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Figli della violenza che ci gira dentro . Tra filosofia e psicoanalisi.

22 Lug 13

A cura di Fabio Milazzo

Noi siamo figli delle stelle, figli della notte che ci gira intorno”, così cantava Alan Sorrenti negli splendenti anni ’80; oggi, collegandoci sul web o sintonizzandoci su qualsiasi canale satellitare con diretta sul mondo vien da dire che “siamo soprattutto figli della violenza”: che sia quella di Piazza Tahir o quella dei vicoli di Tunisi, la coniugazione in atto della dimensione della ferocia presente nell’uomo rimbalza nelle nostre vite, amplificata dalle immagini provenienti delle  “finestre sul mondo”.

Sloterdijk, in “ira e tempo[1] (Meltemi ed.), sostiene che “se si dovesse esprimere in una frase la caratteristica più importante dell’attuale situazione psicopolitica mondiale, questa dovrebbe essere: siamo entrati in un’era senza punti di raccolta dell’ira con prospettiva mondiale”. Mancando i normali canali di sfogo per le pulsioni aggressive che ci costituiscono in quanto uomini, ci troviamo ad abitare su una enorme bomba ad orologeria caricata di “rabbia”.

Ricordiamo tutti il Michael Douglas di Falling Down (un giorno di ordinaria follia, il film del 1993 diretto da Joel Schumacher) che, oppresso dai problemi di una delle tante quotidianità possibili, si lascia andare a raptus violenti che prendono di mira i tanti responsabili delle ingiustizie che è costretto a subire. Cadono sotto i suoi colpi: il venditore di bibite esoso, i due bulli ispanici, i gestori della tavola calda che gli avevano rifiutato il pasto per l’ora tarda, il neo-nazista venditore di armi che lo aveva preso per una sorta di cavaliere dell’Apocalisse.  Tutte vittime che, in un modo o nell’altro, portano lo spettatore a comprendere, se non a giustificare, la violenza esercitata su di loro.  L’interrogativo che pone in essere il film è dei più radicali: la violenza è giustificabile? Siamo disposti ad ammettere che la violenza “ci gira dentro”? Soprattutto questa seconda domanda fa da sfondo inespresso a tutto il film che gioca sui due temi della violenza “che siamo disposti a giustificare” e dell’identificazione con l’uomo qualunque che potrebbe essere il sig.Mario Rossi della porta accanto.

Il tema della violenza, pur così centrale nell’esistenza di tutti, è uno di quelli meno indagati dalla filosofia. A torto. Essere, dio, soggetto, oggetto, conoscenza, uno, insomma sempre la solita solfa (filosofica), estranea alla vita dei più; al contrario della violenza, così centrale, così presente. Recentemente ha provato a colmare il vuoto Lorenzo Magnani, che insegna insegna Filosofia della scienza presso la Sezione di Filosofia del Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Pavia, dove dirige il Computational Philosophy Laboratory. Magnani ha scritto un libro che già dal titolo, “filosofia della violenza” (Il Melangolo)[2], non lascia dubbi sui propositi: colmare un vuoto teoretico dal momento che la filosofia, con alcune eccezioni come Derrida, Benjamin e Arendt, ha poco praticato il tema ritenendolo, a torto, poco interessante. L’interrogativo che serpeggia lungo tutte le pagine riguarda l’essenza della violenza, la risposta al classico: “che cos’è?”

Magnani chiarisce che se tutti siamo immediatamente portati ad individuare il carattere violento di alcune situazioni, pensiamo ad un omicidio o agli scontri tra ultras negli stadi, il discorso diventa più problematico e sfuggente se analizzato in altri ambiti diversi. E’ la constatazione di un soggetto nel ruolo di vittima che, per contrasto, determina l’identificazione del gesto violento; più sfuggente è determinare cosa rende un atto “violento”. Magnani si interroga, inoltre, su due ambiti molto particolari: le istituzioni e il linguaggio. Sono le istituzioni ad essere violente, prevaricatrici? Molti di noi sarebbero portati a rispondere affermativamente alla questione, pensiamo ai casi in cui la “giustizia” stritola le esistenze di persone che vengono successivamente giudicate innocenti, il caso di Enzo Tortora è solo il più emblematico. E il linguaggio? Chi di noi si sognerebbe di definire il linguaggio violento? Certo, a pensarci bene, gli sproloqui, le invettive, le ingiurie, le offese… un po’ violente lo sono. Magnani, però, è più radicale (e noi concordiamo): ogni codice attraverso il quale si organizza una società è intrinsecamente violento e pone in essere, nei termini dell’infrazione possibile, la violenza; ogni rottura del codice attraverso il quale la società si organizza è un gesto violento. Altra tesi di Magnani è quella secondo la quale la violenza è possibile grazie alla morale; radicalizzando Hume possiamo dire che l’uomo si serve delle giustificazioni morali a posteriori per razionalizzare le azioni e i comportamenti violenti.  

Per provare a formulare qualche risposta all’interrogativo sull’ontologia della violenza proviamo a servirci della psicoanalisi. Jean  Bergeret, sostiene che la violenza è un istinto fondamentale che contraddistingue l’uomo in quanto tale; l’iscrizione nell’ambito del linguaggio permetterebbe al soggetto non soltanto di aprirsi verso un umwelt, ma anche di esonerare le pulsioni aggressive che sono strettamente legate alla violenza ma che di quest’ultima non costituiscono l’alter ego. Il tutto attraverso la bistrattata conflittualità edipica. In altre parole, Edipo è il dispositivo attraverso il quale l’individuo impara a gestire l’istinto violento e a non rimanere sovrastato dalle pulsioni distruttive che lo abitano. In principio c’è…la “violenza”. Tra  Lustprinzip e Realitätsprinzip c’è la “violenza fondamentale” che è una pulsione attraverso la quale il soggetto, inconsapevolmente, si arma nei confronti della vita e della conflittualità che le è inerente; un istinto di sopraffazione difensivo ci costituisce in prima istanza, un atteggiamento difensivo nei confronti dell’altro, senza nessuna connotazione sadica e che, solo l’erotizzazione della libido, declinerà in aggressività, in voglia di distruzione verso l’oggetto perduto (das Ding)[3]. Se l’aggressività ha come fine l’annientamento dell’oggetto ed è animata da una forma di godimento, la violenza mira alla salvaguardia del soggetto, ed è, quindi, priva di senso di colpa. Il concetto centrale è quello di “violenza fondamentale” che non presuppone nessuna ambivalenza  e non è animato, quindi, dalle istanze sadiche o da quella masochiste che declinano la violenza in aggressività.

Nella violenza non c’è l’erotizzazione che compare nell’aggressività, in cui si fa soffrire con piacere l’altro da sé.
La violenza deriva dall’angoscia vissuta dal soggetto in vista della sua integrità personale. Quanto detto ci porta a ridefinire:
1)      L’ontologia della persona.
2)      La società come luogo della necessaria mediazione di questa violenze.

Non sovrapporre “violenza” e “aggressività” sembra essere il primo, necessario, passo per una “filosofia della violenza” che abbia il coraggio di farla finita con le recenti posture teoretiche in voga, tendenti ad esaltare una presunta “dotazione morale”[4] dell’uomo.  C’è da tornare al sempre più svilito Hobbes e c’è tutto un lavoro da fare per il pensiero.
 
 



[1] Cfr. P.Sloterdijk, Ira e tempo, trad.it. a cura di G.Bonaiuti, Meltemi, Roma 2007
[2] Cfr. L.Magnani, Filosofia della violenza, Il Melangolo, Genova 2012.
[3] Cfr. J.Bergeret, La violenza e la vita. La faccia nascosta dell’Edipo, trad. it. A cura di E.Cimino, Borla, Roma 1998,
[4] Cfr. Marc D. Hauser, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male, Trad. it. di A. Pedeferri, Il Saggiatore, Milano 2007.

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2 Commenti

  1. giacomo.rotoli

    Ok riposto qui quello che
    Ok riposto qui quello che avevo scritto su fb …ho un commento a Mario che spero riposti il suo…
    Mi chiedevo piuttosto se però i due concetti “violenza” e “aggressività” non siano però intercambiabili nel loro senso nominalistico (non del significato sotteso). Letture etologiche giovanili (Lorenz) mi rimembrano di “aggressività” come idea di salvaguardia e quindi di “violenza” come suo prodotto al limite degenerante… si potrebbe anche dire che la violenza è l’erotizzazione dell’aggressività elementale insita in ciascuno di noi?
    Dico questo anche perché nel dibattito sulla violenza sulle donne (che seguo per motivi di volontariato occupandomi di separazioni) è dato per scontato che “violenza” non è salvaguardia o risorsa contro l’angoscia, ma una sua vile degenerazione (il bruto, il brutale omicida, il violento … sono tutti termini, insieme a molti altri, strautilizzati)…

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    • mzfabio

      Premetto che la mia lettura
      Premetto che la mia lettura si ricollega ad alcune analisi di Bergeret che trovo molto stimolanti. Secondo me, l’aggressività implica l’oggetto da sopraffare, in quanto scarto della Cosa, a differenza della violenza che dovrebbe rimandare ad una condizione potenziale, di mera sospensione dell’essere. In un caso abbiamo il gesto che traccia dei confini, che divide, nell’altro lo stato di perenne attesa entro cui si dà un mondo. Detto ciò sono possibili altre letture come quelle che suggerivi e che mi sembrano molto interessanti in relazione all’ambito cui fai riferimento.

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