Il trauma esogeno infantile, causato da grave trascuratezza, abbandono, o aggressione violenta, evoca lo spettro della morte. La rescissione delle radici parentali, causata dall'assenza o dal venir meno improvviso del sostegno genitoriale, o addirittura dalla sopraffazione estrema da parte di chi ci si aspetta debba fornire protezione, può avere due sole vie d'uscita: la morte o l'adattamento.
L'adattamento al trauma è una condizione psicopatologica grave (soprattutto perché implica la persistenza dell'agente traumatogeno o addirittura la sua promozione o conferma nel rango di caregiver), ma è anche una via di sopravvivenza rispetto a evoluzioni estreme quali la frammentazione o la morte psichica, la morte tout-court, gli stati dissociativi permanenti.
Ancora troppo spesso, quando una vittima di violenza incontra le Istituzioni che dovrebbero proteggerla, pesa invariabilmente su di lei un sospetto di menzogna prodotta per conto proprio o per procura, di complicità, o addirittura di primo agente provocatore dell'aggressore, come purtroppo ebbe a scrivere uno psicoanalista della statura di Karl Abraham (in: Il trauma sessuale come forma di attività sessuale infantile, 1907).
Se si studiano a fondo i resoconti di Sàndor Ferenczi sull'analisi della paziente R. N. (Diario Clinico Gennaio-Ottobre 1932), si comprende con chiarezza come i traumi estremi patiti nell'infanzia implichino profonde scissioni nella personalità della vittima (ma analoghe considerazioni si potrebbero fare per le vittime adulte di violenza radicale subita nei campi di sterminio, o in condizioni di sequestro, di tortura, o simili). In tali stati psichici le funzioni protettive sono spesso demandate a piccoli frammenti della personalità originaria, o, nei bambini piccoli, potenziale. Questi frammenti assumono il compito di conservare forme sia pure infinitesimali di benessere.
Nelle condizioni in cui l'agente traumatico non può essere allontanato per assenza di aiuti esterni, l'adattamento al trauma diventa un'indispensabile funzione di sopravvivenza psichica. Esso può consistere in forme più o meno larvate di consenso alle aggressioni subite, anche alle più efferate, o al ricorso a stati allucinatori che rappresentino la scena come distante da chi la subisce. La necessità di trovare un modus vivendi con l'aggressore assume in questi casi importanza vitale.
Questi stati mentali, se ignorati dai tecnici e dai magistrati cui spetta il compito di fornire protezione, possono dar luogo a gravissimi fraintendimenti del tutto analoghi a quello che compare nel menzionato articolo scientifico di Karl Abraham.
Tali fraintendimenti danno luogo a fenomeni di ri-abuso, questa volta di provenienza istituzionale, e hanno spesso l'effetto perverso di compromettere per sempre ogni futura speranza di riparazione del tessuto psichico tanto profondamente lesionato.
L'avvio di procedure terapeutiche o giudiziarie, infatti, costituisce una rottura dello stato di adattamento e un passaggio dal perimetro della relazione abusiva a quello di un'altra che pretenderebbe di essere protettiva.
Tuttavia le condizioni nelle quali i meccanismi di adattamento si erano precedentemente instaurati erano così drammatiche da non consentire alternative; ed è pertanto comprensibile e razionale la resistenza del soggetto ad abbandonare la zattera alla quale si è tanto faticosamente aggrappato.
Per questa ragione, chi è investito di compiti tecnici ha l'obbligo di un'ampia conoscenza e di una capacità di previsione delle possibili evoluzioni dello stato di adattamento e della sua maggiore o minore rigidità, al fine di evitare comportamenti sia pure involontariamente iatrogeni e quindi destinati a riproporre come maggiormente affidabile lo stato mentale adattato.
Se, ad esempio, gli abusi sessuali a carico di un bambino si erano accompagnati a un'ingiunzione spesso terribilmente minacciosa di omertà, occorre sapere che l'esposizione dei fatti criminosi di fronte a un perito o a un giudice rappresenterebbero una rottura (di per sé non facilmente ottenibile) del patto omertoso, che per essere realizzabile e duratura, richiede una precisa contropartita: quella di una protezione certa e definitiva. Se questa non può esserci (e la dinamica processuale fa spesso in modo che non ci sia, come nei numerosissimi casi in cui il presunto reo non è riconosciuto colpevole per insufficienza delle prove addotte, che dipendono peraltro, e in grandissima parte, dalla capacità e dal grado di libertà espositiva della giovanissima vittima), allora il risultato dell'atto di fiducia nel mondo adulto fatto dal bambino nel confidarsi con una o più persone, andrà incontro nientemeno che alla restituzione alla potestà dell'abusante che non è stato riconosciuto come tale.
Ciò comporta il ritorno definitivo del bambino sotto la potestà del carnefice e nello stato di adattamento, considerati come luoghi maggiormente inespugnabili e sicuri di ogni stanza di terapia o aula di tribunale.
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