Percorso: Home 9 Rubriche 9 GALASSIA FREUD 9 Gennaio 2014 II – Arte, immagini e vita, eredità e cognomi, sogni e sonni

Gennaio 2014 II – Arte, immagini e vita, eredità e cognomi, sogni e sonni

19 Gen 14

A cura di Luca Ribolini

SCHNITZLER IL SOGNATORE. Per quasi tutta una vita lo scrittore tenne un diario onirico

di Romano Màdera, L’Unità, 9 gennaio 2014
 
Da quando aveva tredici anni fino a poco tempo prima della morte (1875-1931) Arthur Schnitzler ha annotato sogni. Inseriti originariamente nei Diari e, per decisione dello stesso scrittore, raccolti anche in un libro soltanto onirico. La curiosità, quando lo si apre, è pungente, e credo non solo per chi di Schnitzler ha letto qualche racconto o qualche testo teatrale, ma per tutti quelli che hanno visto almeno la versione cinematografica di «Doppio sogno» di Stanley Kubrick, Eyes wide shut. Schnitzler si porta addosso non soltanto l'atmosfera, insieme vorticosa e decadente, della Vienna e della cultura mitteleuropea della prima metà del secolo, ma anche i sapori raffinati di un eros provocatorio e intrigante, segnato da vertiginosi svuotamenti depressivi che risuonano di un confronto serrato con la morte. Sogni, amore e morte – inevitabile domandarsi della relazione con Freud che in quella stessa trinità aveva riassunto il senso della sua opera. Dalle porte dei sogni entrano ed escono, insieme a Freud, i personaggi della grande cultura del tempo: Alma e Gustav Mahler, Georg Brandes, Klimt, Kraus, Lou Salomé, Hugo von Hoffmanstahl, Zweig, ma c'è anche l'imperatore, e compaiono attrici, amanti vive e morte, la figlia che morirà suicida. Tuttavia non ci si deve lasciare ingannare, la curiosità in questo caso è cattiva consigliera e l'aneddotica, per quanto smagliante, non sembra affatto giustificare la lettura. Si potrebbe invece seguire forse una doppia pista: la prima è il confronto, delicato e insieme senza sconti con la psicoanalisi, di cui Schnitzler non vuole in nessun modo sminuire la genialità (almeno quella di Freud che, peraltro, confesserà a Schnitzler di essersi tenuto a distanza, preoccupato di trovare in lui una sorta di doppio poetico della sua opera scientifica), ma non esita a indicare limiti e cadute. La seconda pista ci conduce un passo più in là, dove Schnitzler comincia ad accumulare materiali per mostrare l'uso del sogno in letteratura e il ruolo della letteratura nei sogni. Nel libro queste due direzioni di interpretazione sono ben rappresentate dal saggio iniziale di Agnese Grieco (che ha curato l'edizione italiana, tradotta da Fernanda Rosso Chiosso) scritto insieme a Vittorio Lingiardi e dalla «Postfazione» di Leo A. Lensing. La curatela del libro, le note ai sogni, la ricerca bibliografica, le inserzioni di immagini di cartellone per il teatro e il cinema, ne fanno un oggetto di qualità, ormai raro per la sua esattezza e raffinatezza nel mondo editoriale. Il testo respira un'aria di ricerca, l'annotazione di un percorso d'inseguimento dell'impalpabile sostanza dei sogni, simile e insieme lontana dalla psicoanalisi nascente: Anna O. la paziente prototipica della mitologia psicoanalitica analizzata da Josef Breuer, il sodale anziano di Freud, chiamava la sua abitudine di sognare a occhi aperti «il suo teatro privato», anticipazione e forse essenza del metodo delle libere associazioni e della interpretazione dei sogni notturni. Così come Dora, la paziente con la quale Freud imparerà la forza del transfert, chiamerà «cura della parola», quello che stava sperimentando in analisi. Cura della parola in un teatro onirico privato, siamo proprio dentro la raccolta di Schnitzler. Nella scrittura de La signorina Else è come se Schnitzler riuscisse sulla pagina a empatizzare totalmente con il sentimento ferito di una giovane donna dalla brutalità dell'accoppiata sesso-denaro che domina la sua stessa famiglia e le sue conoscenze altolocate. Al contrario di Freud che, proprio nel caso di Dora, vuol vedere una fascinazione inconscia per un amico del padre squallidamente seduttivo. Rispetto alla psicoanalisi è proprio l'esercizio letterario a impedire a Schnitzler di accettare semplificazioni concettuali che trova inadeguate a fronte delle sottigliezze della fantasia. Così, quando Stekel usa lo strumentario freudiano per analizzare i sogni di Hebbel – che è presumibilmente il modello letterario più vicino per Schnitzler – lo scrittore bolla l'autore del libro sui sogni dei poeti definendolo «il ridicolo Stekel». Il punto è che proprio sul simbolismo onirico Freud aveva lodato il lavoro di Stekel ed è proprio questa fissità interpretativa, per la quale si finisce per dire che la verga di Mosè o di Aronne è il pene e la terra promessa è la vagina, che spingono Schnitzler all'irrisione: «E così, dopo tutto, sarebbe possibile interpretare un bastone o un albero come Adamo e una qualsiasi cavità come Eva, e ogni sogno, a piacimento, come un sogno biblico». La stessa sistemazione della teoria freudiana gli sembra peraltro troppo schematica. L'Edipo gli appare sfuocato dalla sua stessa impropria generalizzazione; Io, Super-Io ed Es, li giudica una trovata ingegnosa, ma poco vicina alla «realtà scientifica», per la quale una topografia più intricata e più vaga come quella fra conscio, medioconscio e subconscio potrebbe essere più adeguata. Qui Schnitzler sembra lui un po' superficiale, non assomiglia la sua idea alla distinzione freudiana di conscio, preconscio e inconscio? Probabilmente la differenza sta tutta in quel «medioconscio» intuito come una specie di camera della mescola nella quale il conscio, cioè la cultura formante dell'epoca e dell'individuo, va a influenzare lo stesso inconscio, e non solo come materiale di copertura o fenomeno illustrativo. Così il sogno diventa il contrappunto necessario della vita, il libro onirico l'altra faccia dell'autobiografia, la percezione fantastica il complemento dell'indagine sociale e psicologica del mondo esterno. L'educazione perbenista della società che conta viene irrisa dai sogni pieni di avventure sessuali e liberi dall'etichetta nei confronti dei potenti, anche l'imperatore diventa un bravo vecchietto e il suo pari cinese può essere felicemente irriso. La vita non detiene più la misura della realtà, ma si intride anch'essa di sogno: il doppio sogno sembra essere la cifra interpretativa del reale, la sua più profonda approssimazione. Così si può pensare che non per vie paranormali ma perché incidono e sono incisi dal mondo, i sogni di Schniztler avvertono per primi i segnali della prima guerra mondiale – quattro mesi prima del fatto storico l'arciduca Francesco Ferdinando viene assassinato in un sogno – e, sempre in sogno, i nazisti danno la caccia a lui e a Stefan Zweig (ebreo come Schniztler, come Freud, come Mahler e decine di altri grandi) anche se l'autore ebbe la «fortuna» di morire nel 1931, prima che l'orrore si manifestasse a pieno. Purtroppo quest'ultima «premonizione» era fin troppo giustificata: il libro dei sogni di Schnitzler gronda dei segnali appestanti dell'antisemitismo che brulica in tutta Vienna e colpisce persino i suoi straordinari intellettuali pur di diffamare gli ebrei, chiunque siano e dovunque si trovino.
 
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/09Jan2014/09Jan2014198cb4f41a0ba16712c7ac91689ba2fd

DALL’AUTOFICTION ALL’AUTOSCATTO IL PASSO È BREVE: LA CARICA DEGLI SCRITTORI SELFIE  
di Luca Ricci, ilmessaggero.it, 11 gennaio 2014

 
Ho scritto un libro di autofiction, come tutti. No, non è l’incipit di un romanzo di Walter Siti, però potrebbe essere la dichiarazione d’intenti di molti libri attuali: al posto del tipico personaggio di finzione il protagonista del testo diventa una specie di doppelgänger dell’autore. Ma gli scrittori più audaci hanno già fatto un passo in più, eliminando del tutto l’ambiguità e mettendo in scena direttamente loro stessi. Dall’autofiction all’autoscatto il passo è breve.
Inutile citarli tutti- Gramellini, Frascella, Pascale (lui esorcizza l’autofiction chiamandola otoficsiòn, alla francese), Piccolo-, piuttosto sarebbe interessante individuare una breve storia della dissoluzione del personaggio in letteratura. Nei poemi epici e nelle tragedie classiche il protagonista era un semidio, dotato di qualità superiori alla norma (per esempio l’astuzia di Ulisse), sprovvisto d’introspezione e in grado di rappresentare un modello comportamentale virtuoso (a tal proposito si legga l’illuminante Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza di Julian Jaynes, Adelphi). Questa granitica compattezza del personaggio venne in parte scalfita dall’epoca moderna. Il romanzo nacque come demistificazione del genere cavalleresco e avventuroso, e già Don Chisciotte era una stravagante miscela di vizi e virtù (la capacità introspettiva dell’immaginazione rappresenta il più grande elemento corruttivo di cui un personaggio può essere dotato). I protagonisti dei romanzi borghesi, da Emma Bovary a Dorian Gray, diventarono memorabili per la loro dissolutezza e la letteratura di colpo cessò di assolvere a una funzione pedagogica e normativa.
Nel 1840 Edgar Allan Poe scrisse L’uomo della folla, in cui il personaggio principale non aveva neanche un nome e si limitava a seguire uno sconosciuto rendendosi conto a poco a poco della sua incapacità nel raccontarlo a se stesso (e dunque al lettore). Ma l’horror vacui della folla romantica non era nulla in confronto alla massa novecentesca che di lì a poco avrebbe fatto la sua comparsa. Tentativi di demolizione del personaggio covavano sotto la brace delle teorie di Elias Canetti e José Ortega y Gasset. Sigmund Freud e la psicanalisi avviarono sul piano letterario la rivoluzione del flusso di coscienza. Ma il personaggio visto da vicino evaporò: dentro siamo tutti uguali. Lo stream of consciousness fu l’apice del ribaltamento del concetto di personaggio classico. Zeno Cosini inaugurò la galleria affollatissima degli antieroi, provvisti di una coscienza abnorme ma inetti all’azione (men che mai agli atti valorosi dei guerrieri omerici). E che dire del lavoro di Franz Kafka? Traslando sistematicamente la narrazione su un piano allegorico fu un vero serial killer di personaggi (l’agrimensore K. e Josef K. non hanno neanche l’identità minima di un nome). Il lavoro di Samuel Beckett si stagliò per genialità e perfidia. Le mutilazioni fisiche dei suoi personaggi sono un’operazione metaletteraria prima che drammaturgica, e il balbettio che non riesce a organizzarsi in una trama coerente di Molloy una specie di pietra tombale su quel che Coleridge aveva chiamato la sospensione dell’incredulità. Del resto perfino J. D. Salinger, padre di uno dei più memorabili personaggi del novecento, aveva dato segni d’insofferenza riguardo alla costruzione dei characters. L’attacco de Il giovane Holden è molto eloquente: “Magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne”.
Avanguardie e neoavanguardie finirono il lavoro di destrutturazione riducendo i personaggi a funzioni, tracce minime (tagli?) nelle pagine dei libri. La narrativa era un’arte consolatoria e perciò reazionaria, e raccontare un personaggio memorabile un’attività esecrabile: molto meglio darsi a giochi combinatori (ad esempio Calvino) o linguistici (ad esempio Manganelli). Poi è arrivato il minimalismo, con una proliferazione di short stories in cui spesso e volentieri ai personaggi si negava una descrizione fisica e soprattutto uno sviluppo, un cambiamento, una crescita. Il tutto espresso in un linguaggio secco, essenziale, che sfociava immancabilmente in finali aperti. Nel racconto Perché non ballate? di Raymond Carver l’impossibilità della descrizione di una coppia diventa paradigmatica: “Alla luce della lampada, c’era qualcosa nelle loro facce. Qualcosa di bello o di brutto. Impossibile dirlo”. La stessa cosa che oggi verrebbe da dire agli scrittori che, prima di scrivere, si mettono in posa.
Twitter: @LuRicci74
 
http://www.ilmessaggero.it/cultura/libri/ricci_capricci_ricci_selfie/notizie/441553.shtml

IL VERO CAMMINO È DENTRO DI NOI

di Ferdinando Camon, luoghidellinfinito.it, 11 gennaio 2014
 
In ogni viaggio c’è una scena clou: col passar degli anni resta solo quella, il resto svanisce. Buenos Aires è bellissima, gli emigrati italiani, al cinquanta per cento veneti, mi avevano invitato e mi hanno festeggiato, ma l’unico, profondo, indelebile ricordo resta in me l’adunata delle Madri della Plaza de Mayo. Si trovano ogni settimana, il giovedì alle 14; si abbracciano, si baciano, mi son fatto abbracciare, ho sentito sulla mia guancia la guancia della madre-senza-figlio, ho spartito il suo lutto, da allora è anche un mio lutto. Borges ha una pagina in cui esalta il potente che governa senza democrazia: non amo Borges. Parigi è la città che amo di più. Un giornale mi aveva chiesto di visitare la tomba di Sartre, e raccontare cosa sentivo. Avevo un debito con Sartre come verso un padre, sulla tomba gli dissi o pensai: «Sono qui», e la risposta fu: «Io no». Sartre era ateo, io cristiano. L’ateo morto è solo un ricordo di qua, di là non esiste più, quell’«Io no» significava: «Non sono da nessuna parte». Il dialogo era impossibile. Andai via senza aggiungere altro. Berchtesgaden è il villaggio sulle montagne bavaresi dove sorge il Nido dell’aquila, residenza estiva di Hitler. La villa, ora un ristorante, sta in alto, dove passa il limite della vegetazione. Arrivi nello spiazzo sottostante e parcheggi.
Entri nelle viscere della montagna per un lungo tunnel, in fondo c’è una caverna rotonda, lì scende e da lì risale un vasto ascensore, quello di Hitler, in un angolo sta ancora il telefono di Hitler, in ottone. Sali in verticale, esci, e sei davanti al salone della villa: lì ti aspettava il Führer, dritto in piedi. Tu sali dagli inferi, nella luce ti aspetta il dio della Germania, che vuol diventare il dio del mondo. Si mangia, nel cortile del ristorante. È pieno di tedeschi. Loquaci, euforici, eccitati. Sembrano meridionali. Senti che pensano: «Se avesse vinto!». Isla Nigra, Cile, sulla sponda del Pacifico: c’è la tomba di Neruda, una tomba matrimoniale, in giardino, inclinata verso l’oceano, come una scialuppa che sta per scivolare in acqua. La casa di Neruda è piena di paccottiglia: perfino la toilette è tappezzata di ricordi autocelebrativi, piatti, manoscritti, pare una villa di D’Annunzio. Mosca, Berlino, Lisbona, Rio de Janeiro, Leningrado… Ma l’emozione più profonda l’ho sentita nello studio di Cesare Musatti, a Milano. Musatti mi aiutava a capire i sogni. Su quel lettino s’eran sdraiati Pasolini, Ottieri, i più grandi scrittori italiani. Mi pareva di sentirli parlare. Sottovoce. Raccontavo i miei sogni, ed era come se parlassi di uno sconosciuto. Ma ero io. Ricordo i simboli, gli enigmi, le metafore. Ci ripenso, ogni tanto. L’unico vero viaggio è dentro di sé, e non finisce mai: tu muori, ma il tuo viaggio continua.
 
http://www.luoghidellinfinito.it/Editoriali/Pagine/Il-vero-cammino-è-dentro-di-noi.aspx
 
 

LIBERI COGNOMI IN LIBERO PAESE

di Redazione, larena.it, 12 gennaio 2014
«Auguri e figli maschi»: è l’auspicio che il sentire comune ancora tributa alle coppie di sposi, segnalando la speranza di una discendenza connotata da prestigio, sicurezza, benessere e la possibilità di tramandare i beni, proseguire la professione paterna, perpetuare il cognome. Ecco uno stereotipo linguistico che testimonia la resistenza di una cultura patriarcale sul maschile come «valore umano aggiunto».
Ottima, dunque, la sentenza della Corte europea dei diritti umani che, una volta di più, ha segnalato una discriminazione italiana: quella sui figli come proprietà paterne fin dal «marchio» del nome, con annessa negazione alle donne del diritto di dare ai figli anche solo il proprio cognome.
Senza quell’intervento esterno, il governo Letta non avrebbe messo il turbo, approvando in tempi record in Consiglio dei ministri il disegno di legge che permette ai genitori di operare una scelta. «Il figlio/a assume il cognome del padre ovvero, in caso di accordo tra i genitori risultante dalla dichiarazione di nascita, quello della madre o quello di entrambi i genitori». E questo varrà anche per i figli nati fuori del matrimonio o adottati.
È una piccola ma importante modifica di quello che siamo abituati a considerare l’ordine naturale delle cose. Eppure, a dispetto degli stereotipi della cultura patriarcale, la nostra vicenda storica segnala un primato della sfera materna e femminile nei processi educativi, formativi e decisionali dell’ambito familiare.
Nel nostro Paese esiste una sorta d’innegabile matriarcalismo a doppia faccia: antico, vista la centralità culturale addirittura debordante della figura materna, cui sono delegati compiti di accudimento della prole poco supportati dal mondo maschile e dalle politiche sociali; più recente e gravoso per le donne, poiché il ruolo femminile finisce per essere molto più dinamico, «elastico» e pronto a riconvertirsi in logoranti «dentro-fuori» nel mondo del lavoro in tempi di guerra e in stati di necessità.
Ma perché tanto ritardo su questo terreno, perché è stato necessario aspettare i giudici europei? E perché, in rete, sono fioriti commenti maschili avvelenati sulla sentenza di Strasburgo?
Non si può rispondere a queste domande senza considerare come la consuetudine patronimica in Italia richiami due fattori, il patrimonio e la discendenza. Quest’ultima, sancita dal riconoscimento del figlio avallato dal nome del padre, è stata in passato interpretata, anche dalla «mater sempre certa», come assunzione di responsabilità maschile.
Quanto alla tra-smissione del patrimonio con il cognome, faceva tutt’uno con la figura del Padre indicata da Jacques Lacan, che segnalava la funzione simbolica di colui che incarna il potere materiale e la regola morale, cioè la Legge. Fino a costituire un ordine di segni nel linguaggio che «nomina» quel ruolo.
Oggi, però – e non da oggi – tutto è cambiato, inclusa la concezione di «patrimonio»: non c’è più l’uomo come unico produttore di reddito e patrimonio, mentre diffusa è la percezione che dare a chi nasce il cognome paterno significhi amputarlo di un diritto di collegamento con l’ascendenza da lasciare come scelta a entrambi i genitori.
E infine un’ultima cosa. Non è affatto peregrino legiferare su simili temi, poiché ci sono anche altre priorità nel nostro Paese. Il campo dei diritti civili alimenta le legittime speranze di milioni d’individui, include temi sentiti come il testamento biologico, i diritti delle coppie di fatto, il reato di clandestinità…
Se anche su questi terreni il governo trovasse il dinamismo appena mostrato, vincerebbe la scommessa di colmare un gap culturale e sociale non secondario.
 
http://www.larena.it/stories/Italia_e_Mondo/621321_liberi_cognomi_in_libero_paese/
 

L’AMORE, DA SOLO, NON BASTA. PERCHÉ UN FIGLIO HA BISOGNO DI UN PADRE E UNA MADRE CHE GLI DICANO: «VAI!»
di Benedetta Frigerio, tempi.it, 12 gennaio 2014
 
«Per vincere la sfida della famiglia bisogna giocare in attacco. Ci vogliono testimoni della bellezza di ciò che può nascere dall’amore fra un uomo e una donna». È per questo che lo psicoanalista Luigi Campagner ha intitolato il suo libro sulla famiglia Figli! O del vantaggio di essere genitori (Lindau, 13 euro, 155 pagine). «Perché ai miei figli insegno a vivere: amando mia moglie, lavorando per la mia crescita, coltivando le mie passioni. Ma da loro imparo anche a desiderare il massimo. Ad amare come un bambino, a guardare le cose in modo puro, per quelle che sono e non per quello che la maggioranza dice che siano».
Dottor Campagner, nel suo libro lei parla della distinzione in relazione al sesso, la prima che il bambino coglie. Sottolinea che questa diversità è arricchente, ma che spesso oggi nell’esperienza si configura come difficoltà e, in casi estremi, come obiezione di principio. Può spiegare perché la differenza sessuale arricchisce e come mai oggi è vista come una cosa negativa?
La differenza sessuale è una cosa da riconoscere più che da spiegare. Se oggi, invece, ci si riduce a parlare del rapporto fra uomo e donna stando “sulla difensiva” è perché spesso manca il fascino di una madre e un padre che sappiano accogliere la differenza tra loro come arricchente. Che sappiano dare, ma accettando anche di ricevere, di dipendere. Mi viene in mente l’abbraccio fra Adamo e Eva di Jan Gossaert, un’opera che ho visto nel Palazzo Abatellis di Palermo (nella foto in basso). I due si guardano come complici. In questo dipinto la differenza appare come un bene. Essa, infatti, è necessaria all’uomo per rispondere al suo bisogno naturale di completarsi e di generare, per crescere e costruire. Il problema è che oggi chi vive così è una minoranza di cui la maggioranza dei media non parla.
Come si può negare una differenza evidente?
Le differenze biologiche esistono e le vedono tutti. Anche chi le nega ideologicamente, pur provandoci, non può eliminarle. Ma l’evidenza non basta da sola, insieme a questa dobbiamo usare l’arma del fascino: far venire invidia della famiglia naturale, l’uomo e la donna devono provare a costruire delle vere e proprie opere familiari.
Perché non possono costruirne anche due uomini o due donne?
Il bambino ha bisogno di una mamma e un papà diversi e complementari. Per la psicoanalisi, come disse già Freud, è necessario che il bambino attraversi la cosiddetta fase fallica, importantissima per lo sviluppo equilibrato di una persona. In questa fase il bambino impara ad accettare la propria identità, attraverso l’accettazione del genitore dello stesso sesso. Se non avviene questo processo il bambino resterà frustrato, non si sentirà voluto e cercherà continue conferme dalle persone del proprio sesso, che si percepiranno poi come antagonisti. Invece, quando la propria identità viene accolta, il bambino diventa stabile e crescendo cercherà il compimento nell’altro sesso.
Abbiamo bisogno della diversità per completarci. Cosa implica questo?
Ad esempio, lasciare da parte l’orgoglio: accettare di farsi accogliere oltre che di dare. Spesso, invece, siamo nella posizione di chi vuole solo dare. Questo succede con i figli, non solo fra coniugi. È un peccato, perché il lasciarsi accogliere è necessario e bello, completa: dove manco io farai tu e viceversa, questo aiuta a costruire una bella famiglia e quindi una bella società.
Cosa pensa della campagna per la promozione delle adozioni fra coppie dello stesso sesso? Basta l’affetto?
I sentimenti non sono sufficienti a crescere un bambino. E poi perché una persona desidera un figlio? Le ragioni possono essere due. La prima è la volontà pericolosa di soddisfare una proiezione di sé che ci confermi, pensando di colmare dei vuoti. La seconda è il desiderio di dare, educando un soggetto ad amare ed essere amato, comprendendo e accogliendo la diversità dei sessi. Una mamma e un papà possono cadere nell’errore di trattare un figlio come una proiezione di sé che li soddisfi, ma è una possibilità che non si può predire a priori. Mentre legalizzando le adozioni di persone dello stesso sesso l’errore sarebbe approvato legalmente il fatto che queste coppie non potranno mai dare al figlio ciò di cui ha bisogno. La natura poi è un segnale che sta lì a dire: «Per questa via non puoi generare un uomo. Fermati!».
Eppure a qualcuno sembra impossibile rinunciare ai figli che desidera.
Io lavoro in alcune comunità, vedo genitori che volontariamente rinunciano a tenere con sé i figli se capiscono che per un po’ è meglio così. Non è facile, ma questo è un atto d’amore enorme. Mi viene in mente la madre dell’episodio biblico di Salomone, che pur di non vedere il figlio morire è disposta a lasciarlo alla donna che mente, dicendo che il bambino è suo.
Non si perde qualcosa così?
No, perché la vera felicità di un genitore è quella del figlio.
Si sente ripetere sempre più spesso che ciò che conta è solo l’amore.
La parola amore è abusata, intesa come un sentimento generico. Ai figli non bastano i soldi, l’affetto, le attenzioni. Oggi i bambini sono pieni di cose materiali e di protezioni. Li immergiamo in vasi di miele in cui soffocano. Ma se li teniamo sempre in braccio non impareranno mai a camminare. Il bambino stesso desidera essere lanciato nel mondo dall’adulto che vuole imitare. C’è un cartone africano, Kiriku e la strega karabà, che spiega cosa intendo. Kiriku chiede alla madre: «Ma perché la strega è cattiva?». La madre non gli spiega perché, ma gli dice che esistono persone cattive. Cioè gli dà degli argini entro cui muoversi e poi lo lascia andare.
Nel libro parla del rischio di alcune campagne pubblicitarie come quelle sulla pedofilia. Quali pericoli vede?
Se gli adulti appaiono come orchi si continua a separare il loro mondo da quello dei bimbi. Così il piccolo diventa un idolo, che alla fine rimane solo, senza rapporti: i grandi vedono i bambini come un fardello a cui bisogna dare senza ricevere, mentre nei piccoli si introduce un sospetto sull’adulto. Oggi bisogna muoversi al contrario, riavvicinando due mondi che hanno assoluto bisogno di dare e ricevere l’uno all’altro.
Lei scrive che aumenta l’intelligenza teorica delle nuove generazioni, mentre il pensiero pratico sta regredendo. Da dove deriva questa separazione?
Vedo tantissimi pazienti colti, bravissimi professionisti, ma assolutamente fragili nei rapporti, incapaci di gestirli. Come mai? Il bambino per crescere deve essere abituato a un lavoro continuo di costruzione di sé, di cambiamento di fronte all’altro, di accettazione del bene o di rifiuto del male. Se i genitori non hanno fatto questo lavoro continuo, se non hanno fatto squadra, anche nelle difficoltà, per costruire qualcosa, il figlio non sarà capace di fare altrettanto.
Nel suo libro spiega che spesso si parla ai figli senza tener conto del peso delle parole, che i genitori li sgridano senza mai confermarli, si irrigidiscono in un ruolo… Come riparare a questi sbagli che possono segnare i figli?
Siamo madri e padri, ma siamo innanzitutto uomini e donne e questo non va nascosto ai figli. Siamo esseri umani che sbagliano, hanno sbagliato, hanno delle passioni. La bussola per muoversi è la riflessione su di sé e sull’altro. Il far spazio a ciò che accade, a ciò che i figli ci dicono, lasciandoci interrogare. La tristezza in questo senso è un aiuto. Quando si introduce nel rapporto significa che c’è qualcosa che non andava, è quindi un bene che arrivi. Cosa fare? Attendere con pazienza e pensare a come cambiare, ricreare, riprovare in un altro modo. Siccome poi il rapporto di reciproca crescita è drammatico, si può anche arrivare a capire, come dicevo prima, che per un po’ è meglio che il figlio si riferisca ad altri. I veri genitori sono anche capaci di dire: «Vai, se serve, purché tu sia felice!». E qui si capisce come l’amore non sia un sentimento. Si può continuare a ripetere: ”Ti voglio bene”, come è giusto fare, ma servono anche i fatti. L’amore non è un enunciato generico, è un rapporto di dipendenza e di scambio reciproco, di errori e riprese, soprattutto fra i coniugi. E l’amore non si dice soltanto, si deve vivere: i bambini non imparano l’italiano se facciamo loro delle lezioni, ma se la mamma e il papà lo parlano fra loro e con lui.
Molti figli oggi sono in difficoltà perché non hanno davanti padri e madri come quelli che riporta a modello. Che risorse hanno?
Tutti, anche chi ha avuto bravi genitori, a un certo punto abbiamo cercato madri e padri spirituali che ci hanno sostenuto, consigliato. A volte guardiamo più a loro che ai genitori biologici. Anzi spesso sono i padri spirituali a farci riabbracciare anche quelli biologici. Ai ragazzi dico che devono cercare padri e madri, a scuola, al lavoro, dappertutto. Esistono.
 
http://www.tempi.it/l-amore-da-solo-non-basta-perche-un-figlio-ha-bisogno-di-un-padre-e-una-madre-che-gli-dicano-vai#.UtUxL9J5M8o
 

COGNOME MATERNO, LIBERTÀ O AUTOGOL?

di Benedetta Verrini, blog.vita.it, 14 gennaio 2014
 
Guardo sempre con sospetto ai fenomeni che vengono sbandierati come conquiste, nuove frontiere nella libertà delle donne. Così mi è accaduto, questa settimana, per la notizia riguardante l’attribuzione del cognome della madre ai figli. Dopo la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che ha stabilito come l’Italia debba adeguarsi a un quadro di libertà di scelta, il 10 gennaio il Consiglio dei Ministri ha immediatamente predisposto un disegno di legge in cui sarà previsto “l’obbligo per l’ufficiale di stato civile dell’iscrizione all’atto di nascita del cognome materno in caso di accordo tra entrambi genitori”. Non poteva mancare una retorica trionfalistica, da parte di molti giornali, sull’abbandono di un “odioso retaggio patriarcale” a favore di una piena affermazione del ruolo femminile. In realtà, più che una faccenda di patriarcato, l’attribuzione del cognome da parte del padre mi è sempre parsa una questione antropologica di buon senso.
Mi spiego: il figlio nasce dal corpo della madre, è naturalmente parte della sua famiglia (avete presente come sono onnipotenti, per dire, le nonne materne?). Così quando il padre “se lo chiama”, cioè gli attribuisce il proprio cognome, compie un riconoscimento che esce dalla sfera affettiva privata per diventare scelta pubblica, solenne, con cui si assume anche una precisa responsabilità nei confronti del bambino. Come cambierà il ruolo di quel padre, nei casi in cui la madre pretenderà l’esclusività del cognome? Come cambierà in un’epoca sempre più definita dai padri “pallidi”, periferici nell’educazione e nella vita dei figli? Non sarà un po’ come la scelta di tante coppie che, in procinto di sposarsi, optano per la separazione dei beni “per evitare problemi” in caso di divorzio?
Mi è venuto da chiederlo a Costanza Marzotto, docente all’Università Cattolica, mediatrice familiare e collaboratrice del Centro studi e ricerche sulla famiglia dell’Ateneo milanese. “Sicuramente trovo più equilibrata l’ipotesi del doppio cognome, così come avviene in Spagna”, premette. “E’ importante ricordare ai figli che sono stati generati da un atto d’amore che ha coinvolto due persone, e che fanno parte di due stirpi. La doppia appartenenza è sempre un valore, una ricchezza”. Nel caso di separazione, dunque, l’attribuzione del solo cognome materno non potrebbe rappresentare, invece che un vessillo di libertà, un indebolimento nella posizione della donna e dei figli? Non rischia di rendere più difficile il richiamo alle responsabilità dei padri?
“E’ uno scenario senz’altro possibile”, conferma Marzotto. “Di certo, all’interno di un matrimonio trovo insolita la scelta del solo cognome materno, a meno che la stirpe della madre non sia particolarmente forte e in qualche modo sovrastante. Oppure, può prefigurarsi all’interno di coppie miste, quando la madre desidera preservare il proprio retaggio socio-culturale. Ma l’esclusione della stirpe paterna mi pare comunque una perdita, l’esclusione di uno spazio per la diversità”.
Questa non è affatto un’epoca di patriarcato, prosegue la docente. “Tutt’altro: nei fatti il matriarcato oggi è dominante. La celebre psicoanalista Francoise Dolto non a caso parlava di figli che sono di “appannaggio materno”. La questione del cognome, pertanto, diventa delicatissima quando la coppia si separa e, paradossalmente, è proprio la conservazione della “radice paterna” a essere più a rischio. “In caso di separazioni fortemente conflittuali si assiste all’esclusione della stirpe paterna da parte di madri fortemente espulsive. Oppure, il cognome del padre viene di fatto già perso all’interno di molte famiglie ricostituite, quando c’è un nuovo partner e quando arrivano fratelli da seconde nozze, e inevitabilmente sparisce dal campanello di casa e a volte anche dai quaderni di scuola”.
L’antidoto a queste situazioni? “E’ il saper coltivare, nei figli, l’orgoglio per il nome e per l’appartenenza a entrambe le stirpi. Non si sta in piedi senza due radici”.
 
http://blog.vita.it/mammamia/2014/01/14/cognome-materno-liberta-o-autogol/

VIDEO

CLASSICI DELL’ARTE CHE SI ANIMANO CON LA MAGIA DEL DIGITALE – UNA… TEORIA

da lastampa.it, e Youtube, 14 gennaio 2014*

I grandi capolavori del simbolismo, manierismo, paesaggismo, romanticismo e neoclassicismo diventano animati. Il progetto di Rino Stefano Tagliaferro trasforma i gesti “congelati” dei dipinti in animazioni digitali.
*Nota del curatore – Il filmato è qui pubblicato come un articolo di psicoanalisi in quanto efficace teoria (cioè sfilata, rassegna) di atti, situazioni e antecedenti… teorie sulle relazioni umane (sessualità, maternità, aggressività…). Tengo a ringraziare Simona Nocera (@onlysismo) per la segnalazione. Riporto qui sotto la traduzione di Carla Bonollo della citazione del Sonetto XIX di William Shakespeare (vv. 1-4) posta all’inizio del filmato:

Tempo Divoratore, spunta gli artigli al leone,
E fa’ che la terra divori la dolce sua prole;
Strappa i denti aguzzi dalle fauci della feroce tigre,
E fa’ che bruci nel suo sangue la longeva fenice” (L. R.).

Il sito del progetto: http://www.rinostefanotagliafierro.com/beauty_manifesto.html
Link de lastampa.it: http://www.lastampa.it/2014/01/14/multimedia/cultura/i-classici-dellarte-si-animano-con-la-magia-del-digitale-7V7Zf98gaXjgwNthM8QebP/pagina.html
Fonte della traduzione: http://branoalcollo.wordpress.com/2011/02/06/tempo-divoratore-spunta-gli-artigli-al-leone%E2%80%A6/

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

 

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