FAMILY MAN
di Edoardo Tincani, 7per24.it, 1 gennaio 2015
Voglio iniziare l’anno nuovo facendo gli auguri alla famiglia, che mi sembra ne abbia particolarmente bisogno. Lo so, con questa riflessione per una volta esco dai binari tranquilli dell’esperienza per avventurarmi sul sentiero sdrucciolevole dei sofismi, sotto cui si apre il baratro del moralismo. Però niente rivendicazioni o polemiche, per quanto giuste e sensate: solo un augurio a chi ancora desidera formare una nuova famiglia, perché non demorda. Ho riletto l’intervista che qualche tempo fa mi ha accordato uno psicoanalista e scrittore di fama nazionale; gli avevo chiesto se è vero che i padri sono assenti e lui aveva risposto così: “Periodicamente noi spostiamo l’accento sul papà o sulla mamma. Credo che si tratti di ricentrare la questione sul rapporto papà/mamma, perché i figli sono in rapporto con un rapporto”. È una verità importante. Si può essere molto presenti, quantitativamente, nella vita del coniuge così come dei figli, eppure non costruire niente, avere rinunciato a un sogno, a un progetto comune. Al rapporto con un rapporto, in un mondo fatto di monadi e di solitudini che chattano senza incontrarsi.
Quello che conta ed è attualissimo, nella famiglia, è la volontà di rimanere insieme, una volontà di stare in rapporto che sia più forte del sentimento (per natura fluttuante) e del desiderio dei propri comodi. I nonni hanno provato a insegnarci – con le loro vite tra privazioni e boom – qualcosa di essenziale, forse in via di estinzione: la capacità di sacrificio. Ma nemmeno quella basta più. Lo sforzo immane e tutto sommato inedito richiesto oggi è conservare un fragilissimo equilibrio, sul filo della sanità mentale, per tenere insieme i pezzi di vite sempre più esigenti, chiuse e un po’ schizofreniche.
La famiglia, prima che un istituto giuridico o una cellula (ancora fondamentale?) della società, rimane un ideale di stabilità, tanto più fulgido in un’epoca di relazioni liquide, di convivenze stiracchiate, di lavori precari, di soldi che non girano, di figli unici e di delitti commessi da madri e padri in apparenza normali. Auguri alla famiglia, nonostante le docce fredde della cronaca, come antidoto mite all’individualismo spinto. Auguri a tutti quelli che non hanno smesso di custodirsi, marito con moglie, moglie con marito, moglie e marito con i figli e con ciascuno in modo diverso e speciale, guardandosi ogni giorno con meno noia e più rispetto. La speranza di un domani migliore, che a ogni capodanno brilla sopra le nostre teste come un fuoco d’artificio, si annida ancora nei nostri rapporti familiari, da far vivere, coccolare, risanare, proteggere dalla ruggine e dal tarlo dell’indifferenza.
http://www.7per24.it/2015/01/01/family-man/
Quello che conta ed è attualissimo, nella famiglia, è la volontà di rimanere insieme, una volontà di stare in rapporto che sia più forte del sentimento (per natura fluttuante) e del desiderio dei propri comodi. I nonni hanno provato a insegnarci – con le loro vite tra privazioni e boom – qualcosa di essenziale, forse in via di estinzione: la capacità di sacrificio. Ma nemmeno quella basta più. Lo sforzo immane e tutto sommato inedito richiesto oggi è conservare un fragilissimo equilibrio, sul filo della sanità mentale, per tenere insieme i pezzi di vite sempre più esigenti, chiuse e un po’ schizofreniche.
La famiglia, prima che un istituto giuridico o una cellula (ancora fondamentale?) della società, rimane un ideale di stabilità, tanto più fulgido in un’epoca di relazioni liquide, di convivenze stiracchiate, di lavori precari, di soldi che non girano, di figli unici e di delitti commessi da madri e padri in apparenza normali. Auguri alla famiglia, nonostante le docce fredde della cronaca, come antidoto mite all’individualismo spinto. Auguri a tutti quelli che non hanno smesso di custodirsi, marito con moglie, moglie con marito, moglie e marito con i figli e con ciascuno in modo diverso e speciale, guardandosi ogni giorno con meno noia e più rispetto. La speranza di un domani migliore, che a ogni capodanno brilla sopra le nostre teste come un fuoco d’artificio, si annida ancora nei nostri rapporti familiari, da far vivere, coccolare, risanare, proteggere dalla ruggine e dal tarlo dell’indifferenza.
http://www.7per24.it/2015/01/01/family-man/
LA COSTRUZIONE DELLA RELAZIONE DI COPPIA
di Umberta Telfener, blog.iodonna.it, 2 gennaio 2015
L’altro per noi è sia una persona esterna con cui vorremmo stare bene che una parte di noi con cui dobbiamo fare i conti. Ambedue questi modi di vivere il partner sono necessari, ma portano a volte ad un paradosso: so che sei buono per me proprio perché mi fai male, perché mi sfidi, perché mi proponi un patto scellerato. Ho visto ieri un film che racconta proprio questo: L’AMORE BUGIARDO, un film di David Fincher, un triller che consiglio. Due persone che si sono perse all’interno del loro matrimonio ma che si ritrovano su un patto psichico assurdo per una mente razionale ma fondante la possibilità della crescita personale e di un nuovo rapporto per loro. Tra intrapsichico e intersoggettivo ci sono distanze a volte incommensurabili, ambedue questi piani coabitano però nei vissuti di una relazione. Ogni individuo si trova ad occupare per l’altro posizioni contrastanti. Nick e Amy sono due persone distanti, ciascuna sembra non fidarsi dell’altra. Nick è differente da come vuole apparire e ha un rapporto molto intenso e onesto solo con la gemella, Amy è cresciuta in una casa in cui sua madre preferiva a lei il personaggio che sulle sue orme aveva costruito e che era “sempre un passo avanti”, la mitica Amy, protagonista di più libri che l’avevano resa famosa.
Due persone che faticano a portare avanti il loro personaggio ideale e per sopravvivere si allontanano sempre più.Nel tempo hanno infatti reciprocamente tradito il bisogno psichico di riconoscimento e si sono persi uno all’altro. Riuscirà il nuovo patto che Amy propone a Nick a farli cambiare e a trovare se stessi? La scelta di stare insieme offre una possibilità di creare una continua tensione anziché un’opposizione. Se la coppia si ritroverà, il film non ce lo dice, ma in termini psichici ci sono delle possibilità. Potranno, attraverso un’identificazione basata sul “far finta”, superare le differenze e trovarsi su un nuovo piano di empatia. Ora che si sono riconosciuti, potranno anche abitare bene insieme, rifondare la loro unione e aumentarne i gradi di libertà. Già Freud sosteneva che noi possiamo amare una persona che ci cura e ci mostra affetto ma anche amare qualcuno che rappresenta la parte di noi che eravamo, che sappiamo di non poter essere o che dobbiamo superare. Perché l’identità viene costruita nel discorso con l’altro e include un riconoscimento reciproco e una tensione tra indipendenza e interdipendenza.
Detto questo, Amy è anche una sociopatica e Nick un traditore.
http://blog.iodonna.it/umberta-telfener/2015/01/02/la-costruzione-della-relazione-di-coppia/
Due persone che faticano a portare avanti il loro personaggio ideale e per sopravvivere si allontanano sempre più.Nel tempo hanno infatti reciprocamente tradito il bisogno psichico di riconoscimento e si sono persi uno all’altro. Riuscirà il nuovo patto che Amy propone a Nick a farli cambiare e a trovare se stessi? La scelta di stare insieme offre una possibilità di creare una continua tensione anziché un’opposizione. Se la coppia si ritroverà, il film non ce lo dice, ma in termini psichici ci sono delle possibilità. Potranno, attraverso un’identificazione basata sul “far finta”, superare le differenze e trovarsi su un nuovo piano di empatia. Ora che si sono riconosciuti, potranno anche abitare bene insieme, rifondare la loro unione e aumentarne i gradi di libertà. Già Freud sosteneva che noi possiamo amare una persona che ci cura e ci mostra affetto ma anche amare qualcuno che rappresenta la parte di noi che eravamo, che sappiamo di non poter essere o che dobbiamo superare. Perché l’identità viene costruita nel discorso con l’altro e include un riconoscimento reciproco e una tensione tra indipendenza e interdipendenza.
Detto questo, Amy è anche una sociopatica e Nick un traditore.
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IL MALE OSCURO DI BERTO RISTAMPATO DALLA BUR DOPO 50 ANNI
di Giovanna Albi, leggereacolori.com, 2 gennaio 2015
A distanza di cinquanta anni dalla prima edizione (1964), Rizzoli edizioni Bur ridà alle stampe uno dei testi più sofferenti e più significativi della produzione letteraria italiana contemporanea: Il Male Oscuro di Giuseppe Berto. Un flusso ininterrotto di coscienza che scardina la sintassi e la grammatica tradizionale imponendosi per la sua sostanziale assenza di punteggiatura. Il romanzo, una sorta di diario alla Zeno Cosini, ripercorre la vita dell’autore, solipsistico e camicia nera, dall’infanzia al rapporto fallimentare con l’universo femminile. Vicino a Joyce e al monologo teatrale, Giuseppe Berto, sceneggiatore cinetelevisivo, in preda ad una potente crisi esistenziale, iniziò a scrivere per catarsi dietro indicazione del suo psicoanalista.
Per continuare:
http://www.leggereacolori.com/culturasocieta/il-male-oscuro-di-berto-ristampato-dalla-bur-dopo-50-anni/
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http://www.leggereacolori.com/culturasocieta/il-male-oscuro-di-berto-ristampato-dalla-bur-dopo-50-anni/
MARC AUGÉ: “SIAMO TUTTI STRANIERI A NOI STESSI”
di Marco Dotti, vita.it, 3 gennaio 2014
“Le immagini fanno inesorabilmente parte del nostro mondo e partecipano alla confusione tra luogo e non-luogo. Arriviamo al paradosso di avere bisogno delle immagini per vedere la realtà, di servirci della finzione per darle un significato”. Dovremmo riappropriarci della parola, osserva Augé, perché “scrittura e parola sono fatte per impegnare il futuro, non per schiacciarlo su un eterno presente”. «Io sono un itinerante, un nomade senza percorso fisso che a volte prende, per caso, delle vie traverse che conducono a paesaggi inediti». Etnologo, già direttore dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, settantasei anni, Marc Augé non esita a definire lo sradicamento e l’essere sempre altrove come i tratti costitutivi del suo oramai lungo tragitto di “cartografo della modernità”. Essere itinerante, prosegue Augé, «vuol dire non escludere il ritorno» e tutti quei percorsi circolari attraverso i quali «si ritorna al punto di partenza e si ritrovano gli altri, per confermare il legame e ricreare il luogo». I veri luoghi, osserva ancora Augé, «sono dentro di noi» e la scrittura può forse aiutare a «fare luogo, a fare spazio» in un mondo troppo affollato di immagini.
In apertura del suo Straniero a me stesso (trad. di Fabrizio Grillenzoni, Bollati-Boringhieri, Torino 2011), lei pone a sé e al lettore due domande. Partiamo quelle: la persona che ricorda, di cosa si ricorda? Ancora: la persona che scrive, perché e su cosa scrive?
Marc Augé: La persona che ricorda, si ricorda di una realtà erosa e troncata, scolpita dal tempo. Forse proprio per questa ragione, scrive. Per tagliare ciò che lega il presente e il futuro a un passato che rischierebbe unicamente di soffocarla. Siamo per tradizione portati a credere che il senso ci arrivi dal passato. La psicoanalisi ci ha indotti a frugare tra sogni, ricordi e rimorsi per scoprire la chiave di un enigma irrisolto che riguarda le nostre vite. Ma in fondo, si scrive per il profondo bisogno di gettare ponti e quindi di essere letti, fosse anche da una sola persona.
Si parla della fine del libro, come se questa fine fosse un mero dato tecnico o commerciale e non riguardasse una mutazione già irrimediabilmente avvenuta, forse, nel rapporto tra uomini e parola, nella relazione e nel dialogo…
Marc Augé: La scrittura, la parola sono fatte proprio per stabilire una relazione. Questo è però un compito che impegna il futuro, comporta un rischio e apre un’avventura. Nessuno conosce realmente il destino delle parole. Un libro è una specie di bottiglia nella quale poniamo un messaggio, prima di abbandonarlo al mare. Poiché non credo alle fratture generazionali, credo che libri e parole di chi come me ha più di settant’anni possano interessare anche i giovani. La scrittura, infatti, è è un ponte nello spazio e e nel tempo. È l’atto simbolico per eccellenza. Ed è il mezzo migliore per scongiurare la solitudine.
Oltre all’apertura, scrivere coincide anche con un necessario ritorno su di sé. È un esercizio di riflessività e pratica del senso…
Marc Augé: In effetti, quando scriviamo combiniamo due movimenti, li articoliamo. Un primo movimento è rivolto verso il futuro. Un secondo, verso il passato.
Poi, però, c’è il movimento verso il futuro…
Marc Augé: il movimento di ritorno acquista un senso soltanto nell’atto che lo proietta verso il domani. Scrivere significa strappare il passato al passato, proiettando nel futuro, ossia davanti a noi, la fonte del senso che tutti ci dicono essere dietro di noi. Come detto, abbiamo creduto a lungo che il passato dominasse sul presente e che la storia singolare o collettiva non fosse altro, con alcune eccezioni e contraddizioni, che lo sviluppo del passato. Per quanto riguarda la scrittura, questa visione, marxista o psicoanalitica, è riduttiva, perché difetta della scommessa sul futuro. Dovremmo optare invece per l’intuizione libera che sopravanza le decisioni prese e costituisce ciò che chiamiamo creazione o, se si preferisce, poesia.
Abbiamo bisogno di scrivere, dunque, non solo per scavare, ma soprattutto per costruire?
Marc Augé: Sì, e proprio per questa ragione sono convinto che abbiamo bisogno di scrittura. E abbiamo bisogno di una scrittura che si prenda il proprio tempo, che sposi i movimenti di un tempo che può essere quello della descrizione e della riflessione. L’immagine, al contrario della scrittura, dice tutto e non dice nulla. Un’immagine non parla, se non la si fa parlare. Per questa ragione, scrivo. Scrivo, inoltre, per essere letto da qualcuno, per stabilire quella relazione che fa di me ciò che sono: io e un altro. D’altra parte, siamo “stranieri a noi stessi” nel senso che, come un etnologo non è mai in completa convergenza di opinioni e sentimenti con la cultura propria o di quelli che sta osservando, la distanza fa parte di noi. La distanza fa parte dell’essere etnologo, ma anche dell’essere scrittore. Distanza da sé, distanza dagli altri. Ogni individuo è plurale, le figure (e le pratiche) dell’etnologo e dello scrittore non fanno che ricordarcelo.
Eppure viviamo in una “civiltà” sempre più fondata sull’immagine…
Marc Augé: Oggigiorno, si comunica molto. Abbiamo sms, internet, facebook, ma la scrittura riflessiva, una scrittura che si prenda il proprio tempo è qualcosa di ben diverso da questa comunicazione: è qualcosa che dà inizio a un autentico scambio. E poco importa se non c’è dialogo formale, tranne in poche occasione. Ciò che conta è che il lettore si appropri del libro, lo faccia suo, impari, lo critichi, lo interpreti. Si faccia a sua volta autore. Le immagini fanno inesorabilmente parte del nostro mondo e partecipano alla confusione tra luogo e non luogo. Arriviamo al paradosso di avere bisogno delle immagini per vedere la realtà, di servirci della finzione per darle un significato”. Il dominio delle immagini, delle tecnologie della comunicazione e la sovrabbondanza di “informazione” danno la sensazione di un presente perpetuo e fanno eco alle teorie della fine della storia. Teorie che suggeriscono che abbiamo trovato la formula ultima per la vita sociale. Oggi questa formula sembra rappresentata dal binomio “democrazia rappresentativa-economia di mercato”. Nello spazio circoscritto da questa “formula”, il neonazionalismo e il riemergere di vecchie ideologie razziste sono considerate deviazioni secondarie, avventure effimere. Di tanto in tanto, se necessario un tribunale emette le proprie condanne per i consueti “crimini contro l’umanità”. Ma non per questo siamo al sicuro. Non è infatti scontato che non si stiano riproducendo le illusioni dell’era vittoriana e di un evoluzionismo sociale che secondo i suoi cantori avrebbe dovuto condurci alla felicità. In effetti il divario tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri continua a crescere, così come quello tra i più colti e i più ignoranti. E questa tendenza sembra la premessa per nuove violenze fisiche e ideologiche.
Questo ha spinto la gente in piazza, in Grecia come in Spagna… Spesso, però, gli indignados non sanno andare oltre il rancore e il passaggio dalla rassegnazione all’indignazione è solo lo stadio che prelude a una rassegnazione ancora più grande…
Marc Augé: Penso che la confusione dei giovani, oggi, derivi dalla coincidenza negativa tra storia individuale e storia collettiva. Ciò che Durkheim chiama il sacro transitava dalla coincidenza particolarmente vissuta e sensibile di queste due storie. A volte le persone possono sentire che il loro percorso individuale attraversa la storia stessa: è successo nei giorni del Maggio 68, con la fine del regime franchista in Spagna, o con la caduta del muro di Berlino. Oggi indignados si uniscono per mostrare le difficoltà della loro vita individuale e cercare di “fare” simbolicamente la storia, non riuscendo a incontrarla. Così facendo, essi creano il luogo (e il legame) con altre nostalgie a venire …
Siamo forse a un punto di snodo, però: le piazze, trasformate in luoghi di transito e commercio (in nonluoghi), tornano ad essere luoghi antropologicamente e simbolicamente densi di significato… Indipendentemente dall’esito delle proteste degli indignados di turno.
Marc Augé: Riusciremo a mantenere una capacità di “fare luogo”, quanto più non rinunceremo a vivere. A vivere, ossia a creare un futuro individuale, a incontrare gli altri, e con questi altri costruire un avvenire comune.
@oilforbook
http://www.vita.it/societa/media-cultura/marc-auge.html
In apertura del suo Straniero a me stesso (trad. di Fabrizio Grillenzoni, Bollati-Boringhieri, Torino 2011), lei pone a sé e al lettore due domande. Partiamo quelle: la persona che ricorda, di cosa si ricorda? Ancora: la persona che scrive, perché e su cosa scrive?
Marc Augé: La persona che ricorda, si ricorda di una realtà erosa e troncata, scolpita dal tempo. Forse proprio per questa ragione, scrive. Per tagliare ciò che lega il presente e il futuro a un passato che rischierebbe unicamente di soffocarla. Siamo per tradizione portati a credere che il senso ci arrivi dal passato. La psicoanalisi ci ha indotti a frugare tra sogni, ricordi e rimorsi per scoprire la chiave di un enigma irrisolto che riguarda le nostre vite. Ma in fondo, si scrive per il profondo bisogno di gettare ponti e quindi di essere letti, fosse anche da una sola persona.
Si parla della fine del libro, come se questa fine fosse un mero dato tecnico o commerciale e non riguardasse una mutazione già irrimediabilmente avvenuta, forse, nel rapporto tra uomini e parola, nella relazione e nel dialogo…
Marc Augé: La scrittura, la parola sono fatte proprio per stabilire una relazione. Questo è però un compito che impegna il futuro, comporta un rischio e apre un’avventura. Nessuno conosce realmente il destino delle parole. Un libro è una specie di bottiglia nella quale poniamo un messaggio, prima di abbandonarlo al mare. Poiché non credo alle fratture generazionali, credo che libri e parole di chi come me ha più di settant’anni possano interessare anche i giovani. La scrittura, infatti, è è un ponte nello spazio e e nel tempo. È l’atto simbolico per eccellenza. Ed è il mezzo migliore per scongiurare la solitudine.
Oltre all’apertura, scrivere coincide anche con un necessario ritorno su di sé. È un esercizio di riflessività e pratica del senso…
Marc Augé: In effetti, quando scriviamo combiniamo due movimenti, li articoliamo. Un primo movimento è rivolto verso il futuro. Un secondo, verso il passato.
Poi, però, c’è il movimento verso il futuro…
Marc Augé: il movimento di ritorno acquista un senso soltanto nell’atto che lo proietta verso il domani. Scrivere significa strappare il passato al passato, proiettando nel futuro, ossia davanti a noi, la fonte del senso che tutti ci dicono essere dietro di noi. Come detto, abbiamo creduto a lungo che il passato dominasse sul presente e che la storia singolare o collettiva non fosse altro, con alcune eccezioni e contraddizioni, che lo sviluppo del passato. Per quanto riguarda la scrittura, questa visione, marxista o psicoanalitica, è riduttiva, perché difetta della scommessa sul futuro. Dovremmo optare invece per l’intuizione libera che sopravanza le decisioni prese e costituisce ciò che chiamiamo creazione o, se si preferisce, poesia.
Abbiamo bisogno di scrivere, dunque, non solo per scavare, ma soprattutto per costruire?
Marc Augé: Sì, e proprio per questa ragione sono convinto che abbiamo bisogno di scrittura. E abbiamo bisogno di una scrittura che si prenda il proprio tempo, che sposi i movimenti di un tempo che può essere quello della descrizione e della riflessione. L’immagine, al contrario della scrittura, dice tutto e non dice nulla. Un’immagine non parla, se non la si fa parlare. Per questa ragione, scrivo. Scrivo, inoltre, per essere letto da qualcuno, per stabilire quella relazione che fa di me ciò che sono: io e un altro. D’altra parte, siamo “stranieri a noi stessi” nel senso che, come un etnologo non è mai in completa convergenza di opinioni e sentimenti con la cultura propria o di quelli che sta osservando, la distanza fa parte di noi. La distanza fa parte dell’essere etnologo, ma anche dell’essere scrittore. Distanza da sé, distanza dagli altri. Ogni individuo è plurale, le figure (e le pratiche) dell’etnologo e dello scrittore non fanno che ricordarcelo.
Eppure viviamo in una “civiltà” sempre più fondata sull’immagine…
Marc Augé: Oggigiorno, si comunica molto. Abbiamo sms, internet, facebook, ma la scrittura riflessiva, una scrittura che si prenda il proprio tempo è qualcosa di ben diverso da questa comunicazione: è qualcosa che dà inizio a un autentico scambio. E poco importa se non c’è dialogo formale, tranne in poche occasione. Ciò che conta è che il lettore si appropri del libro, lo faccia suo, impari, lo critichi, lo interpreti. Si faccia a sua volta autore. Le immagini fanno inesorabilmente parte del nostro mondo e partecipano alla confusione tra luogo e non luogo. Arriviamo al paradosso di avere bisogno delle immagini per vedere la realtà, di servirci della finzione per darle un significato”. Il dominio delle immagini, delle tecnologie della comunicazione e la sovrabbondanza di “informazione” danno la sensazione di un presente perpetuo e fanno eco alle teorie della fine della storia. Teorie che suggeriscono che abbiamo trovato la formula ultima per la vita sociale. Oggi questa formula sembra rappresentata dal binomio “democrazia rappresentativa-economia di mercato”. Nello spazio circoscritto da questa “formula”, il neonazionalismo e il riemergere di vecchie ideologie razziste sono considerate deviazioni secondarie, avventure effimere. Di tanto in tanto, se necessario un tribunale emette le proprie condanne per i consueti “crimini contro l’umanità”. Ma non per questo siamo al sicuro. Non è infatti scontato che non si stiano riproducendo le illusioni dell’era vittoriana e di un evoluzionismo sociale che secondo i suoi cantori avrebbe dovuto condurci alla felicità. In effetti il divario tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri continua a crescere, così come quello tra i più colti e i più ignoranti. E questa tendenza sembra la premessa per nuove violenze fisiche e ideologiche.
Questo ha spinto la gente in piazza, in Grecia come in Spagna… Spesso, però, gli indignados non sanno andare oltre il rancore e il passaggio dalla rassegnazione all’indignazione è solo lo stadio che prelude a una rassegnazione ancora più grande…
Marc Augé: Penso che la confusione dei giovani, oggi, derivi dalla coincidenza negativa tra storia individuale e storia collettiva. Ciò che Durkheim chiama il sacro transitava dalla coincidenza particolarmente vissuta e sensibile di queste due storie. A volte le persone possono sentire che il loro percorso individuale attraversa la storia stessa: è successo nei giorni del Maggio 68, con la fine del regime franchista in Spagna, o con la caduta del muro di Berlino. Oggi indignados si uniscono per mostrare le difficoltà della loro vita individuale e cercare di “fare” simbolicamente la storia, non riuscendo a incontrarla. Così facendo, essi creano il luogo (e il legame) con altre nostalgie a venire …
Siamo forse a un punto di snodo, però: le piazze, trasformate in luoghi di transito e commercio (in nonluoghi), tornano ad essere luoghi antropologicamente e simbolicamente densi di significato… Indipendentemente dall’esito delle proteste degli indignados di turno.
Marc Augé: Riusciremo a mantenere una capacità di “fare luogo”, quanto più non rinunceremo a vivere. A vivere, ossia a creare un futuro individuale, a incontrare gli altri, e con questi altri costruire un avvenire comune.
@oilforbook
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PER UNA FILOSOFIA DELL’AZIONE
di Giovanni Sessa, totalita.it, 5 gennaio 2015
Recentemente ci è capitato di leggere un libro che ci ha incuriosito. Ci riferiamo all’ultimo fatica del giovane filosofo hegelo-marxista Diego Fusaro, Il futuro è nostro. Filosofia dell’azione, edito da Bompiani (euro 15,00). Un titolo oltre il piagnisteo, in cui le forze intellettualmente oppositive allo stato presente delle cose, sembrano essere irrimediabilmente precipitate. Nelle sue pagine non vi è traccia della situazione emotiva che Walter Benjamin definì “malinconia di sinistra”, prodotta dalla constatazione dell’impotenza politica gauchiste, di fronte al trionfo del capitalismo. Fusaro invita i lettori a lasciarsi alle spalle la platonica “sindrome di Siracusa”, il vivido sentimento dell’impossibilità di cambiare il mondo nel quale si vive. Il mito platonico della caverna è la metafora con la quale l’autore ci invita ad agire per riappropriarci di un futuro diverso rispetto al presente mercatista.
Dalla paralisi dell’azione si può uscire a condizione che la ricerca della libertà si coniughi con quella della verità. Non basta, come narrò nel mito suddetto il filosofo ateniese, conoscere il vero, non è sufficiente sollevarsi dall’oscurità della caverna e cogliere la luce del sole. E’ necessario che il filosofo ridiscenda presso i suoi simili, rimasti a vivere nelle ombre, assumendo i rischi che tale scelta comporta. Socrate docet. Per chi si muova negli orizzonti del pensiero di tradizione, tale posizione non rappresenta una novità. Oggi la sua evidenza è lapalissiana. Il mondo ha assunto il volto della gabbia d’acciaio invalicabile, di cui disse Max Weber: la cultura dominante non consente di vedere le porte dalle quali uscire verso un mondo altro.
Fusaro definisce la fase attuale di sviluppo del capitalismo, “speculativa” e post-borghese. Essa si è storicamente manifestata quale parossistica liquidità totalitaria, a partire dal Sessantotto. La contestazione realizzò non la liberazione dal capitale, ma del capitale: fu strumentale al progetto mondialista finalizzato a liberare il mercatismo dai freni borghesi che lo avevano contenuto. Da ciò la distruzione della famiglia, della scuola, dell’Università. La borghesia si liberò della “coscienza infelice” che le aveva concesso di pensare le insufficienze del presente come emendabili nella prassi aperta al futuro. Conseguenza di ciò fu l’evaporazione del Padre, del precedente autorevole: il Sessantotto si sbarazzò definitivamente della Tradizione, stante che il Padre: “…come suggerito da Lacan…è colui che è in grado di unire e non opporre il desiderio alla legge” (p. 67). La dissociazione del desiderio dalla legge ha reso il parricidio edipico di quei giovani, correlato all’incesto. Per questo, la realtà attuale risulta inguardabile ed è ben rappresentata dal film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Essa è ridotta a: “…godimento illimitato e autoreferenziale, che privo di limiti e misura, domina incontrollato su tutto il giro d’orizzonte, traducendosi puntualmente in pulsione di morte” (pp. 61-62). Il desiderio si accompagna alla repressione dell’ira, sono ovunque presenti la lividità, il risentimento generalizzato dell’ultimo uomo, la tensione divisiva e violenta, incapace di articolarsi in rivolta. Questo l’esito del capitalismo assoluto, sciolto cioè da ogni residuale vincolo, produttore di narcisi atomisticamente chiusi all’altro, per i quali l’unico futuro ipotizzabile è la riproposizione del presente consumistico e intransitabile. Depotenziato il valore salvifico delle grandi narrazioni ideologiche novecentesche, il pensiero postmoderno è l’anestetico sistemico che ci solleva dalle distonie del presente, supportato dai neorealismi, specchi oggettivi del mondo, che con la tecno-scienza, acritica per definizione, determinano la perpetuazione del sistema, prospettando la fine della storia.
Se questa è la diagnosi della malattia, quale la terapia proposta da Fusaro? Il filosofo la individua nel recupero del pensiero dialettico hegelo-marxista, viatico per il cambiamento. Esso, avrebbe realizzato la defatalizzazione dell’oggetto, della realtà, e in tale prospettiva: “L’essere non si dà ma viene posto: è il frutto sempre trasformabile e mai definitivo dell’agire del soggetto ponente” (p. 248). Per dirla con Gentile: “Il mondo sempre è quello che noi lo facciamo”. Il pensatore torinese sulla scorta della lezione di Costanzo Preve, e in evidente sintonia con le posizioni teoriche di Alain de Benoist, le cui tesi circolano abbondantemente nel testo, nonostante le limitate citazioni che lo riguardano, ci invita a superare, di fronte alla colonizzazione dell’immaginario messa in atto dalla Forma-Capitale, la dicotomia destra-sinistra, in nome di altre sintesi politiche, capaci di ridisegnare la schmittiana contrapposizione di amico-nemico. L’azione, così prodotta, dovrebbe condurre al superamento dell’individualismo narcisista e costruire, come proprio obiettivo qualificante, un “universalismo cosmopolita”.
Nelle linee generali condividiamo l’accorato appello di Fusaro: è quanto mai necessario elaborare altre sintesi culturali capaci di mobilitare politicamente, oltre desueti steccati, i “ribelli” finora rimasti nelle radure del bosco jüngeriano. L’impianto teorico fusariano non è però di certo una novità: la sua analisi della contestazione giovanile è assonante con quella che Evola sviluppò sulle pagine de il Borghese nei mesi successivi al maggio radioso. Ci pare, inoltre, che un primo limite della proposta fusariana debba essere individuato nella scelta dell’obiettivo politico da perseguire: l’universalismo cosmopolita, sia pur liberato dal diktat mercatista. Tale ideale è l’altro volto della globalizzazione, negatrice delle differenze antropologiche, etniche e tradizionali che, a parole, si vorrebbe combattere. La grammatica hegelo-marxista che sostiene l’impianto esegetico del libro ha mostrato le sue insufficienze, finanche in Gentile che, nel secolo scorso, la portò alle estreme conseguenze. L’attualismo, come Evola ed Emo capirono, risolve la contraddizione solo sul piano gnoseologico, l’atto è pensiero pensante, non realmente agente. Per essere tale dovrebbe coincidere con la Libertà-Potenza dell’Origine capace di tacitare, sul piano pratico, le pretese dell’oggetto. È alle posizioni ultraidealiste che bisogna guardare. Solo esse possono sviluppare, in senso eminente, filosofie dell’azione, nelle quali l’Origine, si fa evento, in un atto sintonizzato sul precedente autorevole del mito-tradizione. Il loro sapere ripropone il Sacro, che dice la coincidenza di essere e nulla, di Tradizione e rivoluzione: “La tradizione è la tradizione di un perpetuo rinnovamento…dello spirito, della libertà…di fronte alla necessità, all’ostacolo. Una tradizione di coesione contro la dissoluzione…è una forza…contro le impossibilità” (A. Emo, Verso la notte e le sue ignote costellazioni, Gallucci, Roma 2014). Ecco, le altre sintesi dovrebbero avere come presupposto l’evoliana possibilità dell’impossibile.
http://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=6453&categoria=1&sezione=7&rubrica=1
Dalla paralisi dell’azione si può uscire a condizione che la ricerca della libertà si coniughi con quella della verità. Non basta, come narrò nel mito suddetto il filosofo ateniese, conoscere il vero, non è sufficiente sollevarsi dall’oscurità della caverna e cogliere la luce del sole. E’ necessario che il filosofo ridiscenda presso i suoi simili, rimasti a vivere nelle ombre, assumendo i rischi che tale scelta comporta. Socrate docet. Per chi si muova negli orizzonti del pensiero di tradizione, tale posizione non rappresenta una novità. Oggi la sua evidenza è lapalissiana. Il mondo ha assunto il volto della gabbia d’acciaio invalicabile, di cui disse Max Weber: la cultura dominante non consente di vedere le porte dalle quali uscire verso un mondo altro.
Fusaro definisce la fase attuale di sviluppo del capitalismo, “speculativa” e post-borghese. Essa si è storicamente manifestata quale parossistica liquidità totalitaria, a partire dal Sessantotto. La contestazione realizzò non la liberazione dal capitale, ma del capitale: fu strumentale al progetto mondialista finalizzato a liberare il mercatismo dai freni borghesi che lo avevano contenuto. Da ciò la distruzione della famiglia, della scuola, dell’Università. La borghesia si liberò della “coscienza infelice” che le aveva concesso di pensare le insufficienze del presente come emendabili nella prassi aperta al futuro. Conseguenza di ciò fu l’evaporazione del Padre, del precedente autorevole: il Sessantotto si sbarazzò definitivamente della Tradizione, stante che il Padre: “…come suggerito da Lacan…è colui che è in grado di unire e non opporre il desiderio alla legge” (p. 67). La dissociazione del desiderio dalla legge ha reso il parricidio edipico di quei giovani, correlato all’incesto. Per questo, la realtà attuale risulta inguardabile ed è ben rappresentata dal film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Essa è ridotta a: “…godimento illimitato e autoreferenziale, che privo di limiti e misura, domina incontrollato su tutto il giro d’orizzonte, traducendosi puntualmente in pulsione di morte” (pp. 61-62). Il desiderio si accompagna alla repressione dell’ira, sono ovunque presenti la lividità, il risentimento generalizzato dell’ultimo uomo, la tensione divisiva e violenta, incapace di articolarsi in rivolta. Questo l’esito del capitalismo assoluto, sciolto cioè da ogni residuale vincolo, produttore di narcisi atomisticamente chiusi all’altro, per i quali l’unico futuro ipotizzabile è la riproposizione del presente consumistico e intransitabile. Depotenziato il valore salvifico delle grandi narrazioni ideologiche novecentesche, il pensiero postmoderno è l’anestetico sistemico che ci solleva dalle distonie del presente, supportato dai neorealismi, specchi oggettivi del mondo, che con la tecno-scienza, acritica per definizione, determinano la perpetuazione del sistema, prospettando la fine della storia.
Se questa è la diagnosi della malattia, quale la terapia proposta da Fusaro? Il filosofo la individua nel recupero del pensiero dialettico hegelo-marxista, viatico per il cambiamento. Esso, avrebbe realizzato la defatalizzazione dell’oggetto, della realtà, e in tale prospettiva: “L’essere non si dà ma viene posto: è il frutto sempre trasformabile e mai definitivo dell’agire del soggetto ponente” (p. 248). Per dirla con Gentile: “Il mondo sempre è quello che noi lo facciamo”. Il pensatore torinese sulla scorta della lezione di Costanzo Preve, e in evidente sintonia con le posizioni teoriche di Alain de Benoist, le cui tesi circolano abbondantemente nel testo, nonostante le limitate citazioni che lo riguardano, ci invita a superare, di fronte alla colonizzazione dell’immaginario messa in atto dalla Forma-Capitale, la dicotomia destra-sinistra, in nome di altre sintesi politiche, capaci di ridisegnare la schmittiana contrapposizione di amico-nemico. L’azione, così prodotta, dovrebbe condurre al superamento dell’individualismo narcisista e costruire, come proprio obiettivo qualificante, un “universalismo cosmopolita”.
Nelle linee generali condividiamo l’accorato appello di Fusaro: è quanto mai necessario elaborare altre sintesi culturali capaci di mobilitare politicamente, oltre desueti steccati, i “ribelli” finora rimasti nelle radure del bosco jüngeriano. L’impianto teorico fusariano non è però di certo una novità: la sua analisi della contestazione giovanile è assonante con quella che Evola sviluppò sulle pagine de il Borghese nei mesi successivi al maggio radioso. Ci pare, inoltre, che un primo limite della proposta fusariana debba essere individuato nella scelta dell’obiettivo politico da perseguire: l’universalismo cosmopolita, sia pur liberato dal diktat mercatista. Tale ideale è l’altro volto della globalizzazione, negatrice delle differenze antropologiche, etniche e tradizionali che, a parole, si vorrebbe combattere. La grammatica hegelo-marxista che sostiene l’impianto esegetico del libro ha mostrato le sue insufficienze, finanche in Gentile che, nel secolo scorso, la portò alle estreme conseguenze. L’attualismo, come Evola ed Emo capirono, risolve la contraddizione solo sul piano gnoseologico, l’atto è pensiero pensante, non realmente agente. Per essere tale dovrebbe coincidere con la Libertà-Potenza dell’Origine capace di tacitare, sul piano pratico, le pretese dell’oggetto. È alle posizioni ultraidealiste che bisogna guardare. Solo esse possono sviluppare, in senso eminente, filosofie dell’azione, nelle quali l’Origine, si fa evento, in un atto sintonizzato sul precedente autorevole del mito-tradizione. Il loro sapere ripropone il Sacro, che dice la coincidenza di essere e nulla, di Tradizione e rivoluzione: “La tradizione è la tradizione di un perpetuo rinnovamento…dello spirito, della libertà…di fronte alla necessità, all’ostacolo. Una tradizione di coesione contro la dissoluzione…è una forza…contro le impossibilità” (A. Emo, Verso la notte e le sue ignote costellazioni, Gallucci, Roma 2014). Ecco, le altre sintesi dovrebbero avere come presupposto l’evoliana possibilità dell’impossibile.
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MARINA PICASSO, NIPOTE TORMENTATA. DOPO IL RANCORE CONTRO IL NONNO SADICO, DOPO IL LIBRO DENUNCIA, L’ULTIMO ATTO. IN VENDITA LE OPERE DEL MAESTRO
di Helga Marsala, artribune.com, 6 gennaio 2015
Di donne ne ha avute tantissime. Sedotte, stregate, possedute. Complici e vittime dell’incontenibile genio. Tra quelle più importati, che gli furono mogli o compagne, alcune sono morte suicide, altre divorate da povertà e disperazione, altre umiliate, tradite, dimenticate. Seminò passione e dolore, Pablo Picasso, nel suo cammino d’artista e soprattutto di uomo. Perché fu marito, amante, padre e nonno, solo nella misura in cui fu artista: straordinario, controverso, inquieto, travolgente, egocentrico e famelico. Spietato, persino. Così lo raccontano tanti che ebbero a che fare con lui. Così testimonia il destino tragico di chi si trovò ad amarlo. Le donne della sua vita – incluse figlie e nipoti -, ma anche gli uomini. Il figlio Paulo, per esempio, che ne subì la personalità ingombrante e ne ricevette indifferenza e mortificazioni; o il nipote, Pablito (figlio di Paulo), che respirò in casa un clima di freddezza e di tensione perversa, vivendo la figura del nonno con un misto di soggezione, adorazione e frustrazione. Fino ad uccidersi, giovanissimo, ingerendo della candeggina. Alla sorella Marina, nei giorni dell’agonia, confessò: “Questa è la mia ultima fuga. Per salvare te. Ho voluto esplodere, distruggere dall’interno tutta la nostra sofferenza”.
Nostra, disse. Perché il dolore aleggiava, da sempre, tra le pagine di quel complesso romanzo familiare, costruito intorno alla figura del Maestro. Marina, anch’ella fragile e tormentata, ammalatasi di anoressia, devastata dal lutto e angustiata dalla miseria in cui erano precipitati i suoi (mentre il nonno, infischiandosene, viveva nel lusso), oggi è una donna serena. Con un marito, cinque figli (di cui tre adottati, di origine vietnamita) e un impegno costante in attività di volontariato. Un lunga storia di psicoanalisi alle spalle, un libro catartico dedicato a suo nonno, pubblicato nel 2002, e un percorso di ricomposizione affettiva ed esistenziale.
Marina Picasso vive a La Californie, la residenza picassiana di Cannes. Quel nonno, nelle feroci pagine del suo libro, ha il volto di un vampiro sadico, capace di prosciugare le energie altrui, nutrendosene per la sua arte e poi gettando via le carcasse, con spregio. Il fuoco ed il gelo: per fabbricare bellezza succhiava l’anima del mondo e delle persone. E ne faceva capolavori. Così che gli altri morissero, in lui. Una personalità agghiacciante, a cui – forse enfatizzando una serie di proiezioni arrivate dagli adulti – l’ex nipotina restò legata, ma in una chiave negativa. Avendone terrore.
Di Picasso Marina ha ereditato un’enorme quantità di quadri ed incisioni. Per anni si rifiutò di guardarli, di riaprire un canale. Oggi, che tutto è stato ridimensionato e in qualche modo metabolizzato, l’angoscia è vinta. L’ombra di Picasso non fa più paura, così come la sua pittura. Ma il coraggio di rivedere quelle tele è tutt’uno col coraggio di disfarsene: la rottura di un tabù, per potersi liberare.
La donna – che aveva già messo all’asta alcuni pezzi della sua collezione privata, per scopi umanitari – ha deciso di venderne un nuovo blocco, per un valore di oltre $ 290.000.000. Si tratterrebbe di almeno sette opere, tra cui un ritratto di Olga Khokhlova, sua nonna, nonché prima moglie dell’artista, datato 1923, per un valore di circa $ 60 milioni; “Maternité”, del 1921, per circa 54 milioni dollari; “Femme a la Mandoline (Mademoiselle Leonie assise)”, del 1911, per $ 60 milioni. A occuparsi dell’affare sarà direttamente lei, che incontrerà a breve dei clienti a Ginevra. Come in un rito tardivo, da officiare personalmente, al termine di una lunga operazione di rimozione, emersione, narrazione. Lasciando andare il passato, finalmente.
http://www.artribune.com/2015/01/marina-picasso-nipote-tormentata-dopo-il-rancore-contro-il-nonno-sadico-dopo-il-libro-denuncia-lultimo-atto-in-vendita-le-opere-del-maestro/
Nostra, disse. Perché il dolore aleggiava, da sempre, tra le pagine di quel complesso romanzo familiare, costruito intorno alla figura del Maestro. Marina, anch’ella fragile e tormentata, ammalatasi di anoressia, devastata dal lutto e angustiata dalla miseria in cui erano precipitati i suoi (mentre il nonno, infischiandosene, viveva nel lusso), oggi è una donna serena. Con un marito, cinque figli (di cui tre adottati, di origine vietnamita) e un impegno costante in attività di volontariato. Un lunga storia di psicoanalisi alle spalle, un libro catartico dedicato a suo nonno, pubblicato nel 2002, e un percorso di ricomposizione affettiva ed esistenziale.
Marina Picasso vive a La Californie, la residenza picassiana di Cannes. Quel nonno, nelle feroci pagine del suo libro, ha il volto di un vampiro sadico, capace di prosciugare le energie altrui, nutrendosene per la sua arte e poi gettando via le carcasse, con spregio. Il fuoco ed il gelo: per fabbricare bellezza succhiava l’anima del mondo e delle persone. E ne faceva capolavori. Così che gli altri morissero, in lui. Una personalità agghiacciante, a cui – forse enfatizzando una serie di proiezioni arrivate dagli adulti – l’ex nipotina restò legata, ma in una chiave negativa. Avendone terrore.
Di Picasso Marina ha ereditato un’enorme quantità di quadri ed incisioni. Per anni si rifiutò di guardarli, di riaprire un canale. Oggi, che tutto è stato ridimensionato e in qualche modo metabolizzato, l’angoscia è vinta. L’ombra di Picasso non fa più paura, così come la sua pittura. Ma il coraggio di rivedere quelle tele è tutt’uno col coraggio di disfarsene: la rottura di un tabù, per potersi liberare.
La donna – che aveva già messo all’asta alcuni pezzi della sua collezione privata, per scopi umanitari – ha deciso di venderne un nuovo blocco, per un valore di oltre $ 290.000.000. Si tratterrebbe di almeno sette opere, tra cui un ritratto di Olga Khokhlova, sua nonna, nonché prima moglie dell’artista, datato 1923, per un valore di circa $ 60 milioni; “Maternité”, del 1921, per circa 54 milioni dollari; “Femme a la Mandoline (Mademoiselle Leonie assise)”, del 1911, per $ 60 milioni. A occuparsi dell’affare sarà direttamente lei, che incontrerà a breve dei clienti a Ginevra. Come in un rito tardivo, da officiare personalmente, al termine di una lunga operazione di rimozione, emersione, narrazione. Lasciando andare il passato, finalmente.
http://www.artribune.com/2015/01/marina-picasso-nipote-tormentata-dopo-il-rancore-contro-il-nonno-sadico-dopo-il-libro-denuncia-lultimo-atto-in-vendita-le-opere-del-maestro/
‘MARE MONSTRUM': IMMIGRAZIONE E OLTRE
di Mario De Maglie, ilfattoquotidiano.it, 7 gennaio 2015
“L’uomo ridotto a cosa fra le cose. E il buon migrante strumentalizzato, santificato e mitizzato per mascherare l’orrore”. Queste parole rimangono impresse e sono contenute nel libro Mare Monstrum. Immigrazione. Bugie e tabù del giornalista Alessio Mannino recentemente edito per Arianna Editrice. Un libro che consiglio a chiunque voglia saperne di più sui fenomeni migratori e le imbarazzanti risposte ad essi, per non dire spietate, visto che gli immigrati continuano a morire in mare o ad arrivare in Italia per fare lavori sottopagati e con orari e modalità disumane.
Nella lucida e documentata analisi di Mannino sono ben spiegate le logiche illogiche attraverso le quali l’immigrazione è diventata quello che in parte vediamo, in parte facciamo finta di non vedere. Esseri umani privati del loro essere umani perché debbono fare la loro parte nei disegni dei mercati e della globalizzazione finanziaria. Vita e dignità tolta a pochi passi dal nostro paese, quando non proprio anche all’interno, orrori quotidiani sui quali non possiamo permetterci di stare a soffermare più di tanto in quanto presi dalle nostre meno gravi, ma non per questo meno serie, incombenze quotidiane dell’epoca del precariato.
L’altro non si conosce mai del tutto, delimita quel che io sono, se l’altro è portatore di una storia di sofferenza, prenderne atto è faticoso, poiché la coscienza potrebbe imporre di fare qualcosa senza che si pensi di averne gli strumenti, nasce da qui l’impotenza. Meno faticoso è sapere facendo finta di non sapere. L’essere umano che dovrebbe essere il fine diventa un mezzo. La nostra economia ha smesso di essere amministrazione della casa, come vorrebbe la sua etimologia (dal greco οἶκος (oikos), “casa” inteso anche come “beni di famiglia”, e νόμος (nomos), “norma” o “legge”), ed è diventata amministrazione del mondo. Nella casa l’essere umano è al centro, nel mondo l’essere umano sfuma fino a scomparire perché troppo grandi sono gli interessi ed i conflitti che ne scaturiscono. Voler prendere e contenere più di quanto possano fare le proprie mani è la logica del consumo.
Sembra che non siamo più in grado di scoprire e apprezzare la differenza, l’omologazione rassicura, non fa pensare, c’è chi lo farà al posto nostro. Sigmund Freud, parlando di patologia psicologica, usava il concetto di “utile secondario”, una volta che si è formato un sintomo nella persona, questo può portare con sé alcuni vantaggi che la inducono a rimanere legata alla propria malattia. Se pensiamo all’omologazione e allo sfruttamento delle persone come ad un qualcosa di patologico (e io penso lo siano), se questo è permesso con relativa facilità dalle coscienze di noi tutti bisogna che ci sia un utile secondario, a meno che di non pensare l’intera umanità come stupida (ed io penso che non lo sia).
Credo che l’utile secondario abbia a che fare con il senso di responsabilità. In generale maggiormente mi occupo di qualcosa maggiormente mi sento responsabile della sua riuscita o meno, meno me ne occupo meno ne sento coinvolto (anche se non è detto che non lo sia). In realtà è una situazione paradossale in quanto il grado di responsabilità non necessariamente è proporzionale a quanto mi occupo di un qualcosa, ma anche a quanto di quel qualcosa sono causa diretta o indiretta.
Accettare le logiche ci rende complici. L’individuo di oggi è talmente oberato dai problemi della sua economia, intesa come amministrazione della propria casa, che gli è stato tolto il tempo ed il modo di guardare oltre il proprio giardino, bianca ai poteri che lo faranno per lui, dandogli comunque la parvenza che sia bene così e che già fa quanto può realisticamente fare. Responsabilità individuale e responsabilità collettiva sembrano scontrarsi senza che ne esca un vincitore, così si rimane a guardare senza vedere. Mare Monstrum può essere di aiuto a migliorare la nostra visuale. Segnalo che il libro è arricchito anche da interviste ad Alain De Benoist, Massimo Fini, Diego Fusaro e Maurizio Pallante.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/07/mare-monstrum-immigrazione-e-oltre/1318711/
Nella lucida e documentata analisi di Mannino sono ben spiegate le logiche illogiche attraverso le quali l’immigrazione è diventata quello che in parte vediamo, in parte facciamo finta di non vedere. Esseri umani privati del loro essere umani perché debbono fare la loro parte nei disegni dei mercati e della globalizzazione finanziaria. Vita e dignità tolta a pochi passi dal nostro paese, quando non proprio anche all’interno, orrori quotidiani sui quali non possiamo permetterci di stare a soffermare più di tanto in quanto presi dalle nostre meno gravi, ma non per questo meno serie, incombenze quotidiane dell’epoca del precariato.
L’altro non si conosce mai del tutto, delimita quel che io sono, se l’altro è portatore di una storia di sofferenza, prenderne atto è faticoso, poiché la coscienza potrebbe imporre di fare qualcosa senza che si pensi di averne gli strumenti, nasce da qui l’impotenza. Meno faticoso è sapere facendo finta di non sapere. L’essere umano che dovrebbe essere il fine diventa un mezzo. La nostra economia ha smesso di essere amministrazione della casa, come vorrebbe la sua etimologia (dal greco οἶκος (oikos), “casa” inteso anche come “beni di famiglia”, e νόμος (nomos), “norma” o “legge”), ed è diventata amministrazione del mondo. Nella casa l’essere umano è al centro, nel mondo l’essere umano sfuma fino a scomparire perché troppo grandi sono gli interessi ed i conflitti che ne scaturiscono. Voler prendere e contenere più di quanto possano fare le proprie mani è la logica del consumo.
Sembra che non siamo più in grado di scoprire e apprezzare la differenza, l’omologazione rassicura, non fa pensare, c’è chi lo farà al posto nostro. Sigmund Freud, parlando di patologia psicologica, usava il concetto di “utile secondario”, una volta che si è formato un sintomo nella persona, questo può portare con sé alcuni vantaggi che la inducono a rimanere legata alla propria malattia. Se pensiamo all’omologazione e allo sfruttamento delle persone come ad un qualcosa di patologico (e io penso lo siano), se questo è permesso con relativa facilità dalle coscienze di noi tutti bisogna che ci sia un utile secondario, a meno che di non pensare l’intera umanità come stupida (ed io penso che non lo sia).
Credo che l’utile secondario abbia a che fare con il senso di responsabilità. In generale maggiormente mi occupo di qualcosa maggiormente mi sento responsabile della sua riuscita o meno, meno me ne occupo meno ne sento coinvolto (anche se non è detto che non lo sia). In realtà è una situazione paradossale in quanto il grado di responsabilità non necessariamente è proporzionale a quanto mi occupo di un qualcosa, ma anche a quanto di quel qualcosa sono causa diretta o indiretta.
Accettare le logiche ci rende complici. L’individuo di oggi è talmente oberato dai problemi della sua economia, intesa come amministrazione della propria casa, che gli è stato tolto il tempo ed il modo di guardare oltre il proprio giardino, bianca ai poteri che lo faranno per lui, dandogli comunque la parvenza che sia bene così e che già fa quanto può realisticamente fare. Responsabilità individuale e responsabilità collettiva sembrano scontrarsi senza che ne esca un vincitore, così si rimane a guardare senza vedere. Mare Monstrum può essere di aiuto a migliorare la nostra visuale. Segnalo che il libro è arricchito anche da interviste ad Alain De Benoist, Massimo Fini, Diego Fusaro e Maurizio Pallante.
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«CON DIO E FREUD SUL PALCO SI CREA UNA GRANDE ENERGIA»
L’attore parla de “Il visitatore” con Haber, da venerdì 9 al Giovanni da Udine «Puoi essere credente o ateo, ma torni a casa con un sacco di pensieri nel cuore»
di Gian Paolo Polesini, messaggeroveneto.gelocal.it, 7 gennaio 2015
Già un personaggio qualunque, che.entra dentro un attore, provoca l’ineluttabile scossa, per il solo fatto d’infilarsi nel corpo suo rubandogli la mente, i gesti, tutto. Non sei più Mario Rossi, poniamo, ma Francesco Bianchi. E se fai pure una tournée lunga, sai quanto ti succhia il tuo ospite! Ecco. Pensate a essere Dio. Arrivi in teatro, ti chiudi in camerino e ti concentri sulla modalità celeste, almeno per un paio d’ore. Che poi il tempo non conta, potrebbe succedere di portarselo dietro, Dio intendiamo, anche col sipario chiuso. Chissà qual è, nel caso, il training migliore? Casualmente (più o meno) venerdì 9, sabato 10 e domenica 11 il Giovanni da Udine accoglierà Il visitatore (lo spettacolo sarà anche lunedì 19 al Pasolini di Cervignano per il Css, il 20 a Sacile e il 21 e il 22 a Monfalcone, a cura del’Ert), un testo pazzesco di Eric-Emmanuel Schmitt, un commediografo cinquantenne eh, nulla di giurassico. Un buon motivo, diciamo contemporaneo, per uscire di casa. Ce ne sono altri due, per la verità: Alessio Boni e Alessandro Haber.
Per continuare:
http://messaggeroveneto.gelocal.it/tempo-libero/2015/01/07/news/con-dio-e-freud-sul-palco-si-crea-una-grande-energia-1.10622938
Già un personaggio qualunque, che.entra dentro un attore, provoca l’ineluttabile scossa, per il solo fatto d’infilarsi nel corpo suo rubandogli la mente, i gesti, tutto. Non sei più Mario Rossi, poniamo, ma Francesco Bianchi. E se fai pure una tournée lunga, sai quanto ti succhia il tuo ospite! Ecco. Pensate a essere Dio. Arrivi in teatro, ti chiudi in camerino e ti concentri sulla modalità celeste, almeno per un paio d’ore. Che poi il tempo non conta, potrebbe succedere di portarselo dietro, Dio intendiamo, anche col sipario chiuso. Chissà qual è, nel caso, il training migliore? Casualmente (più o meno) venerdì 9, sabato 10 e domenica 11 il Giovanni da Udine accoglierà Il visitatore (lo spettacolo sarà anche lunedì 19 al Pasolini di Cervignano per il Css, il 20 a Sacile e il 21 e il 22 a Monfalcone, a cura del’Ert), un testo pazzesco di Eric-Emmanuel Schmitt, un commediografo cinquantenne eh, nulla di giurassico. Un buon motivo, diciamo contemporaneo, per uscire di casa. Ce ne sono altri due, per la verità: Alessio Boni e Alessandro Haber.
Per continuare:
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LA PSICOANALISTA ELSA CAYAT È LA DODICESIMA VITTIMA
di Redazione, internazionale.it, 8 gennaio 2015
Identificata anche la dodicesima vittima dell’attentato contro Charlie Hebdo. È la psicanalista Elsa Cayat. Scriveva una rubrica sul settimanale e aveva pubblicato diversi saggi.
Le Monde.
http://www.internazionale.it/notizie/2015/01/08/la-psicanalista-elsa-cayat-e-la-dodicesima-vittima
Le Monde.
http://www.internazionale.it/notizie/2015/01/08/la-psicanalista-elsa-cayat-e-la-dodicesima-vittima
«NON TI UCCIDIAMO PERCHÉ NON UCCIDIAMO LE DONNE, MA TU LEGGERAI IL CORANO»
di Redazione, ilpost.it, 8 gennaio 2015
Lo ha detto uno dei terroristi di Parigi a Sigolène Vinson, collaboratrice di Charlie Hebdo, puntandole una pistola alla tempia
Il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato un articolo che ricostruisce alcuni dettagli dell’attentato di mercoledì 7 gennaio contro la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi nel quale sono state uccise 12 persone. Sigolène Vinson, comica, avvocatessa e scrittrice che si trovava nella redazione del giornale, ha raccontato che uno dei terroristi le ha puntato una pistola alla tempia e le ha detto: «Non ti uccidiamo perché non uccidiamo le donne, ma tu leggerai il Corano». In realtà una delle persone uccise dai terroristi è una donna: Elsa Cayat, psicanalista e scrittrice che curava una rubrica di psicanalisi su Charlie Hebdo.
http://www.ilpost.it/2015/01/08/sigolene-vinson-charlie-hebdo/
Il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato un articolo che ricostruisce alcuni dettagli dell’attentato di mercoledì 7 gennaio contro la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi nel quale sono state uccise 12 persone. Sigolène Vinson, comica, avvocatessa e scrittrice che si trovava nella redazione del giornale, ha raccontato che uno dei terroristi le ha puntato una pistola alla tempia e le ha detto: «Non ti uccidiamo perché non uccidiamo le donne, ma tu leggerai il Corano». In realtà una delle persone uccise dai terroristi è una donna: Elsa Cayat, psicanalista e scrittrice che curava una rubrica di psicanalisi su Charlie Hebdo.
http://www.ilpost.it/2015/01/08/sigolene-vinson-charlie-hebdo/
STRAGE DI PARIGI: ELSA CAYAT, L’UNICA DONNA UCCISA. L’unica donna tra le dodici vittime dell’attentato era una psichiatra che sul Charlie Hebdo teneva una rubrica bi-settimanale
di Redazione, panorama.it, 8 gennaio 2015
La dodicesima vittima dei terroristi è anche l’unica donna, Elsa Cayat, psichiatra e psicanalista. Il mercoledì della strage partecipava anche lei alla riunione di redazione dell’Hebdo, per il quale, due volte al mese teneva la rubrica Charlie Divan, nella quale ha coperto argomenti dei più disparati, dalle origini della Shoah al rapporto genitori-figli.
Per continuare:
http://www.panorama.it/news/esteri/strage-parigi-elsa-cayat-lunica-donna-uccisa/
La dodicesima vittima dei terroristi è anche l’unica donna, Elsa Cayat, psichiatra e psicanalista. Il mercoledì della strage partecipava anche lei alla riunione di redazione dell’Hebdo, per il quale, due volte al mese teneva la rubrica Charlie Divan, nella quale ha coperto argomenti dei più disparati, dalle origini della Shoah al rapporto genitori-figli.
Per continuare:
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INVIDIA, IL PEGGIORE DEI TABÙ
di Antonio Giuliano, avvenire.it, 8 gennaio 2015
Nessuno tocchi Caino. Perché se fu il primo a esserne accecato, è anche vero che il tarlo dell’invidia, per quanto sia dura ammetterlo, è più vicino di quanto pensiamo. «In un certo senso siamo tutti invidiosi. Fa parte della struttura mentale dell’uomo», spiega Salvatore Capodieci, psichiatra e psicoterapeuta, autore di un curioso saggio su Re Salomone e il fenomeno dell’invidia (Lup, pagine 162, euro 16). Un vademecum per vederci chiaro, visto che l’invidia tende a deformare la realtà offuscandola (dal latino invidere, guardare di traverso, in senso negativo). Difatti avendo usato male i loro occhi in vita Dante per contrappasso ritrae crudamente gli invidiosi con le palpebre cucite da un filo di ferro. E il graffiante G. K. Chesterton ammoniva: «L’uomo che non è invidioso vede le rose più rosse degli altri, l’erba più verde e il sole più abbagliante, mentre l’invidioso le vive con disperazione».
Professore è davvero così difficile non essere invidiosi?
«L’invidia rappresenta un fenomeno diffuso che può riguardare chiunque si trovi in una situazione di confronto con altri. La sua complessità è correlata al fatto che le stesse persone invidiose non sempre ne sono consapevoli e, talvolta, sono le ultime a rendersi conto che il loro atteggiamento può essere attribuito a motivazione legate all’invidia».
Per continuare:
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/invidia-il-peggiore-dei-tabu.aspx
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente a questi link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
Professore è davvero così difficile non essere invidiosi?
«L’invidia rappresenta un fenomeno diffuso che può riguardare chiunque si trovi in una situazione di confronto con altri. La sua complessità è correlata al fatto che le stesse persone invidiose non sempre ne sono consapevoli e, talvolta, sono le ultime a rendersi conto che il loro atteggiamento può essere attribuito a motivazione legate all’invidia».
Per continuare:
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/invidia-il-peggiore-dei-tabu.aspx
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente a questi link:
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(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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