SERGIO MANGHI: «GESÙ NON ERA UN BUONISTA REMISSIVO». Si continua a parlare molto della frase di Papa Francesco, con cui ha chiarito che di fronte all'insulto di ciò che si ha di più caro un pugno è prevedibile. Ne abbiamo parlato con il sociologo, docente all'Università degli Studi di Parma, Sergio Manghi
di Lorenzo Maria Alvaro, vita.it, 19 gennaio 2015
L'ha sorpresa il fatto che l'attentato di Parigi sia stato perpetrato da parigini?
No, non mi ha affatto sorpreso. Lei ricorderà che tempo fa avevo scritto delle cose su Zinedine Zidane, immigrato francese di seconda generazione, che implicavano il tentativo di comprendere gli immigrati francesi che, soprattutto a partire dalla seconda generazione, tendono a scatenare tensioni non indifferenti. Mi sembra in qualche modo che, anche se non fossero stati francesi, chi compie una violenza di questo genere non può non avere incorporato modelli in qualche modo occidentali e avere desiderato di essere incluso in quei modelli. Io credo che sempre l'oggetto distrutto è anche desiderato. È complesso ma importante. Cerchiamo sempre le cause nelle differenze di identità. Io invece credo che si debba guardare alla relazione. È stato così anche con le Torri Gemelle.
In che senso?
Per capire come mai un Bin Laden desideri distruggere le Torri Gemelle non si deve partire dal noi/loro ma dall'ipotesi che voleva fossero sue. Una persona, ben prima dell'attentato a New York, aveva visto in un bazar a Il Cairo un poster con il deserto del Sahara con in mezzo le torri. Erano un oggetto del desiderio.
Questa mancata inclusione significa che l'Occidente sbaglia in qualcosa. Sa dire in cosa?
Dove sbagliamo costantemente è nel crederci già arrivati. Già padroni della libertà e del benessere. Dando per scontato che i nostri modelli di vita siano invidiabili. Poi gli altri ci credono davvero e se non li raggiungono cadono nel risentimento. Questo è l'errore che compiamo insieme a quella opposizione noi/loro. Anche in questa nostra conversazione. È vero siamo differenti. Ma non siamo superiori.
Anche l'idea di città con queste periferie abbandonate, le banlieue, è un errore?
Specificatamente la Francia ha una cultura molto particolare all'interno del mondo Occidentale. Ha sviluppato una concezione molto razionalista ed iperlaicista. Per cui si sta alle regole universali che valgono per tutti come se questo potesse davvero funzionare. Anche nel concepire il rapporto centro-periferia si ragiona in questi termini. Ma primo a poi se ne paga lo scotto.
Veniamo alla frase del Papa. Come ha preso la faccenda del pugno?
Come prima sensazione una sorpresa piacevole. Questa disinvoltura di dire in un modo apparentemente semplice e ingenuo una cosa del genere mi ha fatto pensare che ha voluto usare un linguaggio da parabola per far capire a milioni di persone una cosa molto importante. Che la libertà è relazionale. Non riguarda i singoli separatamente ma il modo di stare all'interno delle relazioni. Non c'è da stupirsi. Se l'interpretazione della libertà si spinge oltre certe soglie si avranno reazioni sgradevoli.
Lei ha un’interpretazione del “porgi l'altra guancia” di Gesù molto affascinante, ce la spiega?
Io queste cose le ho scoperte studiando in particolare la psicanalista Marie Balmary, che dice una cosa che se ci pensiamo è di buon senso. Noi siamo stati molto legati ad una lettura letterale e anatomica dello schiaffo e dell'“altra guancia” come se la reazione proposta da Gesù fosse che se prendi uno schiaffo alla guancia destra devi porgere anche quella sinistra. Questo ha anche favorito un'immagine di Gesù buonista e remissivo che non corrisponde alla realtà. Gesù si arrabbia, eccome. E a volte reagisce anche molto male. L'“altra guancia” invece va intesa in senso metaforico, come invito a mostrare l'altra faccia delle cose. L’altra faccia di quello che ci sta accadendo nel mentre ci prendiamo a schiaffi. Il passaggio vero di Gesù non è di prenderle ma di costringere, indurre l'altro, a prendere in esame un'altra possibilità, rispetto a quella del rilancio simmetrico. Prendersi cura della relazione che è in corso in quel momento in modi che siano capaci di accogliere reciprocità e differenze. La mossa del perdono porta a questo. Ma non significa che sul piano comportamentale significhi accettare la violenza passivamente. Perché, se fosse così, non capiremmo la lotta partigiana e la giusta partecipazione di tanti cattolici a quella lotta armata. Io non sono credente, ma mi pare che il vangelo sia per tutti. E mi prendo il diritto di leggerlo a modo mio. Anche la celebre frase di Gesù che dice «sono venuto a portare la divisione e non la pace» è interessante. Sa che per accedere alla pace e al perdono bisogna passare per il conflitto e non fuggirlo. Anche Gandhi non sarebbe d’accordo, la non violenza non è la non azione.
C'è chi però si preoccupa che alle grandi masse questo messaggio arrivi distorto…
Ma questo è vero per qualunque cosa si dica. Ogni frase va guardata nell'insieme. Il Papa dice questa cosa ma il pugno non lo dà. E dice questa cosa all'interno di un discorso e di una storia. Non si può usare la forma slogan. In quella frase c’è poi il richiamo alla figura materna. Non è secondo me secondario. È il tema di un'idea di giustizia che non sia astratta, che non sia legata alla difesa di valori generici e aleatori, ma qualcosa di concreto, reale e vivo.
http://www.vita.it/mondo/attualita/sergio-manghi-ges-non-era-un-buonista-remissivo.html
di Lorenzo Maria Alvaro, vita.it, 19 gennaio 2015
L'ha sorpresa il fatto che l'attentato di Parigi sia stato perpetrato da parigini?
No, non mi ha affatto sorpreso. Lei ricorderà che tempo fa avevo scritto delle cose su Zinedine Zidane, immigrato francese di seconda generazione, che implicavano il tentativo di comprendere gli immigrati francesi che, soprattutto a partire dalla seconda generazione, tendono a scatenare tensioni non indifferenti. Mi sembra in qualche modo che, anche se non fossero stati francesi, chi compie una violenza di questo genere non può non avere incorporato modelli in qualche modo occidentali e avere desiderato di essere incluso in quei modelli. Io credo che sempre l'oggetto distrutto è anche desiderato. È complesso ma importante. Cerchiamo sempre le cause nelle differenze di identità. Io invece credo che si debba guardare alla relazione. È stato così anche con le Torri Gemelle.
In che senso?
Per capire come mai un Bin Laden desideri distruggere le Torri Gemelle non si deve partire dal noi/loro ma dall'ipotesi che voleva fossero sue. Una persona, ben prima dell'attentato a New York, aveva visto in un bazar a Il Cairo un poster con il deserto del Sahara con in mezzo le torri. Erano un oggetto del desiderio.
Questa mancata inclusione significa che l'Occidente sbaglia in qualcosa. Sa dire in cosa?
Dove sbagliamo costantemente è nel crederci già arrivati. Già padroni della libertà e del benessere. Dando per scontato che i nostri modelli di vita siano invidiabili. Poi gli altri ci credono davvero e se non li raggiungono cadono nel risentimento. Questo è l'errore che compiamo insieme a quella opposizione noi/loro. Anche in questa nostra conversazione. È vero siamo differenti. Ma non siamo superiori.
Anche l'idea di città con queste periferie abbandonate, le banlieue, è un errore?
Specificatamente la Francia ha una cultura molto particolare all'interno del mondo Occidentale. Ha sviluppato una concezione molto razionalista ed iperlaicista. Per cui si sta alle regole universali che valgono per tutti come se questo potesse davvero funzionare. Anche nel concepire il rapporto centro-periferia si ragiona in questi termini. Ma primo a poi se ne paga lo scotto.
Veniamo alla frase del Papa. Come ha preso la faccenda del pugno?
Come prima sensazione una sorpresa piacevole. Questa disinvoltura di dire in un modo apparentemente semplice e ingenuo una cosa del genere mi ha fatto pensare che ha voluto usare un linguaggio da parabola per far capire a milioni di persone una cosa molto importante. Che la libertà è relazionale. Non riguarda i singoli separatamente ma il modo di stare all'interno delle relazioni. Non c'è da stupirsi. Se l'interpretazione della libertà si spinge oltre certe soglie si avranno reazioni sgradevoli.
Lei ha un’interpretazione del “porgi l'altra guancia” di Gesù molto affascinante, ce la spiega?
Io queste cose le ho scoperte studiando in particolare la psicanalista Marie Balmary, che dice una cosa che se ci pensiamo è di buon senso. Noi siamo stati molto legati ad una lettura letterale e anatomica dello schiaffo e dell'“altra guancia” come se la reazione proposta da Gesù fosse che se prendi uno schiaffo alla guancia destra devi porgere anche quella sinistra. Questo ha anche favorito un'immagine di Gesù buonista e remissivo che non corrisponde alla realtà. Gesù si arrabbia, eccome. E a volte reagisce anche molto male. L'“altra guancia” invece va intesa in senso metaforico, come invito a mostrare l'altra faccia delle cose. L’altra faccia di quello che ci sta accadendo nel mentre ci prendiamo a schiaffi. Il passaggio vero di Gesù non è di prenderle ma di costringere, indurre l'altro, a prendere in esame un'altra possibilità, rispetto a quella del rilancio simmetrico. Prendersi cura della relazione che è in corso in quel momento in modi che siano capaci di accogliere reciprocità e differenze. La mossa del perdono porta a questo. Ma non significa che sul piano comportamentale significhi accettare la violenza passivamente. Perché, se fosse così, non capiremmo la lotta partigiana e la giusta partecipazione di tanti cattolici a quella lotta armata. Io non sono credente, ma mi pare che il vangelo sia per tutti. E mi prendo il diritto di leggerlo a modo mio. Anche la celebre frase di Gesù che dice «sono venuto a portare la divisione e non la pace» è interessante. Sa che per accedere alla pace e al perdono bisogna passare per il conflitto e non fuggirlo. Anche Gandhi non sarebbe d’accordo, la non violenza non è la non azione.
C'è chi però si preoccupa che alle grandi masse questo messaggio arrivi distorto…
Ma questo è vero per qualunque cosa si dica. Ogni frase va guardata nell'insieme. Il Papa dice questa cosa ma il pugno non lo dà. E dice questa cosa all'interno di un discorso e di una storia. Non si può usare la forma slogan. In quella frase c’è poi il richiamo alla figura materna. Non è secondo me secondario. È il tema di un'idea di giustizia che non sia astratta, che non sia legata alla difesa di valori generici e aleatori, ma qualcosa di concreto, reale e vivo.
http://www.vita.it/mondo/attualita/sergio-manghi-ges-non-era-un-buonista-remissivo.html
BIANCO, MASCHIO E “NARCISO”
di Carlo Di Stanislao, improntalaquila.org, 19 gennaio 2015
C’è un meccanismo regressivo puro che riguarda uomini che normalmente non sarebbero aggressivi ma che “perdono la testa” in situazioni di particolare alterazione e ci sono invece delle forme di violenza molto più strutturate, “culturali” o antropologiche che si fondano su convinzioni molto narcisistiche del tipo che chiamiamo “fallico”; cioè basate su un’idea di assoluta superiorità del maschile sul femminile. Ed esistono molte forme di violenza sulle donne, tale da generare una sorta di “invisibilità” del fenomeno, che è invece macroscopico, è dovuta a motivi diversi, molti dei quali sono inconsci e concernono la sostanza dei rapporti uomo/donna, anche quelli considerati normali.
Nessuna donna davvero in lizza per la Presidenza della Repubblica e nessuna, in tutt’altro ambito, nelle 15 caselle degli Oscar del 2015. Arretra ed anzi scompare fra i nomi papabili per il Colle la Finocchiaro e ricevono mazzate nelle nomination autrici come Selma Ava Du Vernay, che avrebbe potuto essere la prima donna nera dietro la macchina da presa a prendere un Oscar ed invece non è neanche candidata ed Angelina Jolie, regista di “Unbroken”, film che pure è piaciuto anche al Papa.
Il mondo resta maschio e bianco, anzi continua ad esserlo, con solo qualche svista che a volta ci illude, come sosteneva George Bernard Shaw. Ancora oggi, nonostante tante rivoluzioni, nonostante gli anni ’60, il maschio, bianco, dominante, cresce studia, osserva il mondo, vede una crisi e pensa che in fondo si stava meglio quando si stava peggio e si comporta, nel “civile occidente” oggi indignato dopo i fatti di Parigi e gli eccidi della Nigeria, che però si comporta allo stesso modo degli atroci barbari islamici che, come racconta bene Fatima Mernissi nel suo “Islam e democrazia”, quando vi è un problema di occupazione, l’Imam annuncia che per le donne è vietato andare a lavorare.
Ed ha ragione allora Fabio Fazio, nella sua intervista di ieri a Jane Fonda, quando dice che la rivoluzione vera deve riguardare noi uomini e non le donne, perché senza questo radicale cambiamento continueremo, con poche insignificanti varianti, ha produrre che guardano al futuro con gli occhiali del passato, in cui non si immaginano nemmeno servizi di cura per gli anziani, ad avere asili nido sufficienti a coprire il tasso di natalità, e che preferirà pagare le donne perché stiano a casa a curare i familiari, piuttosto che dare il loro contributo attivo e rivoluzionario o comunque nuovo, alla società.
Eppure oggi si laureano nel nostro paese in Medicina 13.500 donne contro 6.000 uomini e nonostante queste le assunzioni e le carriere sono ancora sperequate verso il maschio, possibilmente bianco e di mentalità certamente dominante. Le statistiche dicono ancora che l’80% del tempo dedicato ai lavori di casa è a carico delle donne; che gli uomini che chiedono il part-time sono una percentuale minima rispetto alle donne; che la carriera delle donne è minata dal congedo post partum, sempre e solo a carico loro e non in maniera condivisa dai papà. Ed infine, che la scuola ancora oggi è pensata e organizzata con orari che impongono una mamma a casa.
Il maschio bianco dominante, dicono gli psicologi, è un narciso con mancanza di progettualità e di crescita, spesso violento, ottuso, che non ascolta e sa solo contraddire, che giudica tutto e tutti e si sente assolutamente perfetto.
Secondo il DMS IV, manuale di riferimento dei disturbi psichiatrici, in aumento oggi il Disturbo Narcisistico di Personalità o NPD, che presenta un quadro clinico complesso che si caratterizza essenzialmente per un eccessivo investimento libidico sulla propria persona, a scapito della relazionalità sociale e dei rapporti interpersonali. Non deve però trarre in inganno questa sommaria descrizione della apparente “autonomia” della personalità narcisistica, poiché in realtà in questo caso si verifica il paradosso di un individuo fortemente bisognoso della propria immagine riflessa dagli altri, in un gioco di continuo mascheramento e perennemente in bilico tra un senso di sé “gonfiato” (sentirsi superiori, speciali, particolarmente dotati, richiedere eccessiva ammirazione, etc.) e l’oscuro timore di un inevitabile ridimensionamento (che condurrebbe su un versante depressivo e pertanto respinto con tutte le forze). Ed è da questa ambiguità che nasce, nel maschio narciso, la violenza o la marginalizzazione della donna.
Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicanalista, tra i maggiori esperti delle problematiche adolescenziali, docente di Psicologia dinamica all’Università di Milano, nel 2008, a commento di uno dei tanti femminicidi italiani (quello di Lorena Cultraro, una studentessa di 14 anni, che venne trovata morta in un pozzo a un paio di chilometri da casa), parlò del fatto che, in termini psicanalitici, il giovane Edipo è stato soppiantato dal giovane Narciso ed il maschio attuale, adolescente o immaturo di qualsiasi età, a differenza del suo predecessore, che per affermare la propria identità doveva necessariamente ribellarsi all’autorità costituita (simbolo di quella paterna che lo teneva in scacco nell’infanzia), non ha motivi importanti per opporsi o contrastare l’ecosistema culturale ed educativo in cui cresce, e poiché tale sistema è sessista ed antifemminile, tale diventa, automaticamente.
La televisione è al completo servizio di Narciso, la pubblicità lo corteggia e lo rappresenta come modello, il cinema canta i suoi amori con una tenerezza commerciale inusitata, l’editoria vive delle vendite dei libri costruiti per lui. Tutto il mercato si rivolge a Narciso, favorendo un processo di adolescenzializzazione dei consumi, nella consapevolezza che i ragazzi, orientando la politica degli acquisti di tutta la famiglia, muovono masse enormi di denaro. E, in questo modo, si resta Narcisi per sempre, per sempre, miscugli disarmonici di aspetti adulti e istanze infantili, con, nelle profondità corporee, sviluppo di istanze che si fanno spesso pericolose o esplosive.
E poiché per Narciso, bianco, maschio, infantile e dominante, l’insieme degli apparati tecnologici e multimediali, che propongono copie del reale indolori e morbide, può rappresentare una sorta di collante per le parti del sé frammentate, l’esperienza di internet è una aggravante che dematerializza la realtà: la possibilità della visione e dell’immersione in ambienti creati e gestiti attraverso il computer de-realizza le situazioni umane, facendo passare il concetto che l’agire simbolico sia naturale; La mente si abitua a categorie percettive diverse, modificando l’essenza ontologica dell’esperienza, la sua qualità, il vissuto emozionale che comporta, l’elaborazione psichica, e infine la sua rappresentabilità.
Ed allora capiamo i fatti che riguardano gli Oscar o il Colle ed altri che ci roteano attorno, con Narcisi di ogni età che piuttosto che ridefinire a livello profondo i loro valori e i loro rapporti con l’esistente, decidono di continuare a giocare il ruolo di grande promessa, ma in ambiti sempre più ristretti e selezionati, con una rabbia che sfocare in ogni istante in cupo rancore o follia omicida. Ciò che auspico, e che va auspicato, è il declino del narcisismo antropocentrico, per cui accettare finalmente la presenza dell’Altro e riconoscerne l’importanza nella formazione dell’immagine che hanno di loro stessi; il crepuscolo del mito della purezza e della fissità dell’uomo; il tramonto dell’autoreferenzialità centralistica di Homo Sapiens, inteso come bianco e dominante.
http://www.improntalaquila.org/2015/bianco-maschio-e-narciso-79797.html
Nessuna donna davvero in lizza per la Presidenza della Repubblica e nessuna, in tutt’altro ambito, nelle 15 caselle degli Oscar del 2015. Arretra ed anzi scompare fra i nomi papabili per il Colle la Finocchiaro e ricevono mazzate nelle nomination autrici come Selma Ava Du Vernay, che avrebbe potuto essere la prima donna nera dietro la macchina da presa a prendere un Oscar ed invece non è neanche candidata ed Angelina Jolie, regista di “Unbroken”, film che pure è piaciuto anche al Papa.
Il mondo resta maschio e bianco, anzi continua ad esserlo, con solo qualche svista che a volta ci illude, come sosteneva George Bernard Shaw. Ancora oggi, nonostante tante rivoluzioni, nonostante gli anni ’60, il maschio, bianco, dominante, cresce studia, osserva il mondo, vede una crisi e pensa che in fondo si stava meglio quando si stava peggio e si comporta, nel “civile occidente” oggi indignato dopo i fatti di Parigi e gli eccidi della Nigeria, che però si comporta allo stesso modo degli atroci barbari islamici che, come racconta bene Fatima Mernissi nel suo “Islam e democrazia”, quando vi è un problema di occupazione, l’Imam annuncia che per le donne è vietato andare a lavorare.
Ed ha ragione allora Fabio Fazio, nella sua intervista di ieri a Jane Fonda, quando dice che la rivoluzione vera deve riguardare noi uomini e non le donne, perché senza questo radicale cambiamento continueremo, con poche insignificanti varianti, ha produrre che guardano al futuro con gli occhiali del passato, in cui non si immaginano nemmeno servizi di cura per gli anziani, ad avere asili nido sufficienti a coprire il tasso di natalità, e che preferirà pagare le donne perché stiano a casa a curare i familiari, piuttosto che dare il loro contributo attivo e rivoluzionario o comunque nuovo, alla società.
Eppure oggi si laureano nel nostro paese in Medicina 13.500 donne contro 6.000 uomini e nonostante queste le assunzioni e le carriere sono ancora sperequate verso il maschio, possibilmente bianco e di mentalità certamente dominante. Le statistiche dicono ancora che l’80% del tempo dedicato ai lavori di casa è a carico delle donne; che gli uomini che chiedono il part-time sono una percentuale minima rispetto alle donne; che la carriera delle donne è minata dal congedo post partum, sempre e solo a carico loro e non in maniera condivisa dai papà. Ed infine, che la scuola ancora oggi è pensata e organizzata con orari che impongono una mamma a casa.
Il maschio bianco dominante, dicono gli psicologi, è un narciso con mancanza di progettualità e di crescita, spesso violento, ottuso, che non ascolta e sa solo contraddire, che giudica tutto e tutti e si sente assolutamente perfetto.
Secondo il DMS IV, manuale di riferimento dei disturbi psichiatrici, in aumento oggi il Disturbo Narcisistico di Personalità o NPD, che presenta un quadro clinico complesso che si caratterizza essenzialmente per un eccessivo investimento libidico sulla propria persona, a scapito della relazionalità sociale e dei rapporti interpersonali. Non deve però trarre in inganno questa sommaria descrizione della apparente “autonomia” della personalità narcisistica, poiché in realtà in questo caso si verifica il paradosso di un individuo fortemente bisognoso della propria immagine riflessa dagli altri, in un gioco di continuo mascheramento e perennemente in bilico tra un senso di sé “gonfiato” (sentirsi superiori, speciali, particolarmente dotati, richiedere eccessiva ammirazione, etc.) e l’oscuro timore di un inevitabile ridimensionamento (che condurrebbe su un versante depressivo e pertanto respinto con tutte le forze). Ed è da questa ambiguità che nasce, nel maschio narciso, la violenza o la marginalizzazione della donna.
Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicanalista, tra i maggiori esperti delle problematiche adolescenziali, docente di Psicologia dinamica all’Università di Milano, nel 2008, a commento di uno dei tanti femminicidi italiani (quello di Lorena Cultraro, una studentessa di 14 anni, che venne trovata morta in un pozzo a un paio di chilometri da casa), parlò del fatto che, in termini psicanalitici, il giovane Edipo è stato soppiantato dal giovane Narciso ed il maschio attuale, adolescente o immaturo di qualsiasi età, a differenza del suo predecessore, che per affermare la propria identità doveva necessariamente ribellarsi all’autorità costituita (simbolo di quella paterna che lo teneva in scacco nell’infanzia), non ha motivi importanti per opporsi o contrastare l’ecosistema culturale ed educativo in cui cresce, e poiché tale sistema è sessista ed antifemminile, tale diventa, automaticamente.
La televisione è al completo servizio di Narciso, la pubblicità lo corteggia e lo rappresenta come modello, il cinema canta i suoi amori con una tenerezza commerciale inusitata, l’editoria vive delle vendite dei libri costruiti per lui. Tutto il mercato si rivolge a Narciso, favorendo un processo di adolescenzializzazione dei consumi, nella consapevolezza che i ragazzi, orientando la politica degli acquisti di tutta la famiglia, muovono masse enormi di denaro. E, in questo modo, si resta Narcisi per sempre, per sempre, miscugli disarmonici di aspetti adulti e istanze infantili, con, nelle profondità corporee, sviluppo di istanze che si fanno spesso pericolose o esplosive.
E poiché per Narciso, bianco, maschio, infantile e dominante, l’insieme degli apparati tecnologici e multimediali, che propongono copie del reale indolori e morbide, può rappresentare una sorta di collante per le parti del sé frammentate, l’esperienza di internet è una aggravante che dematerializza la realtà: la possibilità della visione e dell’immersione in ambienti creati e gestiti attraverso il computer de-realizza le situazioni umane, facendo passare il concetto che l’agire simbolico sia naturale; La mente si abitua a categorie percettive diverse, modificando l’essenza ontologica dell’esperienza, la sua qualità, il vissuto emozionale che comporta, l’elaborazione psichica, e infine la sua rappresentabilità.
Ed allora capiamo i fatti che riguardano gli Oscar o il Colle ed altri che ci roteano attorno, con Narcisi di ogni età che piuttosto che ridefinire a livello profondo i loro valori e i loro rapporti con l’esistente, decidono di continuare a giocare il ruolo di grande promessa, ma in ambiti sempre più ristretti e selezionati, con una rabbia che sfocare in ogni istante in cupo rancore o follia omicida. Ciò che auspico, e che va auspicato, è il declino del narcisismo antropocentrico, per cui accettare finalmente la presenza dell’Altro e riconoscerne l’importanza nella formazione dell’immagine che hanno di loro stessi; il crepuscolo del mito della purezza e della fissità dell’uomo; il tramonto dell’autoreferenzialità centralistica di Homo Sapiens, inteso come bianco e dominante.
http://www.improntalaquila.org/2015/bianco-maschio-e-narciso-79797.html
LUIGI BALLERINI: “CARI GENITORI ASCOLTATE I FIGLI”
di Giorgio Romeo, La Sicilia, 19 gennaio 2015
Cosa significa essere genitori oggi? Come rapportarsi alla diffusione delle nuove tecnologie tra i più piccoli? E come rivedere il rapporto con i propri figli affinché sia più sano? In un’epoca in cui la perdita di valori impera nel nostro quotidiano queste sono solo alcune delle questioni che assillano le menti di molti padri e madri. Ne abbiamo parlato con Luigi Ballerini, psicoanalista e scrittore che da molti anni si occupa di tematiche relative all’infanzia. Lo abbiamo incontrato ieri presso il teatro “Sipario Blu” dell’Istituto Sant’Orsola in occasione di un “open day” durante il quale ha presentato il suo nuovo volume “Adesso cosa faccio?” (Edizioni Lindau, 2014).
Perché è necessario ripensare il rapporto tra genitori e figli?
«Una delle domande che spesso mi pongono i genitori quando hanno un problema con i loro figli è: “Adesso cosa faccio?”. La vera domanda tuttavia, in un momento di difficoltà, dovrebbe essere: “Qual è l’origine del problema?”. Il problema è che tendiamo ad avere un’idea di educazione molto unilaterale: il bambino è visto come fosse carta assorbente e non c’è nulla di più sbagliato. L’apprendimento non funziona per osmosi. È necessaria allora una posizione di ascolto nei confronti dei figli, l’unica che ci consente di accorgerci davvero quando le cose non vanno bene. Perché, a volte, facciamo davvero fatica a capirlo».
Quanto incidono nella formazione dei figli le aspettative dei genitori?
«I bambini di oggi sono sempre più sopraffatti dalle richieste di performance, sia a casa che a scuola. Ad esempio è molto diffusa l’idea che si debba arrivare in prima elementare sapendo già leggere e scrivere. Siamo così sicuri sia necessario? Il cosiddetto “edutainment” (una crasi di education e intertainment) è sostanzialmente basato su un inganno: facciamo finta che giochi, ma nello stesso tempo impari. Lo scopo è arrivare prima degli altri ma, in realtà, questo interessa solo agli adulti. Tutti vogliono il meglio per i propri figli, ma il rischio diviene quello di fare un confronto con un “bambino ideale”. Confronto dal quale nostro figlio uscirà inevitabilmente sconfitto».
Il rapporto con le nuove tecnologie preoccupa e angoscia molti genitori. Come comportarsi a riguardo?
«I genitori di oggi si trovano di fronte a delle sfide sempre nuove in ambito tecnologico. Ultimamente mi è stato chiesto come fare a togliere un iPad a un bambino di tre anni, una problematica che, ovviamente, pochi anni fa non esisteva. In ogni caso è importante non essere anacronistici: viviamo nel 2015 e, così come non andiamo in giro in carrozza, non possiamo far finta che certi strumenti non esistano. Pensare di dare il cellulare al proprio figlio solo quando studierà al liceo è una posizione che andava bene 5 – 10 anni fa, ma oggi si correrebbe solo un altro rischio: quello dell’esclusione sociale, poiché tutti i suoi coetanei ne faranno un largo uso per relazionarsi».
E in merito ai pericoli della rete?
«Credo fortemente che la sfida col virtuale si vinca nel reale. Tanto più i giovani avranno una vita reale soddisfacente, amici con cui uscire o andare al cinema, tanto più il virtuale si metterà al suo servizio, venendo utilizzato, ad esempio, per organizzare velocemente una partita. In assenza del reale, viceversa, c’è il rischio di diventare preda o predatore nella rete. È importante avere uno sguardo a tutto tondo sulla vita dei ragazzi, non solo una logica di controllo o protezione. A volte, preoccupati dalla sicurezza, pensiamo che nostro figlio in casa sia più sicuro, ma in realtà internet apre la strada a qualsiasi porcheria. Se esce fuori dicendo che va a giocare a pallone con gli amici sono costretto a fidarmi, ma è certamente meno rischioso che favorire un isolamento dentro il quale si potrebbe perdere».
Ogni volta che un fatto di cronaca nera coinvolge un minore si crea un dibattito su quanto sia opportuno farne un caso mediatico. Che impatto ha questo sui bambini?
«In generale media come la televisione dovrebbero resistere alla tentazione di alimentare il gusto sadico che c’è nel divulgare certe immagini e informazioni. Sapere esattamente come viene stretta una fascetta non aggiunge nulla al valore di una notizia. Molto spesso, tuttavia, vorremmo proteggere i nostri bambini dalla realtà. Recentemente mi è capitata una bambina cui è stato nascosto che era morta la nonna. In realtà lei ha passato mesi a chiedersi che fine avesse fatto. La difficoltà vera era dei genitori che non sapevano come porre la questione della morte, la figlia, invece, l’avrebbe accettata. Con i bambini si può parlare di tutto, ma bisogna parlarne bene. Sottoporli ai dettagli morbosi di un omicidio non fa bene a loro, e nemmeno a noi».
http://www.santambrogiocoop.it/index.php/su-di-noi/84-luigi-ballerini-cari-genitori-ascoltate-i-figli
Perché è necessario ripensare il rapporto tra genitori e figli?
«Una delle domande che spesso mi pongono i genitori quando hanno un problema con i loro figli è: “Adesso cosa faccio?”. La vera domanda tuttavia, in un momento di difficoltà, dovrebbe essere: “Qual è l’origine del problema?”. Il problema è che tendiamo ad avere un’idea di educazione molto unilaterale: il bambino è visto come fosse carta assorbente e non c’è nulla di più sbagliato. L’apprendimento non funziona per osmosi. È necessaria allora una posizione di ascolto nei confronti dei figli, l’unica che ci consente di accorgerci davvero quando le cose non vanno bene. Perché, a volte, facciamo davvero fatica a capirlo».
Quanto incidono nella formazione dei figli le aspettative dei genitori?
«I bambini di oggi sono sempre più sopraffatti dalle richieste di performance, sia a casa che a scuola. Ad esempio è molto diffusa l’idea che si debba arrivare in prima elementare sapendo già leggere e scrivere. Siamo così sicuri sia necessario? Il cosiddetto “edutainment” (una crasi di education e intertainment) è sostanzialmente basato su un inganno: facciamo finta che giochi, ma nello stesso tempo impari. Lo scopo è arrivare prima degli altri ma, in realtà, questo interessa solo agli adulti. Tutti vogliono il meglio per i propri figli, ma il rischio diviene quello di fare un confronto con un “bambino ideale”. Confronto dal quale nostro figlio uscirà inevitabilmente sconfitto».
Il rapporto con le nuove tecnologie preoccupa e angoscia molti genitori. Come comportarsi a riguardo?
«I genitori di oggi si trovano di fronte a delle sfide sempre nuove in ambito tecnologico. Ultimamente mi è stato chiesto come fare a togliere un iPad a un bambino di tre anni, una problematica che, ovviamente, pochi anni fa non esisteva. In ogni caso è importante non essere anacronistici: viviamo nel 2015 e, così come non andiamo in giro in carrozza, non possiamo far finta che certi strumenti non esistano. Pensare di dare il cellulare al proprio figlio solo quando studierà al liceo è una posizione che andava bene 5 – 10 anni fa, ma oggi si correrebbe solo un altro rischio: quello dell’esclusione sociale, poiché tutti i suoi coetanei ne faranno un largo uso per relazionarsi».
E in merito ai pericoli della rete?
«Credo fortemente che la sfida col virtuale si vinca nel reale. Tanto più i giovani avranno una vita reale soddisfacente, amici con cui uscire o andare al cinema, tanto più il virtuale si metterà al suo servizio, venendo utilizzato, ad esempio, per organizzare velocemente una partita. In assenza del reale, viceversa, c’è il rischio di diventare preda o predatore nella rete. È importante avere uno sguardo a tutto tondo sulla vita dei ragazzi, non solo una logica di controllo o protezione. A volte, preoccupati dalla sicurezza, pensiamo che nostro figlio in casa sia più sicuro, ma in realtà internet apre la strada a qualsiasi porcheria. Se esce fuori dicendo che va a giocare a pallone con gli amici sono costretto a fidarmi, ma è certamente meno rischioso che favorire un isolamento dentro il quale si potrebbe perdere».
Ogni volta che un fatto di cronaca nera coinvolge un minore si crea un dibattito su quanto sia opportuno farne un caso mediatico. Che impatto ha questo sui bambini?
«In generale media come la televisione dovrebbero resistere alla tentazione di alimentare il gusto sadico che c’è nel divulgare certe immagini e informazioni. Sapere esattamente come viene stretta una fascetta non aggiunge nulla al valore di una notizia. Molto spesso, tuttavia, vorremmo proteggere i nostri bambini dalla realtà. Recentemente mi è capitata una bambina cui è stato nascosto che era morta la nonna. In realtà lei ha passato mesi a chiedersi che fine avesse fatto. La difficoltà vera era dei genitori che non sapevano come porre la questione della morte, la figlia, invece, l’avrebbe accettata. Con i bambini si può parlare di tutto, ma bisogna parlarne bene. Sottoporli ai dettagli morbosi di un omicidio non fa bene a loro, e nemmeno a noi».
http://www.santambrogiocoop.it/index.php/su-di-noi/84-luigi-ballerini-cari-genitori-ascoltate-i-figli
SULLA LIBERTÀ, SENZA SATIRA. PENSIERI SU “CHARLIE HEBDO” E SUI NOSTRI OCCIDENTALI DISORIENTAMENTI
di Giancarlo Ricci, milanoartexpo.com, 19 gennaio 2015
L’etimo di satira rinvia a saturo, a saturazione, a miscuglio, e anche al gioco sferzante del satiro, creatura lasciva e dedita a voluttuose ebbrezze. Ma chi avrebbe immaginato che la satira potesse oggi diventare oggetto di tante pallottole? Dopo le stragi di Parigi è comprensibile che moltissimi parlino di libertà di satira e facciano di questa libertà un emblema assoluto. Ma è proprio qui che appare un nodo: che la sfrenata libertà di satira venga fatta coincidere con l’emblema della libertà, della Libertà di noi occidentali.
Quest’ultimi venerano l’idolo della libertà senza accorgerci che la libertà pone immediatamente la questione stessa dell’altro (e dell’Altro), degli altri, del prossimo, del simile, del Nebenmensch freudiano. Gli occidentali gridano che ciascuno deve essere un soggetto libero: libertà di espressione, libertà di pensiero, libertà di godere, libertà di desiderare. Il punto cieco è che non può esistere un “soggetto libero” perché il soggetto (sub jectum), per definizione, è già da sempre assoggettato. Se così non fosse la psicanalisi, ma non solo, non avrebbe più alcun senso, svanirebbe in un soffio. Rimarrebbe (ma già ci siamo) il regno dell’Io, il regno della padronanza e dell’esercizio della libertà, appunto.
Il punto cieco, invisibile e scotomizzato, è che ogni libertà ha il suo foro esterno e il suo foro interno, come dicevano gli antichi, ovvero una doppia responsabilità, verso la dimensione “pubblica” e verso quella “privata”. Più semplicemente: la scissione propugnata dalla contemporaneità, per motivi di business, di ingegneria sociale e di espansione dei mercati, tra il concetto di libertà e quello di responsabilità, promuove allegramente una schizofrenizzazione dei legami sociali e una concezione perversa della comunità. Delocalizza il “pubblico” e il “privato”, offre il diritto al godimento senza limite, addomestica l’alterità a favore dell’alterazione.
L’attuale e celebrata enfasi posta sulla satira fa pensare. Nulla contro “Charlie Hebdo”, anzi un omaggio. Ma che sia un omaggio alto, il più alto. Tanta enfasi sulla satira fa pensare perché in fondo la satira è una figura della comicità. La quale è decisamente diversa dal Witz, dove un frammento di verità irrompe accompagnato dalla risata, e ben distinta dalla grandiosità dell’umorismo che, incurante dell’avversità, non ride ma difende a perdifiato l’umano. Freud lo ha insegnato, ma anche Pirandello, Bergson e un numero indefinibile di saggisti, scrittori, poeti, pensatori.
No, la satira non raggiunge le vette, per sua natura. Vive e talvolta vivacchia all’ombra della trasgressione, del piccolo divertimento, della provocazione. Gioca a scompigliare il “politicamente corretto” (di questo dobbiamo darle merito). La satira attende che l’altro reagisca e accusi il colpo (purtroppo abbiamo visto). Non osa dire cosa realmente pensa, ma si appoggia a ciò che è stato detto da un altro per far sentire la sua voce. Vorrebbe avere voce in capitolo, ma manca di un pensiero proprio. E allora graffia, punzecchia, giunge sino al sarcasmo, si serve della parodia e della caricatura. Deturpa, sfregia, devasta. Ma soprattutto: dissacra, consacra, massacra. In nome di un voler dire… che non è detto e non si dice. Si può solo immaginare o disegnare.
Ahimè, moriremo di satira, noi sedicenti occidentali. Andremo a picco per aver imbarcato troppi satiri con le loro gaie e prevedibili ebbrezze. Moriremo saturi, pieni delle nostre satire. Saturi delle nostre libertà bulimiche, saturi dei nostri diritti preconfezionati, saturi delle nostre coscienze cinicamente coscienziose. Possiamo cedere a compromessi su tutte le altre libertà, ma alla libertà di satira non possiamo rinunciare. Per dimostrarlo dobbiamo spingere la satira fino alla blasfemia e all’insulto. Ormai, quando tutto è possibile, quando tutto è consumabile e immaginabile, rimane l’effetto speciale. Un incubo.
Il teorema risulta devastante: solo senza un limite possiamo dimostrare di essere davvero liberi. Solo così siamo davvero Occidentali e possiamo esserne orgogliosi. Di ciò che sta tramontando (alla lettera: che si sta occidentalizzando) non ci interessa un bel niente. Del resto se possiamo fare ancora satira sfrenata e gratuita, significa che gli “occidentali disorientamenti” non ci toccano.
Abbiamo la libertà, ce la siamo guadagnata: abbondante, senza limiti, cieca, sorda, autoreferenziale. Ciò che è accaduto si è incagliato in qualche angolo della nostra memoria e ogni tanto riaffiora. Non importa, avremo pure la libertà di ignorare? Ciò che oggi accade, ogni giorno in qualche angolo della storia, ci getta addosso ciò che non abbiamo voluto sapere. Non importa, abbiamo pure la libertà di scansarci, nevvero? Ciò su cui dovevamo dire qualcosa, qualcosa che ci sfiorava o ci colpiva in pieno volto, è rimasto nel mesto e composto tacere. Perché non potremmo essere liberi di sottacere? Di voltarci elegantemente dall’altra parte? La libertà riserviamola, per favore, solo per cose serie.
E così facendo ogni paradigma immunitario si sgretola, impazzisce, confonde amici e nemici, rende irriconoscibili le libertà vere da quelle apparenti, quelle proclamate da quelle praticate. Rende luccicanti quelle libertà in cui facciamo finta di riconoscerci e con cui amiamo confortarci, e getta nella dimenticanza e nel silenzio tutto il resto. Le pattumiere sono colme di quantità enormi di libertà usate e gettate. L’inconscio non perdona. E ci aspetta al varco quando meno ce lo attendiamo. Non satireggia l’inconscio. E non indietreggia. Avanza a colpi di reale.
http://milanoartexpo.com/2015/01/19/charlie-hebdo-sulla-liberta-senza-satira-occidentali-disorientamenti-di-giancarlo-ricci/
Quest’ultimi venerano l’idolo della libertà senza accorgerci che la libertà pone immediatamente la questione stessa dell’altro (e dell’Altro), degli altri, del prossimo, del simile, del Nebenmensch freudiano. Gli occidentali gridano che ciascuno deve essere un soggetto libero: libertà di espressione, libertà di pensiero, libertà di godere, libertà di desiderare. Il punto cieco è che non può esistere un “soggetto libero” perché il soggetto (sub jectum), per definizione, è già da sempre assoggettato. Se così non fosse la psicanalisi, ma non solo, non avrebbe più alcun senso, svanirebbe in un soffio. Rimarrebbe (ma già ci siamo) il regno dell’Io, il regno della padronanza e dell’esercizio della libertà, appunto.
Il punto cieco, invisibile e scotomizzato, è che ogni libertà ha il suo foro esterno e il suo foro interno, come dicevano gli antichi, ovvero una doppia responsabilità, verso la dimensione “pubblica” e verso quella “privata”. Più semplicemente: la scissione propugnata dalla contemporaneità, per motivi di business, di ingegneria sociale e di espansione dei mercati, tra il concetto di libertà e quello di responsabilità, promuove allegramente una schizofrenizzazione dei legami sociali e una concezione perversa della comunità. Delocalizza il “pubblico” e il “privato”, offre il diritto al godimento senza limite, addomestica l’alterità a favore dell’alterazione.
L’attuale e celebrata enfasi posta sulla satira fa pensare. Nulla contro “Charlie Hebdo”, anzi un omaggio. Ma che sia un omaggio alto, il più alto. Tanta enfasi sulla satira fa pensare perché in fondo la satira è una figura della comicità. La quale è decisamente diversa dal Witz, dove un frammento di verità irrompe accompagnato dalla risata, e ben distinta dalla grandiosità dell’umorismo che, incurante dell’avversità, non ride ma difende a perdifiato l’umano. Freud lo ha insegnato, ma anche Pirandello, Bergson e un numero indefinibile di saggisti, scrittori, poeti, pensatori.
No, la satira non raggiunge le vette, per sua natura. Vive e talvolta vivacchia all’ombra della trasgressione, del piccolo divertimento, della provocazione. Gioca a scompigliare il “politicamente corretto” (di questo dobbiamo darle merito). La satira attende che l’altro reagisca e accusi il colpo (purtroppo abbiamo visto). Non osa dire cosa realmente pensa, ma si appoggia a ciò che è stato detto da un altro per far sentire la sua voce. Vorrebbe avere voce in capitolo, ma manca di un pensiero proprio. E allora graffia, punzecchia, giunge sino al sarcasmo, si serve della parodia e della caricatura. Deturpa, sfregia, devasta. Ma soprattutto: dissacra, consacra, massacra. In nome di un voler dire… che non è detto e non si dice. Si può solo immaginare o disegnare.
Ahimè, moriremo di satira, noi sedicenti occidentali. Andremo a picco per aver imbarcato troppi satiri con le loro gaie e prevedibili ebbrezze. Moriremo saturi, pieni delle nostre satire. Saturi delle nostre libertà bulimiche, saturi dei nostri diritti preconfezionati, saturi delle nostre coscienze cinicamente coscienziose. Possiamo cedere a compromessi su tutte le altre libertà, ma alla libertà di satira non possiamo rinunciare. Per dimostrarlo dobbiamo spingere la satira fino alla blasfemia e all’insulto. Ormai, quando tutto è possibile, quando tutto è consumabile e immaginabile, rimane l’effetto speciale. Un incubo.
Il teorema risulta devastante: solo senza un limite possiamo dimostrare di essere davvero liberi. Solo così siamo davvero Occidentali e possiamo esserne orgogliosi. Di ciò che sta tramontando (alla lettera: che si sta occidentalizzando) non ci interessa un bel niente. Del resto se possiamo fare ancora satira sfrenata e gratuita, significa che gli “occidentali disorientamenti” non ci toccano.
Abbiamo la libertà, ce la siamo guadagnata: abbondante, senza limiti, cieca, sorda, autoreferenziale. Ciò che è accaduto si è incagliato in qualche angolo della nostra memoria e ogni tanto riaffiora. Non importa, avremo pure la libertà di ignorare? Ciò che oggi accade, ogni giorno in qualche angolo della storia, ci getta addosso ciò che non abbiamo voluto sapere. Non importa, abbiamo pure la libertà di scansarci, nevvero? Ciò su cui dovevamo dire qualcosa, qualcosa che ci sfiorava o ci colpiva in pieno volto, è rimasto nel mesto e composto tacere. Perché non potremmo essere liberi di sottacere? Di voltarci elegantemente dall’altra parte? La libertà riserviamola, per favore, solo per cose serie.
E così facendo ogni paradigma immunitario si sgretola, impazzisce, confonde amici e nemici, rende irriconoscibili le libertà vere da quelle apparenti, quelle proclamate da quelle praticate. Rende luccicanti quelle libertà in cui facciamo finta di riconoscerci e con cui amiamo confortarci, e getta nella dimenticanza e nel silenzio tutto il resto. Le pattumiere sono colme di quantità enormi di libertà usate e gettate. L’inconscio non perdona. E ci aspetta al varco quando meno ce lo attendiamo. Non satireggia l’inconscio. E non indietreggia. Avanza a colpi di reale.
http://milanoartexpo.com/2015/01/19/charlie-hebdo-sulla-liberta-senza-satira-occidentali-disorientamenti-di-giancarlo-ricci/
DOPPIO SOGNO: L’IMPRESSIONANTE VIAGGIO NELLA PSICHE UMANA. In prima regionale al Teatro Civico di Alghero, l’opera scritta e diretta da Giancarlo Marinelli si sposterà, forte del primo successo di pubblico, in numerosi altri palcoscenici sardi. Questa sera debutterà ad Arzachena e poi a Nuoro, Santa Teresa, San Gavino e Tempio
di Daria Chiappe, alguer.it, 20 gennaio 2015
ALGHERO – Dopo il grandioso exploit di Lello Arena [GUARDA], la Stagione di Prosa 2015 del Cedac prosegue con successo al Teatro Civico di Alghero, dove lunedì 19 gennaio si è registrato un nuovo tutto esaurito, grazie alla messa in scena di “Doppio Sogno” di Giancarlo Marinelli [GUARDA]. Ad attrarre indubbiamente il cast di attori noti, quali Ivana Monti, applauditissima per la sua intensità recitativa e maturità artistica, i due protagonisti Caterina Murino e Giorgio Lupano e il frizzante Rosario Coppolino, accompagnati poi dagli altri interpreti della compagnia Molière, tutti degni di apprezzamento. A non deludere successivamente lo spettacolo in sé, così ricco di rimandi alla letteratura, alla psicologia e al cinema, da non annoiare nelle sue due ore di durata, ma piuttosto intrigare e trascinare dentro la complessità della mente umana, l’intero pubblico. Una mente che con le sue paure, le sue angosce, i suoi dolori e desideri custoditi nell’inconscio è stata la vera protagonista dell’opera. Servendosi infatti degli insegnamenti del padre della psicoanalisi Sigmund Freud, simpaticamente richiamato alla memoria con le finte interruzioni dello spettacolo da parte di un attore in camice bianco e occhialetti, e recuperando l’atmosfera inquietante delle scene perverse del film di Kubrick “Eyes Wide Shut”, così come il significato insito dietro la maschera pirandelliana, il regista ha voluto raccontare l’uomo.
Un essere cioè condizionato dalla realtà, spesso costretto ad adattarsi alle convenzioni sociali e quindi a soffocare la propria natura; un essere continuamente attraversato da sensazioni come la gelosia, qui ampiamente trattata, al fine di mostrare la complessità dei rapporti di coppia e delle razioni tra genitori e figli. E infine un essere continuamente scosso da sogni, pulsioni e drammi (come in questo caso la perdita di un figlio), così insopportabili da condurre alla pazzia, così opprimenti da non smettere di tormentare l’animo umano neanche nel sonno. Un luogo questo dove la realtà, esattamente come noi la percepiamo, affiora continuamente.
Quella del sogno infatti è stata la strada scelta da Marinelli per mettere a nudo i suoi personaggi, per fare chiarezza nelle loro vite e nei loro comportamenti. Solo sul finale così sarà possibile ricostruire i pezzi di quello che sostanzialmente è stato un viaggio, forte ed impressionante, nella psiche umana. Un viaggio che verrà riproposto sui palcoscenici dell’Auditorium Comunale di Arzachena (questa sera), del Teatro Eliseo di Nuoro (mercoledì 21 gennaio), del Cineteatro Comunale Nelson Mandela di Santa Teresa Gallura (giovedì 22), del Teatro Comunale di San Gavino Monreale (venerdì 23) e del Teatro del Carmine di Tempio Pausania (sabato 24).
http://notizie.alguer.it/n?id=84075
Un essere cioè condizionato dalla realtà, spesso costretto ad adattarsi alle convenzioni sociali e quindi a soffocare la propria natura; un essere continuamente attraversato da sensazioni come la gelosia, qui ampiamente trattata, al fine di mostrare la complessità dei rapporti di coppia e delle razioni tra genitori e figli. E infine un essere continuamente scosso da sogni, pulsioni e drammi (come in questo caso la perdita di un figlio), così insopportabili da condurre alla pazzia, così opprimenti da non smettere di tormentare l’animo umano neanche nel sonno. Un luogo questo dove la realtà, esattamente come noi la percepiamo, affiora continuamente.
Quella del sogno infatti è stata la strada scelta da Marinelli per mettere a nudo i suoi personaggi, per fare chiarezza nelle loro vite e nei loro comportamenti. Solo sul finale così sarà possibile ricostruire i pezzi di quello che sostanzialmente è stato un viaggio, forte ed impressionante, nella psiche umana. Un viaggio che verrà riproposto sui palcoscenici dell’Auditorium Comunale di Arzachena (questa sera), del Teatro Eliseo di Nuoro (mercoledì 21 gennaio), del Cineteatro Comunale Nelson Mandela di Santa Teresa Gallura (giovedì 22), del Teatro Comunale di San Gavino Monreale (venerdì 23) e del Teatro del Carmine di Tempio Pausania (sabato 24).
http://notizie.alguer.it/n?id=84075
IL DIVANO VUOTO DI ELSA CAYAT
di Anaïs Ginori, repubblica.it, 21 gennaio 2015
“Allora, mi racconti pure”. Elsa Cayat, 54 anni, cominciava così le sue sedute con i pazienti, spesso seduta a pieni nudi nello studio del sedicesimo arrondissement, sorseggiando del tè e continuando a fumare sempre. Una psicoanalista conosciuta e apprezzata a Parigi, nota per essere la confidente di alcuni scrittori e intellettuali. Non era né freudiana, né lacaniana: “Era cayatiana”, ha raccontato la rabbina Delphine Horvilleur durante l’orazione funebre per Cayat, sepolta nella zona riservata agli ebrei del cimitero Montparnasse.
Per continuare:
http://www.repubblica.it/rubriche/parla-con-lei/2015/01/21/news/il_divano_vuoto_di_elsa_cayat-105460844/
Per continuare:
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IL TERRORISMO E IL NEMICO DENTRO DI NOI
di Laura Iozzo, catanzaroinforma.it, 22 gennaio 2015
Sembra strano che per parlare dell’odio si debba partire dall’amore ma, come ben sanno gli psicanalisti, l’amore troppo spesso si trasforma in odio. Quando l’oggetto amato sfugge al nostro controllo, al nostro desiderio di possesso, alla nostra aspettativa di predominio, l’amore si trasforma facilmente in rivendicazione, di ciò che ci è stato portato via o che abbiamo tanto bramato e non ci è stato concesso, e poi in odio.
Randy Borum, professore di criminologia e psicologia dell’University of South Florida, spiega che il motivo per cui alcune persone sono più propense ad abbracciare l’estremismo è da ricondurre al bisogno di appartenenza insito in ogni essere umano. Questi soggetti manifestano a livello psicologico una vulnerabilità proprio sul loro bisogno di sentirsi che appartengono a qualcosa che gli dia un senso. È indicativo il dato che queste persone non si riconoscono e non trovano molto senso nel sentirsi britannici, ma invece nel sentirsi mussulmani. Molti potenziali terroristi trovano nei movimenti radicali e nei gruppi estremisti il senso della vita, di significato, di connessione e di appartenenza. È come se appartenere ai gruppi estremisti ed abbracciare le loro ideologie aiuti le persone ad affrontare le loro insicurezze riguardo se stessi e il mondo che abitano.
Freud, come ricorda il dottor Massimo Recalcati nel suo recentissimo libro “Sull’odio” (edizioni Bruno Mondadori) “insegna che ciò che si odia nell’altro è quella parte di noi stessi che ci risulta insopportabile”, quella parte che è in contrasto con la rappresentazione ideale che ci siamo fatti di noi. In pratica quando la nostra immagine ci delude, la sola possibilità è “proiettarla” sull’altro, su un nemico, su qualcuno che viene considerato pericoloso, straniero, diverso, per esempio perché extracomunitario o diverso per orientamenti sessuali, i gay, e quindi penalizzarlo, escluderlo.
Per lo psicoanalisi francese questa ambivalenza nei confronti della propria immagine può essere la sorgente di comportamenti aggressivi, al punto da essere patologici; ne deriva che il comportamento aggressivo verso l’altro è, di fatto, una aggressività scatenata verso chi rappresenta e in modo parziale o totale una parte di noi stessi, quella parte che non ci piace. “L’odio – scrive Recalcati – è una passione cieca. Ciò che si odia nell’altro è ciò che non si tollera o non si vuole vedere di se stessi”.
“Uccidere in nome del bene, in nome di Dio – scrive Recalcati – significa non porre più limiti al male” e questa agghiacciante logica apre le porte a tutte quelle drammatiche situazioni di cui la stampa ci informa quotidianamente. I fondamentalisti “identificano un ideale di purezza che porta all’odio dell’altro, vissuto come impuro, corrotto”.
Non è da sottovalutare, inoltre, che gli atti di terrorismo coinvolgono emotivamente tutta la popolazione avversaria, non solo quindi obiettivi come gli uomini di governo, i politici e le forze armate. Il terrorista ottiene, con l’effettiva uccisione di poche (o molte) vittime, il condizionamento inibitorio di tutta la popolazione avversaria. Il coinvolgimento emotivo riguarda la potente stimolazione di ogni forma di paura che risieda nella personalità della vittima. Si amplificano infatti non solo la paura della morte, ma anche quelle intime e soggettive della paura delle malattie, degli incidenti, delle brutte notizie e di molte altre ancora. C’è inoltre una più forte intolleranza allo stress e alle frustrazioni. Aumenta la diffidenza e l’ostilità verso tutto ciò che è straniero, sconosciuto, estraneo al proprio quotidiano. Persone che già avevano per motivi personali un precario equilibrio psicologico, dopo l’11 settembre si sono ritrovate a non dormire, a non riuscire a stare da sole, a rifiutare i luoghi affollati e a far un uso massiccio di psicofarmaci sedativi. Tutti questi effetti psicologici e comportamentali rappresentano l’obiettivo del terrorismo.
C’è da dire inoltre che il terrorismo con il suo carico di sangue e di odio stimola e gratifica anche la componente violenta e distruttiva del nostro inconscio, cioè il nostro istinto di morte. Dentro l’inconscio di ognuno di noi risiede una componente violenta e distruttiva che chiede di tanto in tanto di essere soddisfatta in qualche modo. La rabbia, l’odio, sono dei fuochi che si autoalimentano fino alla distruzione avvenuta dell’ipotetico “avversario”. Ma in questo modo ci saranno sempre nuovi avversari. Perché i veri avversari siamo noi stessi. È una lezione che abbiamo imparato bene dai totalitarismi europei del secolo scorso (vedi fascismo, nazismo, comunismo). Il rischio che si viene a creare è che la linea tra vincitori e vinti risulta molto sottile.
Per info sull’autore:
http://www.catanzaroinforma.it/pgn/rubriche.php?rubrica=1094
Randy Borum, professore di criminologia e psicologia dell’University of South Florida, spiega che il motivo per cui alcune persone sono più propense ad abbracciare l’estremismo è da ricondurre al bisogno di appartenenza insito in ogni essere umano. Questi soggetti manifestano a livello psicologico una vulnerabilità proprio sul loro bisogno di sentirsi che appartengono a qualcosa che gli dia un senso. È indicativo il dato che queste persone non si riconoscono e non trovano molto senso nel sentirsi britannici, ma invece nel sentirsi mussulmani. Molti potenziali terroristi trovano nei movimenti radicali e nei gruppi estremisti il senso della vita, di significato, di connessione e di appartenenza. È come se appartenere ai gruppi estremisti ed abbracciare le loro ideologie aiuti le persone ad affrontare le loro insicurezze riguardo se stessi e il mondo che abitano.
Freud, come ricorda il dottor Massimo Recalcati nel suo recentissimo libro “Sull’odio” (edizioni Bruno Mondadori) “insegna che ciò che si odia nell’altro è quella parte di noi stessi che ci risulta insopportabile”, quella parte che è in contrasto con la rappresentazione ideale che ci siamo fatti di noi. In pratica quando la nostra immagine ci delude, la sola possibilità è “proiettarla” sull’altro, su un nemico, su qualcuno che viene considerato pericoloso, straniero, diverso, per esempio perché extracomunitario o diverso per orientamenti sessuali, i gay, e quindi penalizzarlo, escluderlo.
Per lo psicoanalisi francese questa ambivalenza nei confronti della propria immagine può essere la sorgente di comportamenti aggressivi, al punto da essere patologici; ne deriva che il comportamento aggressivo verso l’altro è, di fatto, una aggressività scatenata verso chi rappresenta e in modo parziale o totale una parte di noi stessi, quella parte che non ci piace. “L’odio – scrive Recalcati – è una passione cieca. Ciò che si odia nell’altro è ciò che non si tollera o non si vuole vedere di se stessi”.
“Uccidere in nome del bene, in nome di Dio – scrive Recalcati – significa non porre più limiti al male” e questa agghiacciante logica apre le porte a tutte quelle drammatiche situazioni di cui la stampa ci informa quotidianamente. I fondamentalisti “identificano un ideale di purezza che porta all’odio dell’altro, vissuto come impuro, corrotto”.
Non è da sottovalutare, inoltre, che gli atti di terrorismo coinvolgono emotivamente tutta la popolazione avversaria, non solo quindi obiettivi come gli uomini di governo, i politici e le forze armate. Il terrorista ottiene, con l’effettiva uccisione di poche (o molte) vittime, il condizionamento inibitorio di tutta la popolazione avversaria. Il coinvolgimento emotivo riguarda la potente stimolazione di ogni forma di paura che risieda nella personalità della vittima. Si amplificano infatti non solo la paura della morte, ma anche quelle intime e soggettive della paura delle malattie, degli incidenti, delle brutte notizie e di molte altre ancora. C’è inoltre una più forte intolleranza allo stress e alle frustrazioni. Aumenta la diffidenza e l’ostilità verso tutto ciò che è straniero, sconosciuto, estraneo al proprio quotidiano. Persone che già avevano per motivi personali un precario equilibrio psicologico, dopo l’11 settembre si sono ritrovate a non dormire, a non riuscire a stare da sole, a rifiutare i luoghi affollati e a far un uso massiccio di psicofarmaci sedativi. Tutti questi effetti psicologici e comportamentali rappresentano l’obiettivo del terrorismo.
C’è da dire inoltre che il terrorismo con il suo carico di sangue e di odio stimola e gratifica anche la componente violenta e distruttiva del nostro inconscio, cioè il nostro istinto di morte. Dentro l’inconscio di ognuno di noi risiede una componente violenta e distruttiva che chiede di tanto in tanto di essere soddisfatta in qualche modo. La rabbia, l’odio, sono dei fuochi che si autoalimentano fino alla distruzione avvenuta dell’ipotetico “avversario”. Ma in questo modo ci saranno sempre nuovi avversari. Perché i veri avversari siamo noi stessi. È una lezione che abbiamo imparato bene dai totalitarismi europei del secolo scorso (vedi fascismo, nazismo, comunismo). Il rischio che si viene a creare è che la linea tra vincitori e vinti risulta molto sottile.
Per info sull’autore:
http://www.catanzaroinforma.it/pgn/rubriche.php?rubrica=1094
L’ARTE MODERNA NON POTEVA CHE DISUMANIZZARSI. ESSA INFATTI ESPRIME, CON LA DEFORMAZIONE E L’ASTRAZIONE, ANCHE L’ARCHEOLOGIA DELL’ANIMA
di Gianfranco Morra, italiaoggi.it, 23 gennaio 2015
Che cos’è il volume di Flavio Caroli, Anime e volti. L’arte dalla psicologia alla psicoanalisi (Electa)? Un «amarcord» di decenni di ricerche su cinque secoli della pittura occidentale. Il critico romagnolo l’aveva esaminata analiticamente in molti artisti. L’ha presentata in tante pubblicazioni, tradotta in decine di mostre (esemplare quella milanese di Palazzo Reale del 1998, che aveva il titolo del volume), divulgata in trasmissioni televisive. Questa ricchezza poteva essere una dispersione. Non è così. Nel libro appena uscito egli antologizza i suoi scritti più significativi in merito e ci fa capire meglio l’itinerario dei pittori moderni, in quanto rivela il filo rosso che li collega, dal classico Leonardo (l’uomo come microcosmo) al distruttivo Bacon (lo scoppio di Hiroshima). Tale filo è un carattere, che solo l’arte occidentale possiede e che Caroli chiama «linea introspettiva».
Per continuare:
http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1956381&codiciTestate=1
Per continuare:
http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1956381&codiciTestate=1
CAPITALISMO E PULSIONE DI MORTE
di Pierangelo Dacrema, tysm.org, 24 gennaio 2015
Può, l’economia, essere pane per la psicanalisi? Certo. Frutto dell’incantevole collegamento tra corpo e cervello, l’economia è pensiero tradotto in azione. E un cervello prigioniero di un corpo, che implica un corpo prigioniero di un cervello, è proprio materia da psicanalisti.
Un circolo virtuoso: Bloomsbury
Nel 1914 avviene il primo contatto tra Freud e Bloomsbury, il quartiere di Londra da cui prende il nome la singolare comunità di intellettuali che ha visto eccellere Virginia Woolf ed Edward M. Forster nel romanzo, Duncan Grant e Vanessa Bell nella pittura, Roger Fry e Clive Bell nella critica d’arte, Lytton Strachey nella biografia e nella storia, Desmond McCarthy nella critica letteraria, Leonard Woolf e J. M. Keynes nella politica e nell’economia. Keynes cita Freud nel terzo capitolo del suo folgorante Le conseguenze economiche della pace, quando traccia un ritratto dei protagonisti della Conferenza di Versailles e ci racconta di uno speciale complesso freudiano del presidente Wilson. Freud era lettore attento di Lytton Strachey oltre che di Keynes. E Keynes si servì abbondantemente di Freud per la stesura del Trattato della moneta e della Teoria generale. Che cosa accomuna Freud e Keynes? Molto più della condivisione dell’idea che quella dell’artista fosse l’attività più luminosa e importante di tutte. Keynes, infatti, fu esplicito nel parlare del genio di Freud, della sua immaginazione scientifica e della forza rivoluzionaria delle sue teorie: in altre parole, fu chiaro nell’attribuire allo scienziato viennese le doti che attribuiva a se stesso. Il pensiero di Freud e quello di Keynes sono i protagonisti assoluti di Capitalismo e pulsione di morte, (trad. A. Bracci Testasecca, La Lepre edizioni, 2010) un libro stringato ma molto denso, ben più articolato delle sue dimensioni. Perché mai Gilles Dostaler, storico dell’economia, e Bernard Maris, l’economista assassinato durante l’attentato alla sede di Charlie Hebdo, sono sicuri di poter asserire che lo spirito del capitalismo è pervaso da un senso di morte? Semplice, perché la pulsione di morte è ovunque: c’è sadismo e istinto di distruzione nell’eros, c’è erotismo nell’istinto di morte, c’è pulsione di morte nell’arte, nella cultura, nella creazione. Ma nel fatto economico troviamo aggravanti, accentuazioni. Da un lato è sotto gli occhi di tutti la “vecchia” economia libidinale, il dirottamento sistematico della libido verso la produzione, alla ricerca spasmodica della sua massimizzazione. Dall’altro c’è il denaro, materia incandescente, infernale. L’uomo combatte instancabilmente la morte attraverso la propria pulsione di morte. Dietro l’abitudine al lavoro esiste un insopprimibile istinto del gioco. E il lavoro, questo passatempo obbligato, è la valvola di sfogo del corpo, della carica libidica dell’Io. Si lavora per vivere, si vive per lavorare, si finisce per tesaurizzare. Il tesaurizzatore è un uomo profondamente angosciato. Keynes lo sa, e stabilisce un rapporto preciso tra l’angoscia, la pulsione di morte e il tasso d’interesse.
Un desiderio perverso di liquidità
La liquidità è specchio del nostro timore del futuro, delle nostre incertezze, della precarietà di ogni cosa. Il possesso di moneta lenisce le nostre inquietudini. Che cosa può indurci a separarcene? L’interesse, il cui tasso diventa così la perfetta misura della nostra inquietudine. L’economia classica vedeva nel tasso d’interesse una ricompensa dell’astinenza. Keynes vi riconosce invece una misura della rinuncia alla liquidità, un prezzo per l’allontanamento dal calore rassicurante del denaro, la contropartita per la temporanea separazione dalla bacchetta magica che ravviva la speranza e placa la paura, lo scudo d’oro a cui si è dedicato tanto tempo, prima per costruirlo e poi per rafforzarlo, continuare a lucidarlo. Ma un mondo di accumulatori di denaro ucciderebbe l’economia. Se tutti preferissero il possesso di moneta nessuno più investirebbe e si creerebbero i presupposti per la trappola della liquidità descritta da Keynes, il buco nero dell’incertezza in cui perfino il denaro diventerebbe impotente, incapace di allontanare lo spettro della recessione e del collasso del sistema. In questo senso, e alla luce della situazione attuale, Keynes potrebbe andar fiero della sua preveggenza. Un mondo obnubilato dal denaro è pericoloso, e anche losco. La crisi dei subprimes, le agenzie di rating che hanno accreditato prodotti finanziari derivati indecifrabili, derivati finanziari che avevano il compito di gestire l’angoscia e che invece l’hanno acuita, le banche americane che hanno inondato il mercato di credito creando il caos, le banche centrali che hanno inondato i mercati di base monetaria senza alcun risultato: tutti elementi che tradiscono una bulimia di liquidità con effetti disastrosi. Più degli scandali dello sperpero e dei fallimenti bancari colpisce lo scandalo della disoccupazione, dell’accumulo di fortune colossali da parte di pochi a fronte della povertà estrema di molti, dello stravolgimento dei rapporti umani non più leggibili all’insegna della cooperazione o dello sfruttamento, della sottomissione o della fratellanza ma sotto l’egida inaccettabile della disumanità e dell’immoralità.
La rendita è morta o continua a uccidere?
Keynes aveva predicato l’eutanasia del redditiere perché la rendita erode non solo i salari ma anche i profitti, soffoca piano piano l’imprenditore oltre che i suoi dipendenti. E non è così fuori luogo immaginare che la nostra economia possa produrre la catastrofe di un mondo ridotto a una gigantesca bidonville in cui la moltitudine a malapena sopravvive e un’esigua minoranza di redditieri si appropria di tutto il surplus. Smettere di crescere a tutto vantaggio di pochi, troppo pochi? Ma la fine della crescita, lo stato stazionario, somiglia drammaticamente alla morte, al coma irreversibile. Nulla più di nuovo che accade, che si sia capaci o desiderosi di far succedere. Possibile che gli uomini se ne accontentino? Eppure Keynes aveva dichiarato la sua aspirazione a questo stato stazionario, una condizione in cui sarebbe cessata la corsa al denaro e gli esseri umani avrebbero finalmente coltivato l’arte di vivere. Un secolo ancora sulla strada sbagliata per poi trovare la via giusta, un periodo abbastanza lungo di politiche monetarie – ovviamente keynesiane, tutte fondate sulla capacità taumaturgica della moneta – per poter dare uno stabile, definitivo benessere all’intero pianeta. Usare il denaro, la sua potenza, per arrivare a dimostrarne la sostanziale inutilità, o che comunque si possa farne a meno. E questo Keynes non si era limitato a fantasticarlo, ne aveva fatto oggetto di una previsione “tecnica” – quella del suo noto saggio “Prospettive economiche per i nostri nipoti” – destinata, a suo dire, ad avverarsi oggi, nella nostra epoca. Come mai la previsione di un uomo pur così abile nei pronostici si è rivelata clamorosamente sbagliata? Freud aveva capito che la fame di denaro riesce a canalizzare le più sadiche pulsioni degli uomini, in qualche modo contenerle, dirigerle, tradurre in esiti relativamente innocui ciò che potrebbe trovare sbocchi drammatici e crudeli. La libido può avere manifestazioni molto aggressive, induce spesso a umiliare, ferire, persino uccidere. Meglio un capro espiatorio, il denaro, appunto. Da notare come la diagnosi fosse condivisa da Keynes. Ma a questo punto il suo errore. Egli, di fatto, ha ritenuto che certi vizi e difetti molto radicati degli uomini – gli istinti poco edificanti indagati da Freud – li si potesse correggere, sanare fino quasi a dimenticarseli in un arco di tempo limitato. Per questo la profezia di Keynes di un uomo che cessa di rincorrere il bene fatuo della ricchezza materiale somiglia all’utopia di Marx di una società senza classi fatta di individui che, dopo qualche ora di lavoro, si sentono liberi di dedicarsi alla caccia, alla pesca e all’arricchimento dello spirito. E allora?
Economia del tempo presente
Allora il libro di Gilles Dostaler e Bernard Maris si presenta non solo come un efficace strumento di riflessione ma diventa anche un modo per trasformare Freud e Keynes in testimoni vividi del nostro tempo. La lezione principale è che è lecito sperare in un miglioramento, non in una panacea. Gli uomini continueranno a lavorare per vivere, a vivere per lavorare, a voler cambiare per crescere, evolversi e assecondare la loro voglia di assomigliare a Dio. Ma in economia qualcosa di nuovo potrebbe accadere. Gli uomini, molti uomini, potrebbero continuare a voler arricchirsi fino alla nausea. Ma il capro espiatorio – lo scudo, l’oggetto della maniacale attenzione – potrebbe diventare la proprietà, il possesso delle cose tangibili, non più del denaro. Parlo della proprietà e del potere che ne deriva sulle cose e sulle persone, parlo del cuore del capitalismo e della salvaguardia della sua essenza. E il tutto affinché non esploda una violenza e una distruzione peggiori di quelle imputabili al meccanismo capitalistico. Il prezzo pagato dal capitale per conquistarsi questa forma di sopravvivenza? La rinuncia al denaro – alla sua parte più cruda e più becera, la merce “esclusa” – combinata con la gratuità di tutti i beni messi sul mercato da chi, in termini di proprietà e di relative responsabilità, potrebbe tranquillamente continuare ad arricchirsi e a sfiancarsi di lavoro per riuscirvi. Ricchi costretti a una distribuzione più generosa e diffusa dei frutti del capitale, poveri finalmente, e legalmente, ammessi alla fruizione di una parte cospicua dell’enorme frutto del capitale e del lavoro. Un compromesso ragionevole, almeno per ora.
L’autore
Pierangelo Dacrema è professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari presso l’Università della Calabria. Il suo ultimo libro, Marx & Keynes, Un romanzo economico è stato pubblicato pochi mesi fa dalle edizioni Jaca Book. Tra i suoi lavori, ricordiamo La morte del denaro; La dittatura del Pil; Il miracolo dei soldi e Lettera a uno studente universitario.
http://tysm.org/capitalismo-pulsione/
SE I TRAUMI INFANTILI DIVENTANO UNA PATOLOGIA. Anche abusi e abbandoni entrano nel manuale che raccoglie le forme del malessere psichico
di Silvia Vegetti Finzi, corriere.it, 25 gennaio 2015
Ogni nuova edizione del Dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), ora siamo alla quinta, pubblicata da Cortina, rappresenta una finestra aperta sul malessere psicologico di un’epoca. Per quanto l’inevitabile generalizzazione lo renda discutibile, questo manuale viene usato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, sia nella pratica clinica sia nella ricerca scientifica, per cui ogni integrazione merita di essere considerata uno stimolo alla conoscenza e alla cura. Un compito che si è riproposto il convegno «Il Dsm scopre le esperienze traumatiche», che è stato organizzato due giorni fa dal Centro Tiama (Tutela Infanzia Adolescenza Maltrattata) all’Auditorium don Giacomo Alberione di Milano.
Per continuare:
http://archiviostorico.corriere.it/2015/gennaio/25/traumi_infantili_diventano_una_patologia_co_0_20150125_40dec0e4-a460-11e4-a3c3-e0b40a0850b3.shtml
Un circolo virtuoso: Bloomsbury
Nel 1914 avviene il primo contatto tra Freud e Bloomsbury, il quartiere di Londra da cui prende il nome la singolare comunità di intellettuali che ha visto eccellere Virginia Woolf ed Edward M. Forster nel romanzo, Duncan Grant e Vanessa Bell nella pittura, Roger Fry e Clive Bell nella critica d’arte, Lytton Strachey nella biografia e nella storia, Desmond McCarthy nella critica letteraria, Leonard Woolf e J. M. Keynes nella politica e nell’economia. Keynes cita Freud nel terzo capitolo del suo folgorante Le conseguenze economiche della pace, quando traccia un ritratto dei protagonisti della Conferenza di Versailles e ci racconta di uno speciale complesso freudiano del presidente Wilson. Freud era lettore attento di Lytton Strachey oltre che di Keynes. E Keynes si servì abbondantemente di Freud per la stesura del Trattato della moneta e della Teoria generale. Che cosa accomuna Freud e Keynes? Molto più della condivisione dell’idea che quella dell’artista fosse l’attività più luminosa e importante di tutte. Keynes, infatti, fu esplicito nel parlare del genio di Freud, della sua immaginazione scientifica e della forza rivoluzionaria delle sue teorie: in altre parole, fu chiaro nell’attribuire allo scienziato viennese le doti che attribuiva a se stesso. Il pensiero di Freud e quello di Keynes sono i protagonisti assoluti di Capitalismo e pulsione di morte, (trad. A. Bracci Testasecca, La Lepre edizioni, 2010) un libro stringato ma molto denso, ben più articolato delle sue dimensioni. Perché mai Gilles Dostaler, storico dell’economia, e Bernard Maris, l’economista assassinato durante l’attentato alla sede di Charlie Hebdo, sono sicuri di poter asserire che lo spirito del capitalismo è pervaso da un senso di morte? Semplice, perché la pulsione di morte è ovunque: c’è sadismo e istinto di distruzione nell’eros, c’è erotismo nell’istinto di morte, c’è pulsione di morte nell’arte, nella cultura, nella creazione. Ma nel fatto economico troviamo aggravanti, accentuazioni. Da un lato è sotto gli occhi di tutti la “vecchia” economia libidinale, il dirottamento sistematico della libido verso la produzione, alla ricerca spasmodica della sua massimizzazione. Dall’altro c’è il denaro, materia incandescente, infernale. L’uomo combatte instancabilmente la morte attraverso la propria pulsione di morte. Dietro l’abitudine al lavoro esiste un insopprimibile istinto del gioco. E il lavoro, questo passatempo obbligato, è la valvola di sfogo del corpo, della carica libidica dell’Io. Si lavora per vivere, si vive per lavorare, si finisce per tesaurizzare. Il tesaurizzatore è un uomo profondamente angosciato. Keynes lo sa, e stabilisce un rapporto preciso tra l’angoscia, la pulsione di morte e il tasso d’interesse.
Un desiderio perverso di liquidità
La liquidità è specchio del nostro timore del futuro, delle nostre incertezze, della precarietà di ogni cosa. Il possesso di moneta lenisce le nostre inquietudini. Che cosa può indurci a separarcene? L’interesse, il cui tasso diventa così la perfetta misura della nostra inquietudine. L’economia classica vedeva nel tasso d’interesse una ricompensa dell’astinenza. Keynes vi riconosce invece una misura della rinuncia alla liquidità, un prezzo per l’allontanamento dal calore rassicurante del denaro, la contropartita per la temporanea separazione dalla bacchetta magica che ravviva la speranza e placa la paura, lo scudo d’oro a cui si è dedicato tanto tempo, prima per costruirlo e poi per rafforzarlo, continuare a lucidarlo. Ma un mondo di accumulatori di denaro ucciderebbe l’economia. Se tutti preferissero il possesso di moneta nessuno più investirebbe e si creerebbero i presupposti per la trappola della liquidità descritta da Keynes, il buco nero dell’incertezza in cui perfino il denaro diventerebbe impotente, incapace di allontanare lo spettro della recessione e del collasso del sistema. In questo senso, e alla luce della situazione attuale, Keynes potrebbe andar fiero della sua preveggenza. Un mondo obnubilato dal denaro è pericoloso, e anche losco. La crisi dei subprimes, le agenzie di rating che hanno accreditato prodotti finanziari derivati indecifrabili, derivati finanziari che avevano il compito di gestire l’angoscia e che invece l’hanno acuita, le banche americane che hanno inondato il mercato di credito creando il caos, le banche centrali che hanno inondato i mercati di base monetaria senza alcun risultato: tutti elementi che tradiscono una bulimia di liquidità con effetti disastrosi. Più degli scandali dello sperpero e dei fallimenti bancari colpisce lo scandalo della disoccupazione, dell’accumulo di fortune colossali da parte di pochi a fronte della povertà estrema di molti, dello stravolgimento dei rapporti umani non più leggibili all’insegna della cooperazione o dello sfruttamento, della sottomissione o della fratellanza ma sotto l’egida inaccettabile della disumanità e dell’immoralità.
La rendita è morta o continua a uccidere?
Keynes aveva predicato l’eutanasia del redditiere perché la rendita erode non solo i salari ma anche i profitti, soffoca piano piano l’imprenditore oltre che i suoi dipendenti. E non è così fuori luogo immaginare che la nostra economia possa produrre la catastrofe di un mondo ridotto a una gigantesca bidonville in cui la moltitudine a malapena sopravvive e un’esigua minoranza di redditieri si appropria di tutto il surplus. Smettere di crescere a tutto vantaggio di pochi, troppo pochi? Ma la fine della crescita, lo stato stazionario, somiglia drammaticamente alla morte, al coma irreversibile. Nulla più di nuovo che accade, che si sia capaci o desiderosi di far succedere. Possibile che gli uomini se ne accontentino? Eppure Keynes aveva dichiarato la sua aspirazione a questo stato stazionario, una condizione in cui sarebbe cessata la corsa al denaro e gli esseri umani avrebbero finalmente coltivato l’arte di vivere. Un secolo ancora sulla strada sbagliata per poi trovare la via giusta, un periodo abbastanza lungo di politiche monetarie – ovviamente keynesiane, tutte fondate sulla capacità taumaturgica della moneta – per poter dare uno stabile, definitivo benessere all’intero pianeta. Usare il denaro, la sua potenza, per arrivare a dimostrarne la sostanziale inutilità, o che comunque si possa farne a meno. E questo Keynes non si era limitato a fantasticarlo, ne aveva fatto oggetto di una previsione “tecnica” – quella del suo noto saggio “Prospettive economiche per i nostri nipoti” – destinata, a suo dire, ad avverarsi oggi, nella nostra epoca. Come mai la previsione di un uomo pur così abile nei pronostici si è rivelata clamorosamente sbagliata? Freud aveva capito che la fame di denaro riesce a canalizzare le più sadiche pulsioni degli uomini, in qualche modo contenerle, dirigerle, tradurre in esiti relativamente innocui ciò che potrebbe trovare sbocchi drammatici e crudeli. La libido può avere manifestazioni molto aggressive, induce spesso a umiliare, ferire, persino uccidere. Meglio un capro espiatorio, il denaro, appunto. Da notare come la diagnosi fosse condivisa da Keynes. Ma a questo punto il suo errore. Egli, di fatto, ha ritenuto che certi vizi e difetti molto radicati degli uomini – gli istinti poco edificanti indagati da Freud – li si potesse correggere, sanare fino quasi a dimenticarseli in un arco di tempo limitato. Per questo la profezia di Keynes di un uomo che cessa di rincorrere il bene fatuo della ricchezza materiale somiglia all’utopia di Marx di una società senza classi fatta di individui che, dopo qualche ora di lavoro, si sentono liberi di dedicarsi alla caccia, alla pesca e all’arricchimento dello spirito. E allora?
Economia del tempo presente
Allora il libro di Gilles Dostaler e Bernard Maris si presenta non solo come un efficace strumento di riflessione ma diventa anche un modo per trasformare Freud e Keynes in testimoni vividi del nostro tempo. La lezione principale è che è lecito sperare in un miglioramento, non in una panacea. Gli uomini continueranno a lavorare per vivere, a vivere per lavorare, a voler cambiare per crescere, evolversi e assecondare la loro voglia di assomigliare a Dio. Ma in economia qualcosa di nuovo potrebbe accadere. Gli uomini, molti uomini, potrebbero continuare a voler arricchirsi fino alla nausea. Ma il capro espiatorio – lo scudo, l’oggetto della maniacale attenzione – potrebbe diventare la proprietà, il possesso delle cose tangibili, non più del denaro. Parlo della proprietà e del potere che ne deriva sulle cose e sulle persone, parlo del cuore del capitalismo e della salvaguardia della sua essenza. E il tutto affinché non esploda una violenza e una distruzione peggiori di quelle imputabili al meccanismo capitalistico. Il prezzo pagato dal capitale per conquistarsi questa forma di sopravvivenza? La rinuncia al denaro – alla sua parte più cruda e più becera, la merce “esclusa” – combinata con la gratuità di tutti i beni messi sul mercato da chi, in termini di proprietà e di relative responsabilità, potrebbe tranquillamente continuare ad arricchirsi e a sfiancarsi di lavoro per riuscirvi. Ricchi costretti a una distribuzione più generosa e diffusa dei frutti del capitale, poveri finalmente, e legalmente, ammessi alla fruizione di una parte cospicua dell’enorme frutto del capitale e del lavoro. Un compromesso ragionevole, almeno per ora.
L’autore
Pierangelo Dacrema è professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari presso l’Università della Calabria. Il suo ultimo libro, Marx & Keynes, Un romanzo economico è stato pubblicato pochi mesi fa dalle edizioni Jaca Book. Tra i suoi lavori, ricordiamo La morte del denaro; La dittatura del Pil; Il miracolo dei soldi e Lettera a uno studente universitario.
http://tysm.org/capitalismo-pulsione/
SE I TRAUMI INFANTILI DIVENTANO UNA PATOLOGIA. Anche abusi e abbandoni entrano nel manuale che raccoglie le forme del malessere psichico
di Silvia Vegetti Finzi, corriere.it, 25 gennaio 2015
Ogni nuova edizione del Dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), ora siamo alla quinta, pubblicata da Cortina, rappresenta una finestra aperta sul malessere psicologico di un’epoca. Per quanto l’inevitabile generalizzazione lo renda discutibile, questo manuale viene usato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, sia nella pratica clinica sia nella ricerca scientifica, per cui ogni integrazione merita di essere considerata uno stimolo alla conoscenza e alla cura. Un compito che si è riproposto il convegno «Il Dsm scopre le esperienze traumatiche», che è stato organizzato due giorni fa dal Centro Tiama (Tutela Infanzia Adolescenza Maltrattata) all’Auditorium don Giacomo Alberione di Milano.
Per continuare:
http://archiviostorico.corriere.it/2015/gennaio/25/traumi_infantili_diventano_una_patologia_co_0_20150125_40dec0e4-a460-11e4-a3c3-e0b40a0850b3.shtml
A CIASCUNO LA SUA VERITÀ
di Jacques-Alain Miller, lepoint.fr, 25 gennaio 2015
Da Parigi, venerdì 23 gennaio 2015. Ho oltrepassato i limiti della decenza? La mia amica O. lo pensa. Non ha niente dell'eroina di Dominique Aury. Piuttosto che il gusto di subire la frusta ha quello di maneggiarla. Apprezzando poco la mia vena satirica quando questa rasenta l'osceno, lei mi suona la grande aria del demone del pudore alla Villa dei Misteri. Ma non importa! Abbiamo molte frecce (N.d.T.: letteralmente: molte corde) al nostro arco, alla nostra lira.
Dai, dai!, salta marchese!
M'imbatto di nuovo sull'adagio di Baruch de Spinoza: "Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere" – non ridere, non piangere, non disprezzare, ma comprendere.
Se considero ora il concatenamento delle cose dopo il massacro del 7 gennaio, vedo un grande sisma nel legame sociale, seguito da intense emozioni individuali poi collettive, e da immensi movimenti di folla. Il fenomeno è ripartito in maniera diversa sul pianeta. L'epicentro è in piena Parigi. La Francia brucia. L'Europa ha caldo. Gli Stati Uniti danno mostra di sollecitudine, ma sono tiepidi. La Cina, la terra fertile quanto a terremoti, in cui fu inventato il primo sismografo (132 d.C.) è fredda. Anche l'India, se il Pakistan non lo è, poiché l'Oumma è interamente percorsa da onde sismiche, dall'Occidente ai paesi musulmani.
Zoom sulla Francia. Un gigantesco sforzo per mettere in sicurezza il territorio nazionale e lo spazio elettronico, mobilita e giustifica il potere dello Stato con l'insieme dei suoi apparati di repressione. Invitata a sfilare dietro le autorità, una popolazione impaurita accorre in massa. Si cammina o si fanno dei sit-in, ci si aiuta a vicenda, ci si strofina gli uni contro gli altri. Puro godimento del mitsein (de "l'essere con").
Si scruta l'avvenire, si reinterpreta il passato. Si confessano i propri timori, si dichiara il proprio odio, non si sa a quale santo votarsi. Imprecatori, uomini d'arte, uomini delle arti, uomini di fede, uomini di legge, psi, ognuno con la sua tiritera. Indignazioni ardenti, arringhe febbrili, a volte angosce strazianti. Sullo sfondo alcuni Ebrei che, come spesso, fanno i loro bagagli. Si sondano le opinioni: Charlie sì, Charlie no. Charlie ma. Mentre in Cina un sisma significava che il Cielo negava ogni legittimità all'Imperatore, la presente scossa ha ristabilito quella del Presidente francese.
Si dibatte ogni giorno, e in tutti i sensi, e su tutti i toni, dei pro e dei contro, del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male. Le bussole sono impazzite. Ciascuno ha l'idea della giustizia, senza dubbio, e del bene e del male. È una costante antropologica. Ma "Tante teste, tanti pareri". "A ciascuno la sua verità". Come orientarsi nel pensiero?
Iniziamo scartando in quanto pregiudizi le nozioni relative al bene e al male, alla lode e al biasimo: non creeranno mai consenso. Bisognerebbe isolare al-meno-una verità dalla quale possiamo pretendere che si imponga a ogni essere ragionevole. Una verità di ordine matematico, che faccia brillare un'altra idea della verità che non faccia la morale.
Bene, ce n'è una, ed è impossibile non vederla.
(Traduzione di Beatrice Bosi)
Dai, dai!, salta marchese!
M'imbatto di nuovo sull'adagio di Baruch de Spinoza: "Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere" – non ridere, non piangere, non disprezzare, ma comprendere.
Se considero ora il concatenamento delle cose dopo il massacro del 7 gennaio, vedo un grande sisma nel legame sociale, seguito da intense emozioni individuali poi collettive, e da immensi movimenti di folla. Il fenomeno è ripartito in maniera diversa sul pianeta. L'epicentro è in piena Parigi. La Francia brucia. L'Europa ha caldo. Gli Stati Uniti danno mostra di sollecitudine, ma sono tiepidi. La Cina, la terra fertile quanto a terremoti, in cui fu inventato il primo sismografo (132 d.C.) è fredda. Anche l'India, se il Pakistan non lo è, poiché l'Oumma è interamente percorsa da onde sismiche, dall'Occidente ai paesi musulmani.
Zoom sulla Francia. Un gigantesco sforzo per mettere in sicurezza il territorio nazionale e lo spazio elettronico, mobilita e giustifica il potere dello Stato con l'insieme dei suoi apparati di repressione. Invitata a sfilare dietro le autorità, una popolazione impaurita accorre in massa. Si cammina o si fanno dei sit-in, ci si aiuta a vicenda, ci si strofina gli uni contro gli altri. Puro godimento del mitsein (de "l'essere con").
Si scruta l'avvenire, si reinterpreta il passato. Si confessano i propri timori, si dichiara il proprio odio, non si sa a quale santo votarsi. Imprecatori, uomini d'arte, uomini delle arti, uomini di fede, uomini di legge, psi, ognuno con la sua tiritera. Indignazioni ardenti, arringhe febbrili, a volte angosce strazianti. Sullo sfondo alcuni Ebrei che, come spesso, fanno i loro bagagli. Si sondano le opinioni: Charlie sì, Charlie no. Charlie ma. Mentre in Cina un sisma significava che il Cielo negava ogni legittimità all'Imperatore, la presente scossa ha ristabilito quella del Presidente francese.
Si dibatte ogni giorno, e in tutti i sensi, e su tutti i toni, dei pro e dei contro, del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male. Le bussole sono impazzite. Ciascuno ha l'idea della giustizia, senza dubbio, e del bene e del male. È una costante antropologica. Ma "Tante teste, tanti pareri". "A ciascuno la sua verità". Come orientarsi nel pensiero?
Iniziamo scartando in quanto pregiudizi le nozioni relative al bene e al male, alla lode e al biasimo: non creeranno mai consenso. Bisognerebbe isolare al-meno-una verità dalla quale possiamo pretendere che si imponga a ogni essere ragionevole. Una verità di ordine matematico, che faccia brillare un'altra idea della verità che non faccia la morale.
Bene, ce n'è una, ed è impossibile non vederla.
(Traduzione di Beatrice Bosi)
http://www.slp-cf.it/attualita/-/articolo/56/345608/JAM-CIASCUNO-SUA-
VERITA#.VMii5dJwsgd
http://www.lepoint.fr/invites-du-point/jacques-alain-miller/jacques-alain-miller-chacun-sa-verite-25-01-2015-1899374_1450.php
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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