SCHNITZLER IL SOGNATORE. Per quasi tutta una vita lo scrittore tenne un diario onirico
di Romano Màdera, L’Unità, 9 gennaio 2014
Da quando aveva tredici anni fino a poco tempo prima della morte (1875-1931) Arthur Schnitzler ha annotato sogni. Inseriti originariamente nei Diari e, per decisione dello stesso scrittore, raccolti anche in un libro soltanto onirico. La curiosità, quando lo si apre, è pungente, e credo non solo per chi di Schnitzler ha letto qualche racconto o qualche testo teatrale, ma per tutti quelli che hanno visto almeno la versione cinematografica di «Doppio sogno» di Stanley Kubrick, Eyes wide shut. Schnitzler si porta addosso non soltanto l'atmosfera, insieme vorticosa e decadente, della Vienna e della cultura mitteleuropea della prima metà del secolo, ma anche i sapori raffinati di un eros provocatorio e intrigante, segnato da vertiginosi svuotamenti depressivi che risuonano di un confronto serrato con la morte. Sogni, amore e morte – inevitabile domandarsi della relazione con Freud che in quella stessa trinità aveva riassunto il senso della sua opera. Dalle porte dei sogni entrano ed escono, insieme a Freud, i personaggi della grande cultura del tempo: Alma e Gustav Mahler, Georg Brandes, Klimt, Kraus, Lou Salomé, Hugo von Hoffmanstahl, Zweig, ma c'è anche l'imperatore, e compaiono attrici, amanti vive e morte, la figlia che morirà suicida. Tuttavia non ci si deve lasciare ingannare, la curiosità in questo caso è cattiva consigliera e l'aneddotica, per quanto smagliante, non sembra affatto giustificare la lettura. Si potrebbe invece seguire forse una doppia pista: la prima è il confronto, delicato e insieme senza sconti con la psicoanalisi, di cui Schnitzler non vuole in nessun modo sminuire la genialità (almeno quella di Freud che, peraltro, confesserà a Schnitzler di essersi tenuto a distanza, preoccupato di trovare in lui una sorta di doppio poetico della sua opera scientifica), ma non esita a indicare limiti e cadute. La seconda pista ci conduce un passo più in là, dove Schnitzler comincia ad accumulare materiali per mostrare l'uso del sogno in letteratura e il ruolo della letteratura nei sogni. Nel libro queste due direzioni di interpretazione sono ben rappresentate dal saggio iniziale di Agnese Grieco (che ha curato l'edizione italiana, tradotta da Fernanda Rosso Chiosso) scritto insieme a Vittorio Lingiardi e dalla «Postfazione» di Leo A. Lensing. La curatela del libro, le note ai sogni, la ricerca bibliografica, le inserzioni di immagini di cartellone per il teatro e il cinema, ne fanno un oggetto di qualità, ormai raro per la sua esattezza e raffinatezza nel mondo editoriale. Il testo respira un'aria di ricerca, l'annotazione di un percorso d'inseguimento dell'impalpabile sostanza dei sogni, simile e insieme lontana dalla psicoanalisi nascente: Anna O. la paziente prototipica della mitologia psicoanalitica analizzata da Josef Breuer, il sodale anziano di Freud, chiamava la sua abitudine di sognare a occhi aperti «il suo teatro privato», anticipazione e forse essenza del metodo delle libere associazioni e della interpretazione dei sogni notturni. Così come Dora, la paziente con la quale Freud imparerà la forza del transfert, chiamerà «cura della parola», quello che stava sperimentando in analisi. Cura della parola in un teatro onirico privato, siamo proprio dentro la raccolta di Schnitzler. Nella scrittura de La signorina Else è come se Schnitzler riuscisse sulla pagina a empatizzare totalmente con il sentimento ferito di una giovane donna dalla brutalità dell'accoppiata sesso-denaro che domina la sua stessa famiglia e le sue conoscenze altolocate. Al contrario di Freud che, proprio nel caso di Dora, vuol vedere una fascinazione inconscia per un amico del padre squallidamente seduttivo. Rispetto alla psicoanalisi è proprio l'esercizio letterario a impedire a Schnitzler di accettare semplificazioni concettuali che trova inadeguate a fronte delle sottigliezze della fantasia. Così, quando Stekel usa lo strumentario freudiano per analizzare i sogni di Hebbel – che è presumibilmente il modello letterario più vicino per Schnitzler – lo scrittore bolla l'autore del libro sui sogni dei poeti definendolo «il ridicolo Stekel». Il punto è che proprio sul simbolismo onirico Freud aveva lodato il lavoro di Stekel ed è proprio questa fissità interpretativa, per la quale si finisce per dire che la verga di Mosè o di Aronne è il pene e la terra promessa è la vagina, che spingono Schnitzler all'irrisione: «E così, dopo tutto, sarebbe possibile interpretare un bastone o un albero come Adamo e una qualsiasi cavità come Eva, e ogni sogno, a piacimento, come un sogno biblico». La stessa sistemazione della teoria freudiana gli sembra peraltro troppo schematica. L'Edipo gli appare sfuocato dalla sua stessa impropria generalizzazione; Io, Super-Io ed Es, li giudica una trovata ingegnosa, ma poco vicina alla «realtà scientifica», per la quale una topografia più intricata e più vaga come quella fra conscio, medioconscio e subconscio potrebbe essere più adeguata. Qui Schnitzler sembra lui un po' superficiale, non assomiglia la sua idea alla distinzione freudiana di conscio, preconscio e inconscio? Probabilmente la differenza sta tutta in quel «medioconscio» intuito come una specie di camera della mescola nella quale il conscio, cioè la cultura formante dell'epoca e dell'individuo, va a influenzare lo stesso inconscio, e non solo come materiale di copertura o fenomeno illustrativo. Così il sogno diventa il contrappunto necessario della vita, il libro onirico l'altra faccia dell'autobiografia, la percezione fantastica il complemento dell'indagine sociale e psicologica del mondo esterno. L'educazione perbenista della società che conta viene irrisa dai sogni pieni di avventure sessuali e liberi dall'etichetta nei confronti dei potenti, anche l'imperatore diventa un bravo vecchietto e il suo pari cinese può essere felicemente irriso. La vita non detiene più la misura della realtà, ma si intride anch'essa di sogno: il doppio sogno sembra essere la cifra interpretativa del reale, la sua più profonda approssimazione. Così si può pensare che non per vie paranormali ma perché incidono e sono incisi dal mondo, i sogni di Schniztler avvertono per primi i segnali della prima guerra mondiale – quattro mesi prima del fatto storico l'arciduca Francesco Ferdinando viene assassinato in un sogno – e, sempre in sogno, i nazisti danno la caccia a lui e a Stefan Zweig (ebreo come Schniztler, come Freud, come Mahler e decine di altri grandi) anche se l'autore ebbe la «fortuna» di morire nel 1931, prima che l'orrore si manifestasse a pieno. Purtroppo quest'ultima «premonizione» era fin troppo giustificata: il libro dei sogni di Schnitzler gronda dei segnali appestanti dell'antisemitismo che brulica in tutta Vienna e colpisce persino i suoi straordinari intellettuali pur di diffamare gli ebrei, chiunque siano e dovunque si trovino.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/09Jan2014/09Jan2014198cb4f41a0ba16712c7ac91689ba2fd
DALL’AUTOFICTION ALL’AUTOSCATTO IL PASSO È BREVE: LA CARICA DEGLI SCRITTORI SELFIE
di Luca Ricci, ilmessaggero.it, 11 gennaio 2014
Ho scritto un libro di autofiction, come tutti. No, non è l’incipit di un romanzo di Walter Siti, però potrebbe essere la dichiarazione d’intenti di molti libri attuali: al posto del tipico personaggio di finzione il protagonista del testo diventa una specie di doppelgänger dell’autore. Ma gli scrittori più audaci hanno già fatto un passo in più, eliminando del tutto l’ambiguità e mettendo in scena direttamente loro stessi. Dall’autofiction all’autoscatto il passo è breve.
Inutile citarli tutti- Gramellini, Frascella, Pascale (lui esorcizza l’autofiction chiamandola otoficsiòn, alla francese), Piccolo-, piuttosto sarebbe interessante individuare una breve storia della dissoluzione del personaggio in letteratura. Nei poemi epici e nelle tragedie classiche il protagonista era un semidio, dotato di qualità superiori alla norma (per esempio l’astuzia di Ulisse), sprovvisto d’introspezione e in grado di rappresentare un modello comportamentale virtuoso (a tal proposito si legga l’illuminante Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza di Julian Jaynes, Adelphi). Questa granitica compattezza del personaggio venne in parte scalfita dall’epoca moderna. Il romanzo nacque come demistificazione del genere cavalleresco e avventuroso, e già Don Chisciotte era una stravagante miscela di vizi e virtù (la capacità introspettiva dell’immaginazione rappresenta il più grande elemento corruttivo di cui un personaggio può essere dotato). I protagonisti dei romanzi borghesi, da Emma Bovary a Dorian Gray, diventarono memorabili per la loro dissolutezza e la letteratura di colpo cessò di assolvere a una funzione pedagogica e normativa.
Nel 1840 Edgar Allan Poe scrisse L’uomo della folla, in cui il personaggio principale non aveva neanche un nome e si limitava a seguire uno sconosciuto rendendosi conto a poco a poco della sua incapacità nel raccontarlo a se stesso (e dunque al lettore). Ma l’horror vacui della folla romantica non era nulla in confronto alla massa novecentesca che di lì a poco avrebbe fatto la sua comparsa. Tentativi di demolizione del personaggio covavano sotto la brace delle teorie di Elias Canetti e José Ortega y Gasset. Sigmund Freud e la psicanalisi avviarono sul piano letterario la rivoluzione del flusso di coscienza. Ma il personaggio visto da vicino evaporò: dentro siamo tutti uguali. Lo stream of consciousness fu l’apice del ribaltamento del concetto di personaggio classico. Zeno Cosini inaugurò la galleria affollatissima degli antieroi, provvisti di una coscienza abnorme ma inetti all’azione (men che mai agli atti valorosi dei guerrieri omerici). E che dire del lavoro di Franz Kafka? Traslando sistematicamente la narrazione su un piano allegorico fu un vero serial killer di personaggi (l’agrimensore K. e Josef K. non hanno neanche l’identità minima di un nome). Il lavoro di Samuel Beckett si stagliò per genialità e perfidia. Le mutilazioni fisiche dei suoi personaggi sono un’operazione metaletteraria prima che drammaturgica, e il balbettio che non riesce a organizzarsi in una trama coerente di Molloy una specie di pietra tombale su quel che Coleridge aveva chiamato la sospensione dell’incredulità. Del resto perfino J. D. Salinger, padre di uno dei più memorabili personaggi del novecento, aveva dato segni d’insofferenza riguardo alla costruzione dei characters. L’attacco de Il giovane Holden è molto eloquente: “Magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne”.
Avanguardie e neoavanguardie finirono il lavoro di destrutturazione riducendo i personaggi a funzioni, tracce minime (tagli?) nelle pagine dei libri. La narrativa era un’arte consolatoria e perciò reazionaria, e raccontare un personaggio memorabile un’attività esecrabile: molto meglio darsi a giochi combinatori (ad esempio Calvino) o linguistici (ad esempio Manganelli). Poi è arrivato il minimalismo, con una proliferazione di short stories in cui spesso e volentieri ai personaggi si negava una descrizione fisica e soprattutto uno sviluppo, un cambiamento, una crescita. Il tutto espresso in un linguaggio secco, essenziale, che sfociava immancabilmente in finali aperti. Nel racconto Perché non ballate? di Raymond Carver l’impossibilità della descrizione di una coppia diventa paradigmatica: “Alla luce della lampada, c’era qualcosa nelle loro facce. Qualcosa di bello o di brutto. Impossibile dirlo”. La stessa cosa che oggi verrebbe da dire agli scrittori che, prima di scrivere, si mettono in posa.
Twitter: @LuRicci74
http://www.ilmessaggero.it/cultura/libri/ricci_capricci_ricci_selfie/notizie/441553.shtml
IL VERO CAMMINO È DENTRO DI NOI
di Ferdinando Camon, luoghidellinfinito.it, 11 gennaio 2014
In ogni viaggio c’è una scena clou: col passar degli anni resta solo quella, il resto svanisce. Buenos Aires è bellissima, gli emigrati italiani, al cinquanta per cento veneti, mi avevano invitato e mi hanno festeggiato, ma l’unico, profondo, indelebile ricordo resta in me l’adunata delle Madri della Plaza de Mayo. Si trovano ogni settimana, il giovedì alle 14; si abbracciano, si baciano, mi son fatto abbracciare, ho sentito sulla mia guancia la guancia della madre-senza-figlio, ho spartito il suo lutto, da allora è anche un mio lutto. Borges ha una pagina in cui esalta il potente che governa senza democrazia: non amo Borges. Parigi è la città che amo di più. Un giornale mi aveva chiesto di visitare la tomba di Sartre, e raccontare cosa sentivo. Avevo un debito con Sartre come verso un padre, sulla tomba gli dissi o pensai: «Sono qui», e la risposta fu: «Io no». Sartre era ateo, io cristiano. L’ateo morto è solo un ricordo di qua, di là non esiste più, quell’«Io no» significava: «Non sono da nessuna parte». Il dialogo era impossibile. Andai via senza aggiungere altro. Berchtesgaden è il villaggio sulle montagne bavaresi dove sorge il Nido dell’aquila, residenza estiva di Hitler. La villa, ora un ristorante, sta in alto, dove passa il limite della vegetazione. Arrivi nello spiazzo sottostante e parcheggi.
Entri nelle viscere della montagna per un lungo tunnel, in fondo c’è una caverna rotonda, lì scende e da lì risale un vasto ascensore, quello di Hitler, in un angolo sta ancora il telefono di Hitler, in ottone. Sali in verticale, esci, e sei davanti al salone della villa: lì ti aspettava il Führer, dritto in piedi. Tu sali dagli inferi, nella luce ti aspetta il dio della Germania, che vuol diventare il dio del mondo. Si mangia, nel cortile del ristorante. È pieno di tedeschi. Loquaci, euforici, eccitati. Sembrano meridionali. Senti che pensano: «Se avesse vinto!». Isla Nigra, Cile, sulla sponda del Pacifico: c’è la tomba di Neruda, una tomba matrimoniale, in giardino, inclinata verso l’oceano, come una scialuppa che sta per scivolare in acqua. La casa di Neruda è piena di paccottiglia: perfino la toilette è tappezzata di ricordi autocelebrativi, piatti, manoscritti, pare una villa di D’Annunzio. Mosca, Berlino, Lisbona, Rio de Janeiro, Leningrado… Ma l’emozione più profonda l’ho sentita nello studio di Cesare Musatti, a Milano. Musatti mi aiutava a capire i sogni. Su quel lettino s’eran sdraiati Pasolini, Ottieri, i più grandi scrittori italiani. Mi pareva di sentirli parlare. Sottovoce. Raccontavo i miei sogni, ed era come se parlassi di uno sconosciuto. Ma ero io. Ricordo i simboli, gli enigmi, le metafore. Ci ripenso, ogni tanto. L’unico vero viaggio è dentro di sé, e non finisce mai: tu muori, ma il tuo viaggio continua.
http://www.luoghidellinfinito.it/Editoriali/Pagine/Il-vero-cammino-è-dentro-di-noi.aspx
LIBERI COGNOMI IN LIBERO PAESE
di Redazione, larena.it, 12 gennaio 2014
«Auguri e figli maschi»: è l’auspicio che il sentire comune ancora tributa alle coppie di sposi, segnalando la speranza di una discendenza connotata da prestigio, sicurezza, benessere e la possibilità di tramandare i beni, proseguire la professione paterna, perpetuare il cognome. Ecco uno stereotipo linguistico che testimonia la resistenza di una cultura patriarcale sul maschile come «valore umano aggiunto».
Ottima, dunque, la sentenza della Corte europea dei diritti umani che, una volta di più, ha segnalato una discriminazione italiana: quella sui figli come proprietà paterne fin dal «marchio» del nome, con annessa negazione alle donne del diritto di dare ai figli anche solo il proprio cognome.
Senza quell’intervento esterno, il governo Letta non avrebbe messo il turbo, approvando in tempi record in Consiglio dei ministri il disegno di legge che permette ai genitori di operare una scelta. «Il figlio/a assume il cognome del padre ovvero, in caso di accordo tra i genitori risultante dalla dichiarazione di nascita, quello della madre o quello di entrambi i genitori». E questo varrà anche per i figli nati fuori del matrimonio o adottati.
È una piccola ma importante modifica di quello che siamo abituati a considerare l’ordine naturale delle cose. Eppure, a dispetto degli stereotipi della cultura patriarcale, la nostra vicenda storica segnala un primato della sfera materna e femminile nei processi educativi, formativi e decisionali dell’ambito familiare.
Nel nostro Paese esiste una sorta d’innegabile matriarcalismo a doppia faccia: antico, vista la centralità culturale addirittura debordante della figura materna, cui sono delegati compiti di accudimento della prole poco supportati dal mondo maschile e dalle politiche sociali; più recente e gravoso per le donne, poiché il ruolo femminile finisce per essere molto più dinamico, «elastico» e pronto a riconvertirsi in logoranti «dentro-fuori» nel mondo del lavoro in tempi di guerra e in stati di necessità.
Ma perché tanto ritardo su questo terreno, perché è stato necessario aspettare i giudici europei? E perché, in rete, sono fioriti commenti maschili avvelenati sulla sentenza di Strasburgo?
Non si può rispondere a queste domande senza considerare come la consuetudine patronimica in Italia richiami due fattori, il patrimonio e la discendenza. Quest’ultima, sancita dal riconoscimento del figlio avallato dal nome del padre, è stata in passato interpretata, anche dalla «mater sempre certa», come assunzione di responsabilità maschile.
Quanto alla tra-smissione del patrimonio con il cognome, faceva tutt’uno con la figura del Padre indicata da Jacques Lacan, che segnalava la funzione simbolica di colui che incarna il potere materiale e la regola morale, cioè la Legge. Fino a costituire un ordine di segni nel linguaggio che «nomina» quel ruolo.
Oggi, però – e non da oggi – tutto è cambiato, inclusa la concezione di «patrimonio»: non c’è più l’uomo come unico produttore di reddito e patrimonio, mentre diffusa è la percezione che dare a chi nasce il cognome paterno significhi amputarlo di un diritto di collegamento con l’ascendenza da lasciare come scelta a entrambi i genitori.
E infine un’ultima cosa. Non è affatto peregrino legiferare su simili temi, poiché ci sono anche altre priorità nel nostro Paese. Il campo dei diritti civili alimenta le legittime speranze di milioni d’individui, include temi sentiti come il testamento biologico, i diritti delle coppie di fatto, il reato di clandestinità…
Se anche su questi terreni il governo trovasse il dinamismo appena mostrato, vincerebbe la scommessa di colmare un gap culturale e sociale non secondario.
http://www.larena.it/stories/Italia_e_Mondo/621321_liberi_cognomi_in_libero_paese/
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