raffigurazioni un po’ triviali come quelle cinematografiche. Chi veramente soffre di disturbi legati al complesso territorio della mente, spesso si butta di primo acchito su internet e si perde in una marea di informazioni di cui non riesce a venire a capo, molte anche fuorvianti. E se ci rivolge al medico curante talvolta si viene indirizzati a un professionista magari non proprio idoneo per la specifica patologia, proprio perché serve un esperto per comprendere i sintomi e valutare le conseguenti cure. Per far luce su questi ed altri aspetti, abbiamo chiesto a Mario Marinetti, presidente del Centro Milanese di Psicoanalisi (Cmp) e psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana (Spi) e Roberto Goisis, psicoanalista del Cmp e responsabile Cinema per la Spi di chiarirci alcuni dubbi.
Professor Marinetti, quanto nella psicoanalisi moderna è ancora influente il pensiero di Freud?
Il pensiero di Freud ancora oggi influenza in modo fondamentale la psicoanalisi moderna, per l’importanza che dà alla vita affettiva, alla sessualità, all’infanzia  e allo sviluppo del bambino attraverso le cure che riceve. Freud ci ha mostrato anche la capacità di approfondire e cambiare le sue teorie ogni qual volta nuove forme di patologia si presentavano alla sua osservazione. Nella sua opera è presente gran parte degli sviluppi a cui è andata incontro la psicoanalisi dopo la sua morte.
Qual è l’idea che la gente comune ha dell’analisi? Ci sono ancora dei pregiudizi?
“Nel cinema” dice Goisis “la nostra professione è spesso rappresentata molto diversamente dalla realtà. Ci siamo abituati e rassegnati. Ma non c’è nulla di male, anzi. Non stiamo parlando infatti di un documentario. La psicoanalisi è ancora un tema di interesse e di curiosità: anche un segnale di quanto la nostra professione sia entrata nella pratica quotidiana e nell’immaginario collettivo”.
Nel film l’immagine dello psicoanalista è un po’ stereotipata, com’è invece nella realtà?
Abbiamo di fronte uno psicoanalista sui generis, molto bizzarro. Certo ha la barba, come la maggior parte delle rappresentazioni iconografiche di Freud. Ma l’unico aspetto davvero stereotipato è, come accade quasi sempre nella realtà, che ogni volta che si viene a sapere la sua professione, attorno a lui ci sia un interesse misto a timore. Fuori dallo studio uno psicanalista è un essere umano come gli altri, e dovrebbe dimenticarsi di “fare” lo psicoanalista, ma cercare semplicemente di essere una “buona persona”, che non vuol dire una “persona buona”.
Quali sono, sempre nel film, le incongruenze o castronerie (forse usate a scopo comico) sulla figura del terapeuta e sull’analisi?
Ci sono molte incongruenze nella rappresentazione dello studio, ma soprattutto nessun psicoanalista chiederebbe a una persona che incontra nella vita di andare in analisi da lui, tantomeno se fosse il fidanzato della figlia. Nella realtà ovviamente è impossibile prendere in cura qualcuno così profondamente implicato nella propria vita. Uno psicoanalista dei giorni nostri è molto diverso da quello di trent’anni fa. Si è modificata la dimensione relazionale, nella quale anche il terapeuta è profondamente coinvolto e in contatto con i propri sentimenti ed emozioni: non è più un neutrale osservatore dell’altro, ma è un partecipante alle dinamiche intersoggettive.
E invece, cosa c’è di “azzeccato” di quanto dice il protagonista?
La classificazione che fa del genere maschile, i tre gruppi che identifica come categorie problematiche: il 95% degli uomini su questo mondo, come dice lui, salvandone solo il 5%, “sempre che si riesca ad incontrarli”. È molto divertente e azzeccata la categoria dei disturbi narcisistici, cioè quelle persone che sono sempre state considerate speciali, particolari e molto amate nella vita, specialmente dai propri genitori, che si credono un po’ “Dio”, e che fanno poi fatica a tenere i piedi per terra e ad avere delle relazioni normali.
Quindi qual è il messaggio “psicoanalitico” del film?
Nonostante il titolo che rimanda prepotentemente alla dimensione psicoanalitica, in realtà la psicoanalisi c’entra poco. La verità è che qualunque genitore fa fatica a capire i propri figli. E nemmeno basterebbero dieci lauree o la specializzazione in psicoanalisi. Infatti il protagonista, professionista della mente, non riesce a capire, gestire e affrontare le problematiche affettive delle figlie e alla fine a guidarlo sarà più il cuore che la ragione. Nel film sono presenti alcuni aspetti psicoanalitici, forse addirittura inconsapevolmente alle intenzioni del regista e degli sceneggiatori. In primis, la figura paterna. Il protagonista, abbandonato dalla moglie, ha deciso di non iniziare nessuna storia sentimentale per occuparsi delle figlie. Scelta discutibile quanto ai risultati: nessuna di loro riesce infatti ad avere una relazione duratura. Non è necessario scomodare Edipo, ma forse dobbiamo interrogarci sulla difficoltà di volersi bene e alla capacità di mantenere relazioni affettive stabili.
Identità sessuale, relazioni con partner molto più vecchi o giovani, recuperare il rapporto col coniuge: si va davvero in analisi per questi motivi, anche se non provocano ansie o depressione?
Le problematiche relazionali e affettive sono forse quelle per le quali più frequentemente si ricorre ad una terapia. Ci sono persone che chiedono aiuto per affrontare le problematiche affettive che qualsiasi relazione, sessuale o non, comporta quando fatica a funzionare. Depressione, disturbi d’ansia, attacchi di panico: in questi casi il sintomo emergente rappresenta soltanto la punta dell’iceberg di un problema molto più complesso che il lavoro analitico permette di comprendere e affrontare.
Professor Goisis, qual è attualmente in Italia la scuola o metodo di terapia più usato (ed efficace)?
Il più “usato” è ancora quello di derivazione psicoanalitica. Stanno avendo grande diffusione anche le psicoterapie di orientamento cognitivo, sostenute dalle prove di efficacia. Ma le terapie psicoanalitiche hanno una maggiore durata nel tempo. Basta scegliere quella giusta per quella persona, in quel momento: ”What works for whom, how and when?”
Per quali motivi in genere si intraprende un percorso terapeutico? Le relazioni sentimentali fallite quanto pesano?
“Negli ultimi anni è molto cambiato il tipo di sofferenza per cui si chiede l’aiuto dello psicoanalista”. Spiega Marinetti. “I grandi cambiamenti sociali, culturali, economici degli ultimi venti anni, la crisi delle strutture sociali che davano un senso di sicurezza e garanzia (stato, famiglia, religione, politica) hanno contribuito a fare emergere una grossa incertezza sul proprio senso di identità, una difficoltà a potere vivere ed esprimere le proprie emozioni: le persone che chiedono aiuto possono anche avere una brillante carriera lavorativa, ma spesso sono incapaci di avere una vita sentimentale soddisfacente e vivere una dolorosa sensazione di vuoto interiore.  Che a volte cercano di colmare con le tante droghe (reali o virtuali) che la vita moderna può offrire. Per questo è aumentato il consumo di sostanze. O, in alternativa, ci si chiude nel mondo di internet.”
Come può un paziente capire se la terapia “funziona”? Che risultati ci si deve attendere al termine della terapia?
“La terapia funziona se il paziente si sente compreso dal suo analista e se ciò lo aiuta a comprendere meglio l’origine affettiva dei propri disturbi.” Afferma Marinetti. “Ciò produce un miglioramento del suo rapporto con se stesso e con gli altri. Che si traduce non solo nell’attenuazione dei “sintomi” che l’hanno portato in terapia, ma anche in un miglioramento delle sue relazioni e della sua vita.” In soldoni, aggiunge Goisis, “se si accorge di avere una migliore armonia con se stesso e con le persone che gli stanno vicino, se avverte un miglioramento dei suoi processi di pensiero, di comprensione, di elaborazione delle emozioni “
Le cosiddette “terapie brevi” per cosa sono indicate?
Goisis sostiene che “per lungo tempo sono state osteggiate dagli psicoanalisti e considerate come incompatibili con un trattamento psicoanalitico. Da moltissimi anni in realtà le capacità nuove e più sofisticate dei terapeuti hanno permesso di sviluppare delle tecniche psicoanalitiche brevi particolarmente indicate negli stati acuti, nei problemi focali e monosintomatici, negli attacchi di panico, nelle crisi specifiche di certe fasi delle vita. I centri di Psicoanalisi diffusi nel territorio italiano hanno affinato lo strumento della consultazione, che permette non solo di comprendere i problemi di chi si rivolge a noi, ma anche di offrire una prima risposta per ridurre la sofferenza sulla psiche delle persone.  Se porta a un miglioramento e un benessere, la consultazione può anche essere sufficiente. In molti casi è l’inizio di un percorso psicoanalitico vero e proprio che potrà durare più a lungo nel tempo”.
Professor Goisis, come si sceglie il professionista giusto per le proprie esigenze?
Il vero successo terapeutico nasce da un buon incontro, definito anche “matching & tailoring”, tra le caratteristiche e i bisogni del paziente e le caratteristiche del terapeuta (tra queste non solo quelle professionali, ma anche quelle personali).  Quindi rivolgersi a un terapeuta che si sia formato seriamente, appartenente a delle associazioni psicoanalitiche ufficialmente riconosciute, e sufficientemente conosciuto nell’ambito della sua comunità. Un buon metodo è sentire il parere e l’esperienza di chi ci ha già lavorato. Inoltre, affidarsi al proprio intuito, sia quando rimanda a delle sensazioni positive, sia negative. Non c’è nulla di male nel verificare la compatibilità delle reciproche caratteristiche, magari consultando più di un professionista. nel caso di sensazioni spiacevoli, parlarne francamente e apertamente con il terapeuta. Per un buon successo di una terapia è fondamentale la reciproca interazione, che vuol dire parlarsi apertamente senza soggezione o timori reverenziali.
Se si scopre o si sospetta di aver a che fare con un ciarlatano, un incompetente o qualcuno che usa il carisma e le sue doti per suggestionare il paziente e abbindolarlo a chi ci si deve rivolgere?
“Rivolgersi a una delle associazioni psicoanalitiche per avere una verifica sulla correttezza del modo di lavorare del terapeuta. Come nel caso dei maltrattamenti, l’importante è non tenersi dentro le paure e i dubbi, ma parlarne con qualcuno in modo da avere un confronto e un conforto” suggerisce Goisis.

http://scienza.panorama.it/salute/Veramente-e-tutta-colpa-di-Freud

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M. RECALCATI E M. SERRA A NAUTILUS: I NUOVI FIGLI

della Redazione di Nautilus, raiscuola.rai.it, 3 febbraio 2014

Questa settimana, a Nautilus affronteremo il delicato tema del rapporto tra padri e figli. Federico Taddia inizierà – con lo psicoanalista Massimo Recalcati – analizzando proprio i figli dei nostri tempi.
M. Recalcati parte da una curiosità personale: “Da bambino avevo due eroi, Gesù e Telemaco, ed entrambi avevano problemi con il padre. Telemaco è un figlio che non vuole fare la guerra al padre, ma che avverte l’effetto tragico della sua assenza, ad esempio nella notte dei Proci, una metafora dei nostri giorni. Mentre Edipo era l’emblema della confusione generazionale, in Telemaco ho visto un’alternativa, e quando mi domandavo il perché di tutta questa sete di vendetta, oggi rispondo perché i Proci avevano la colpa di sprecare la loro vita”.
Michele Serra, in collegamento da Milano, ci parlerà del suo ultimo libro, Gli Sdraiati, dedicato proprio al rapporto con i figli adolescenti, “un libro che non è tenero né con i padri, né con i figli”. L’opinione del giornalista è che “un padre deve accettare che un figlio è altro rispetto a lui, durante l’infanzia c’è l’illusione che si possa plasmare i figli a propria immagine e somiglianza, ma questo è difficile a farsi, ed è il motivo per cui fare il genitore è un compito difficilissimo”.
Recalcati, in sintonia con questo punto di vista, aggiungerà che “l’immagine del padre eroe è superata e non bisogna averne nostalgia. L’elemento di esteriorità è peculiare dell’essere figli”.
Il dibattito è chiuso da M. Serra, che concluderà dicendo che: “Il figlio descritto nel libro è un riassunto di molti incontri con vari ragazzi, tra cui sicuramente i miei tre figli. Uno di loro ha detto che stare Sdraiati è l’evoluzione della specie”.
Per il video clicca sul link:
http://www.raiscuola.rai.it/articoli-programma/nautilus-i-nuovi-figli/23971/default.aspx
 
M. RECALCATI E P. JANNACCI A NAUTILUS: I PADRI IMPORTANTI

della Redazione di Nautilus, raiscuola.rai.it, 4 febbraio 2014

Nella seconda puntata, parleremo dei padri famosi, importanti, la cui vita condiziona inevitabilmente quella dei figli. Su questo legame, delicato, Massimo Recalcati ci dirà: “I figli hanno bisogno di incontrare il padre, un incontro che non sempre è armonioso, anzi ha una dimensione conflittuale, ma si può diventare padre, e oltrepassare il proprio padre, solo dopo averlo incontrato. Questo è il cuore dell’eredità. Non si ereditano solo geni e cose materiali, dobbiamo assumere ciò che ci è stato dato e poi oltrepassarlo”.
E parlando di figli di padri importanti, ascolteremo Paolo Jannacci, in collegamento da Milano, che ci racconterà del suo rapporto con il padre Enzo: “Ho intrapreso una carriera simile, ma diversa da quella di mio padre: lui era un genio, io non lo sono. Papà era o bianco o nero, io sapevo di avere mille sfumature e le ho sfruttate”. Il racconto di Enzo Jannacci è diventato un libro scritto da Paolo, in maniera molto originale, in cui il compositore dice: “Un figlio può raccontare il reale di suo padre, io ci ho provato, e con questi dialoghi ho cercato di fare uscire il reale di lui. E’ stato un uomo di responsabilità, ma non di proprietà; ha fatto un ottimo lavoro”.
Ancora, sull’eredità paterna, M. Recalcati dice: “Non è lo spermatozoo che fa la genitorialità. Ci deve essere un gesto di adozione, di accoglienza della vita, il che vuol dire che tutti noi abbiamo avuto molti padri. C’è incontro con un padre quando incontriamo qualcuno che ci dice che si può dare un senso alla vita, non semplicemente spiegarcelo”. Lo stesso Recalcati chiuderà la puntata sul tema dell’usanza di chiamare per nome un genitore, come faceva anche Paolo Jannacci: “Chiamare per nome il padre, se da una parte annulla le distanze – non si riconosce l’autorità – dall’altra parte consente che l’amore inizi dalla parte più intraducibile, quale è il nome. L’amore parte dal nome”.
Per il filmato clicca sul link:
http://www.raiscuola.rai.it/articoli-programma/nautilus-i-padri-importanti/23972/default.aspx
 
M. RECALCATI E C. VERDONE A NAUTILUS: I NUOVI PADRI
della Redazione di Nautilus, raiscuola.rai.it, 5 febbraio 2014

Nella terza puntata, Federico Taddia chiederà a Massimo Recalcati chi sono i nuovi padri, ed è questa la sintesi dell’intervento dello psicoterapeuta: “Oggi tutto si confonde a causa della mancanza di differenza tra le generazioni; questo è uno temi più attuali dei nostri giorni. La domanda è che cosa resta del padre, se la figura del padre padrone non c’è più, è evaporata? Sicuramente resta la dimensione della tenerezza, ma ancora di più resta la testimonianza, l’atto. L’oscillazione tra appartenenza – compito dei genitori fondarla – e erranza – ancora compito dei genitori saper lasciare andare un figlio – costituisce il mestiere dei genitori e la vita umana. Bisogna ripensare il padre dai piedi, cioè non dalla voce grossa, dal potere, ma dalla testimonianza, intesa non come gesto esemplare ma come significazione dell’assenza. Un figlio ha il compito di farsi davvero erede di questa testimonianza, ma, per quanto si possa aver fatto da genitori, niente potrà assicurare la felicità dei propri figli. Da questo punto di vista siamo tutti orfani”. Ancora, incontreremo il regista e attore Carlo Verdone che, nel suo ultimo film Sotto una buona stella, affronta le tematiche della crisi economica e del difficile rapporto tra un padre assente e i suoi figli.
Per il video clicca sul link:
http://www.raiscuola.rai.it/articoli-programma/nautilus-i-nuovi-padri/23973/default.aspx

 

Fonte:
https://rassegnaflp.wordpress.com/

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