(Per la presentazione del libro di Patricia Monica Vena, Le porte chiuse, L’Oceano nell’Anima Edizioni, Kabina Welcome, Caffè letterario "Novecento", San Benedetto del Tronto, 05.03.2017)
Patricia che scrive è un porto certo, non ti lascerà appeso su una nebulosa, non ti toglierà via la mano mentre sei in cammino con lei.
Questa precisione, che è frutto di lavoro poiché la vita è tutto fuorché chiara, è la cifra della scrittura sua che non ha mai tradito, anche se, a tratti, in alcuni di questi racconti c’è anche un tenere in considerazione che non tutto può essere chiaro, ma non solo, non tutto può essere detto, e nemmeno scritto.
Rassegnarsi a che tutto non può essere capito, né detto, né scritto, non è così veloce, richiede tempo. Per qualcuno no, apparentemente, almeno, ma anche in quello che emana. Come la mamma dell’amica di Patricia nel racconto “33 giri”.
Mi permetto di fare un’anticipazione, o spoiler, come si usa dire. Prometto che lo farò una volta sola. Le ragazze piangono le loro prime cotte da innamorate inconsolabili e ignare.
La mamma dell’amica prepara i panini. Loro si mettono a mangiare e pian piano a ridere. E’ così semplice e così dolce.
Ricordo tutto di quel pomeriggio, dice Patricia, meno i nomi dei ragazzi per cui piangevamo.
E’ l’età in cui i panini cambiano la prospettiva. La signora prepara panini forse lo sa. Forse sa perfino che non tutto si può dire, né della vita, né dell’amore. Una di quelle persone che non hanno bisogno di arrivarci. O che hanno scelto la praticità come stile di vita e non amano distaccarsene, forse è solo timidezza la sua, oppure pigrizia, sta di fatto, che, invece di parlare, va e prepara panini.
Per pura contingenza personale è questo il mio racconto preferito, e la signorapreparapanini la mia eroina.
Nel silenzio risuona la parola, quella che ci dà sollievo, ci porta via dalle nostre sofferenze, per portarci in una cameretta di ragazzine che piangono, con la musica giusta per piangere.
Bè per me Patricia ci ha preparato un bel cestino di panini, con cui smettere di piangere, sono vari e alcuni dalla digestione ben più difficile che quello delle ragazzine. Avere dei panini da mangiare è fonte di allegria per alcune persone, nel nostro mondo, questo. Vena non se lo dimentica e ci porta in viaggio di assaggio in assaggio, anche dove i panini sono un vero lusso.
Su ogni cosa s’accosta con molta umiltà, senza la pretesa di raccontarla tutta, che tanto tutta non la si può raccontare. Con discrezione. E con appunto di nuovo una certa precisione. Ecco nella cesta dei panini c’è anche una piccola mappa, che mostra solo ciò che riesce ad addomesticare. Un aspetto della vita, di una stanza. Viene illuminato solo quello che è necessario perché il lettore non si perda. Anche in un piccolo racconto, dove paradossalmente, lo rischia di più.
Dunque il cestino è pronto, la mappa c’è, pezzi di esperienza, di vita, vengono messi a disposizione del lettore, comunque sempre pezzi di esperienza, anche là dove i racconti non sono per nulla autobiografici sono sempre lembi della vita della scrittrice. Come dice Giuseppe Berto, controverso, ma bravo scrittore italiano:
“Uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé (…) perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una maliziosa deformazione…”[1]
Questo è vero, ma Patricia sembra resistere alla malia della malizia, e racconta di sé con il decoro e con la stessa illuminazione con cui parla degli altri. Illumina giustamente solo quello che può permetterle di non lasciare mai la mano del lettore, anche quando parla di sé.
Come in un altro delizioso raccontino che è “Il gioco preferito”. Alcune di queste pagine sono autentiche boccate d’ossigeno, piccoli leggeri sandwich nel cestino che nutrono senza appesantire, come il riso basmati. Altri hanno una digestione lunga e meritata, come “Il signor Carlo Gatti e sua moglie”, amabile testo su un argomento, la demenza senile, che sarebbe peggio del lardo di Colonnata, se non fosse che Patricia ci lavora su offrendocelo condito con delicatezza e costante tensione amorosa, così da poterlo mangiare perfino durante un pic-nic. Ci consola perfino, e soprattutto ci ricorda che non c’è niente come l’amore a contare, niente come l’amore a poterci rendere felici, sempre e comunque, perfino ai bordi di un vulcano, girando in tondo assieme alla signora Gatti, che purtroppo la malattia fa girare in tondo. E ci ricorda che la posizione amorevole è responsabilità nostra. Noi decidiamo cosa fare di ciò che l’altro fa, che ci fa soffrire. La moglie, non volendo, lo fa soffrire. Lui risponde con l’amore. Non sarà stato sempre così, a volte il signor Gatti sarà stato più stanco, più nervoso, a volte avrà perso la pazienza.Ma Patricia non ha la pretesa di illuminare tutto, e poi nello spazio di un racconto breve, ma illumina una cosa, una cosa precisa, tutto dipende dall’amore. La gioia del racconto è nell'amore del signor Gatti.
Le porte chiuse è pieno di porte aperte su piccole e grandi cose, eventi allegri e tristi, questioni personali e faccende del mondo.
Chi scrive è sempre lì, nell’atto di attraversare una porta, è questo che hanno in comune gli artisti e gli autistici, siamo tutti in parte obbligati a rimetterci sulla soglia.
Non si scrive solo a partire da quello che si sa, ma anche a partire da quello che si è, e si è non solo quello che si è stato, che è vivo in noi, ma anche quello che si è, in quel momento, mentre si scrive. Quando si scrive si sta sempre attraversando una soglia, e non una soglia qualunque, ma quella della soggettivazione. Quell’attimo unico e, per qualcuno, ripetibile, che è il farsi soggetto, costruirsi un posto, un posto tutto proprio, nel caos del linguaggio, dei significati, delle parole, dei numeri, delle cose di cui è fatto il mondo degli uomini. Che non è fatto di sviluppo armonico e naturale, dal momento in cui abbiamo iniziato a contare. Non saranno i social a deviarci, per il semplice motivo che siamo già deviati, dalla notte dei tempi, esattamente da quando l’Homo Sapiens ha seppellito per la prima volta i suoi morti, da quando ha detto che non si va a letto con i propri figli, comunque da quando il simbolico ha plasmato il reale.
Dunque anche l’atto della soggettivazione non è per nulla naturale, in quanto comporta al piccolo umano un’operazione simbolica alquanto complicata, che tra l’altro non si può fare da soli. E’ nel rapporto con l’altro e nella scelta di farsi rappresentare da un significante che si guadagna la posizione. La casa. Lo spazio soggettivo che ci permette di parlare con gli altri e giocare con le parole.
Perché le parole fanno male, questo ci insegnano gli autistici, le parole sono la vita stessa, la modificano e ne sono modificate. Scrivere vuol dire anche mettersi ad attraversare di nuovo la soglia, la porta che conduce, se conduce, alla fiducia nella parola, alla fiducia nell’altro, non perché da qualche parte ci sia un senso di tutto questo vociare, ma perché io scelgo di crederti. E ti parlo. Dò potere alla parola.
Questo auto parto un po’ straziante è parte del lavoro dello scrittore.
Patricia, mentre scrive le porte chiuse, altrettante ne apre a noi lettori. Tante piccole porte, tanti piccoli viaggi da poter intraprendere. Sicuri che non ci lascerà senza sostegno e senza panini.
Patricia che scrive è un porto certo, non ti lascerà appeso su una nebulosa, non ti toglierà via la mano mentre sei in cammino con lei.
Questa precisione, che è frutto di lavoro poiché la vita è tutto fuorché chiara, è la cifra della scrittura sua che non ha mai tradito, anche se, a tratti, in alcuni di questi racconti c’è anche un tenere in considerazione che non tutto può essere chiaro, ma non solo, non tutto può essere detto, e nemmeno scritto.
Rassegnarsi a che tutto non può essere capito, né detto, né scritto, non è così veloce, richiede tempo. Per qualcuno no, apparentemente, almeno, ma anche in quello che emana. Come la mamma dell’amica di Patricia nel racconto “33 giri”.
Mi permetto di fare un’anticipazione, o spoiler, come si usa dire. Prometto che lo farò una volta sola. Le ragazze piangono le loro prime cotte da innamorate inconsolabili e ignare.
La mamma dell’amica prepara i panini. Loro si mettono a mangiare e pian piano a ridere. E’ così semplice e così dolce.
Ricordo tutto di quel pomeriggio, dice Patricia, meno i nomi dei ragazzi per cui piangevamo.
E’ l’età in cui i panini cambiano la prospettiva. La signora prepara panini forse lo sa. Forse sa perfino che non tutto si può dire, né della vita, né dell’amore. Una di quelle persone che non hanno bisogno di arrivarci. O che hanno scelto la praticità come stile di vita e non amano distaccarsene, forse è solo timidezza la sua, oppure pigrizia, sta di fatto, che, invece di parlare, va e prepara panini.
Per pura contingenza personale è questo il mio racconto preferito, e la signorapreparapanini la mia eroina.
Nel silenzio risuona la parola, quella che ci dà sollievo, ci porta via dalle nostre sofferenze, per portarci in una cameretta di ragazzine che piangono, con la musica giusta per piangere.
Bè per me Patricia ci ha preparato un bel cestino di panini, con cui smettere di piangere, sono vari e alcuni dalla digestione ben più difficile che quello delle ragazzine. Avere dei panini da mangiare è fonte di allegria per alcune persone, nel nostro mondo, questo. Vena non se lo dimentica e ci porta in viaggio di assaggio in assaggio, anche dove i panini sono un vero lusso.
Su ogni cosa s’accosta con molta umiltà, senza la pretesa di raccontarla tutta, che tanto tutta non la si può raccontare. Con discrezione. E con appunto di nuovo una certa precisione. Ecco nella cesta dei panini c’è anche una piccola mappa, che mostra solo ciò che riesce ad addomesticare. Un aspetto della vita, di una stanza. Viene illuminato solo quello che è necessario perché il lettore non si perda. Anche in un piccolo racconto, dove paradossalmente, lo rischia di più.
Dunque il cestino è pronto, la mappa c’è, pezzi di esperienza, di vita, vengono messi a disposizione del lettore, comunque sempre pezzi di esperienza, anche là dove i racconti non sono per nulla autobiografici sono sempre lembi della vita della scrittrice. Come dice Giuseppe Berto, controverso, ma bravo scrittore italiano:
“Uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé (…) perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una maliziosa deformazione…”[1]
Questo è vero, ma Patricia sembra resistere alla malia della malizia, e racconta di sé con il decoro e con la stessa illuminazione con cui parla degli altri. Illumina giustamente solo quello che può permetterle di non lasciare mai la mano del lettore, anche quando parla di sé.
Come in un altro delizioso raccontino che è “Il gioco preferito”. Alcune di queste pagine sono autentiche boccate d’ossigeno, piccoli leggeri sandwich nel cestino che nutrono senza appesantire, come il riso basmati. Altri hanno una digestione lunga e meritata, come “Il signor Carlo Gatti e sua moglie”, amabile testo su un argomento, la demenza senile, che sarebbe peggio del lardo di Colonnata, se non fosse che Patricia ci lavora su offrendocelo condito con delicatezza e costante tensione amorosa, così da poterlo mangiare perfino durante un pic-nic. Ci consola perfino, e soprattutto ci ricorda che non c’è niente come l’amore a contare, niente come l’amore a poterci rendere felici, sempre e comunque, perfino ai bordi di un vulcano, girando in tondo assieme alla signora Gatti, che purtroppo la malattia fa girare in tondo. E ci ricorda che la posizione amorevole è responsabilità nostra. Noi decidiamo cosa fare di ciò che l’altro fa, che ci fa soffrire. La moglie, non volendo, lo fa soffrire. Lui risponde con l’amore. Non sarà stato sempre così, a volte il signor Gatti sarà stato più stanco, più nervoso, a volte avrà perso la pazienza.Ma Patricia non ha la pretesa di illuminare tutto, e poi nello spazio di un racconto breve, ma illumina una cosa, una cosa precisa, tutto dipende dall’amore. La gioia del racconto è nell'amore del signor Gatti.
Le porte chiuse è pieno di porte aperte su piccole e grandi cose, eventi allegri e tristi, questioni personali e faccende del mondo.
Chi scrive è sempre lì, nell’atto di attraversare una porta, è questo che hanno in comune gli artisti e gli autistici, siamo tutti in parte obbligati a rimetterci sulla soglia.
Non si scrive solo a partire da quello che si sa, ma anche a partire da quello che si è, e si è non solo quello che si è stato, che è vivo in noi, ma anche quello che si è, in quel momento, mentre si scrive. Quando si scrive si sta sempre attraversando una soglia, e non una soglia qualunque, ma quella della soggettivazione. Quell’attimo unico e, per qualcuno, ripetibile, che è il farsi soggetto, costruirsi un posto, un posto tutto proprio, nel caos del linguaggio, dei significati, delle parole, dei numeri, delle cose di cui è fatto il mondo degli uomini. Che non è fatto di sviluppo armonico e naturale, dal momento in cui abbiamo iniziato a contare. Non saranno i social a deviarci, per il semplice motivo che siamo già deviati, dalla notte dei tempi, esattamente da quando l’Homo Sapiens ha seppellito per la prima volta i suoi morti, da quando ha detto che non si va a letto con i propri figli, comunque da quando il simbolico ha plasmato il reale.
Dunque anche l’atto della soggettivazione non è per nulla naturale, in quanto comporta al piccolo umano un’operazione simbolica alquanto complicata, che tra l’altro non si può fare da soli. E’ nel rapporto con l’altro e nella scelta di farsi rappresentare da un significante che si guadagna la posizione. La casa. Lo spazio soggettivo che ci permette di parlare con gli altri e giocare con le parole.
Perché le parole fanno male, questo ci insegnano gli autistici, le parole sono la vita stessa, la modificano e ne sono modificate. Scrivere vuol dire anche mettersi ad attraversare di nuovo la soglia, la porta che conduce, se conduce, alla fiducia nella parola, alla fiducia nell’altro, non perché da qualche parte ci sia un senso di tutto questo vociare, ma perché io scelgo di crederti. E ti parlo. Dò potere alla parola.
Questo auto parto un po’ straziante è parte del lavoro dello scrittore.
Patricia, mentre scrive le porte chiuse, altrettante ne apre a noi lettori. Tante piccole porte, tanti piccoli viaggi da poter intraprendere. Sicuri che non ci lascerà senza sostegno e senza panini.
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