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Gennaio 2016 I – Tra Kafka, Bataille e Nietzsche

14 Gen 16

A cura di Luca Ribolini

KAFKA COMICO

di Francesco Cataluccio, doppiozero.com, 3 gennaio 2016
 
Uno dei motivi per cui ho accettato di parlare in pubblico di un argomento rispetto al quale sono grandemente sottoqualificato è che mi dà la possibilità di declamare per voi una storia di Kafka che ho smesso di utilizzare nel mio corso di Letteratura e che mi manca di leggere ad alta voce. Il titolo tradotto è Una piccola favola.
“– Ahimè,– disse il topo, – il mondo si rimpicciolisce ogni giorno di più. All’inizio era così grande da farmi paura, mi sono messo a correre e correre, e che gioia ho provato quando finalmente ho visto in lontananza le pareti a destra e a sinistra! Ma queste lunghe pareti si restringono così alla svelta che ho raggiunto l’ultima stanza, e lì nell’angolo c’è la trappola cui sono destinato.
– Non devi far altro che cambiare direzione, – disse il gatto, e se lo mangiò”.
(F. Kafka, Piccola favola, in: Il messaggio dell’imperatore e altri racconti, a c. di Anita Rho, Frassinelli, Torino 1949, p. 87).
Una mia grande frustrazione quando cerco di leggere Kafka con gli studenti è che è impossibile far loro capire che Kafka è comico. Né tantomeno apprezzare il modo in cui questa comicità è intimamente legata alla potenza dei suoi racconti.
 
Questo diceva, nel 1999, uno dei più interessanti scrittori statunitensi del dopoguerra, suicidatosi troppo presto, David Foster Wallace (1962-2008), nello scritto dall’autoironico titolo: Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka che forse dovevano essere tagliate ulteriormente (D. F. Wallace, Considera l’aragosta, 2005; ed. it. Einaudi, Torino 2006, p. 64: il saggio-reportage che dà il titolo al volume è un capolavoro che sarebbe piaciuto molto a Kafka). Wallace sosteneva che gran parte dell’umorismo di Kafka non è affatto sottile, o meglio è antisottile: “La comicità di Kafka dipende da una sorta di letterarizzazione radicale di verità solitamente trattate come metafore. (…) È sempre anche tragica, e questa tragicità è sempre anche una gioia immensa e riverente. (…) Il suo in definitiva è un umorismo religioso eroicamente sano”. La conclusione di Wallace è che le storie di Kafka sono una specie di porta che si apre verso l’esterno: e questo è il comico.
Questa della COMICITÀ è la chiave con la quale leggo anch’io Kafka, perché, d’istinto, così lo lessi la prima volta, rimanendone io stesso sorpreso, all’età di quattordici anni. Ricordo che mia madre, che mi aveva passato un po’ scettica la sua copia dei racconti con la copertina nera e la muraglia cinese in rosso stampata sopra, rimase assai perplessa, e forse anche un po’ preoccupata, quando mi sentì sghignazzare durante la lettura della Metamorfosi. Le mie successive, e più sistematiche, letture di Kafka mi confermarono in questa impressione. Anche perché, negli anni Ottanta, i miei frequenti soggiorni nell’Europa centrale mi fecero sentire che il mondo rappresentato da Kafka si era fatto, in quelle realtà, con gli anni, sempre più tragicomico. L’incubo grottesco del cosiddetto “socialismo reale”, grazie a lui, appariva chiaramente comico. Per molti dei miei amici a Varsavia e Praga, Kafka costituiva una lucida chiave di lettura della realtà e la proposta di un salutare e resistenziale sghignazzamento. E infatti i suoi libri erano introvabili e, in Unione Sovietica, addirittura proibiti.  Il 27 e 28 maggio del 1963, nell’ottantesimo anniversario della nascita di Kafka, si tenne a Liblice, vicino a Praga, un poco ortodosso convegno di studi sulla sua opera che vide come protagonisti alcuni di quelli che sarebbero stati animatori della Primavera di Praga, e poi costretti all’esilio dopo l’invasione dei carri armati russi (cfr. Franz Kafka. La vita e l’opera negli studi marxisti degli anni ’60, a c. di Saverio Vertone, De Donato, Bari 1966).
Come ha giustamente scritto in seguito Milan Kundera: “Credo che il modo, non soltanto mio, ma dei cechi in generale, di capire Kafka è sicuramente diverso da quello vostro. Per noi Kafka è uno scrittore realistico perché la sua è una visione lucida della realtà. Nessuno di noi legge i suoi libri come se fossero delle allegorie. Inoltre siamo molto più sensibili al suo humour. La specificità dello humour di Kafka è che una certa comicità accompagna l’uomo in tutte le sue azioni”. Kafka “umorista realistico”? Ricordo che il dolce professore di Letteratura ungherese all’Università di Firenze e scrittore di teatro, Miklos Hubaj, raccontò una volta che, dopo il fallimento della rivolta di Budapest del 1956, molti intellettuali furono prelevati da casa dalla polizia, bendati e portati in camion in un viaggio di diverse ore, durante le quali tutti erano convinti che li avrebbe, alla fine, attesi la fucilazione. Quando i camion si fermarono, li fecero scendere e tolsero loro le bende, si trovarono difronte un paesaggio montano (erano in Romania) sovrastato da un enorme castello-prigione. Fu allora che il filosofo Georgy Lukàcs disse a voce alta, provocando una liberatoria risata: “Ho sempre sostenuto che Kafka era uno scrittore astratto e piccolo borghese. Ora ho capito che era un grande scrittore realista!”. E ricordo anche che quando, nel febbraio del 1988, vidi al Thèatre du Gymnase di Parigi, lo splendido adattamento e messa in scena del regista inglese Steven Berkoff, de La metamorfosi di Kafka, con Roman Polanski nel ruolo principale di Gregorio Samsa, Polanski sostenne di scorgere da sempre nell’opera dello scrittore praghese una vena neanche tanto nascosta di comicità. E aggiunse: “Questa comicità sfugge completamente a uno spettatore non est europeo, abituato, o forse condannato, dalla scuola e da svariati libri, a considerare Kafka esclusivamente come lo scrittore della colpa e del vuoto”.
E un altro grande polacco (assai vicino alla sensibilità di Kafka), del quale mi sono occupato, Bruno Schulz, il geniale autore de Le botteghe color cannella (1934), nella sua introduzione all’edizione polacca (1936) deIl processo, tradotto dalla sua fidanzata Jòzefa Szelinska, aveva scritto: “Kafka stigmatizza e ridicolizza indefessamente la problematicità e la disperazione delle azioni umane in relazione dell’ordine divino (…). Il suo rapporto con la realtà è del tutto ironico, perfido, animato da cattiva volontà: il rapporto del prestigiatore con la propria attrezzatura. Egli simula soltanto l’esattezza, la serietà, la sforzata precisione di quella realtà allo scopo di screditarla ancor più radicalmente” (B. Schulz, Introduzione a F. Kafka, Il processo, a c. di Anita Raja, Feltrinelli/I Classici, Milano 1995, pp. 10-11).
Naturalmente la comicità non è l’unica chiave interpretativa dell’opera di Kafka: uno scrittore talmente grande, sfaccettato e profondo da poter e meritare di essere considerato da molti punti di vista. Uno, assai interessante, è, ad esempio, quello di Giuliano Baioni, per molti anni professore di Letteratura tedesca all’Università di Venezia, che, dopo aver sottratto Kafka all’interpretazione in chiave simbolica (Kafka. Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano 1962), ci ha dato conKafka: letteratura e ebraismo (Einaudi, Torino 1984), un quadro assai chiaro e documentato della Praga ebraica (dove si confrontavano sionisti, ebrei assimilati e mistici ebrei orientali) e dei profondi legami di Kafka e la sua opera con l’ebraismo. Ma Baioni ha trascurato proprio il rapporto tra la comicità di Kafka e l’ebraismo. Un bel proverbio ebraico dice: “L’uomo pensa, Dio ride”. Coloro che lo credono, immaginano la nostra esistenza come un grande teatro comico per un solo Spettatore che da lassù sorride dei nostri goffi tentativi di capire il mondo, di dargli un senso: dal suo punto di vista, i nostri pensieri e le nostre azioni, anche le più terribili, sono probabilmente uno spettacolo divertente.
La cultura ebraica, oltre al rispetto, al timore e all’amore, ha sviluppato progressivamente una vena comica che, come nelle migliori tradizioni del cabaret, tenta di interloquire con quel solo membro del nostro pubblico collocato in alto. In un continuo confronto con Dio, anche dopo le più grandi sofferenze, l’umorismo ebraico cerca di mantener vivo questo singolare spettacolo, nel quale si impara e si tenta di affrontare la vita con una poetica filosofia della sopportazione, mai rassegnata. Una filosofia che non prende in considerazione la rinuncia né la resa, ma anzi si incaponisce a chiamare continuamente in causa Dio, per raccapezzarsi nel disordinato e oscuro teatro nel quale siamo stati, senza nostra scelta, chiamati a recitare. L’umorismo ebraico è una formidabile arma di difesa e di attacco. Come ha spiegato lo psicoanalista Cesare Musatti: “L’ebreo è colui che con le proprie caratteristiche, anche di sfortuna, di miseria e di stenti, e insieme dei personali elementi caratteriali da un lato, e la sua capacità dall’altro di sapersi destreggiare in queste situazioni difficili, riesce a convertire, attraverso gli artifici comici di cui lui stesso fa le spese, la propria infelicità in uno stato di dominio della situazione” (C. Musatti, Mia sorella gemella la psicoanalisi, Ed. Riuniti, Roma 1982). L’umorismo ebraico è uno degli elementi distintivi della Modernità e uno dei cardini della cultura occidentale. Con la cultura ebraica l’ironia non è più soltanto indirizzata verso l’“esterno” (com’è stata la Satira), ma si rivolge anche verso l’“interno”, diventando AUTOIRONIA.
In questo viaggio all’interno di se stessi, l’umorismo diviene materia per la Psicoanalisi, e non è un caso che Sigmund Freud abbia dedicato una delle sue opere più importanti all’indagine sull’ironia come uno dei meccanismi comunicativi che caratterizzano il linguaggio dell’inconscio: Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905). Per scriverlo, il padre della psicoanalisi raccolse una gran quantità, probabilmente divertendosi molto, di “storielle ebraiche”. Freud sostiene che proprio in esse è contenuta una tipica forma umoristica che mette in mostra quegli aspetti caratteristici degli ebrei, che in genere attirano la critica aggressiva degli altri. Questo spirito autocritico può esser identificato con l’umorismo che si ha proprio quando l’autore, elevandosi sopra le proprie miserie, debolezze, piccole grandi viltà quotidiane, rende oggetto di risata questa sua condizione infelice. Ed è questo anche l’aspetto drammatico del vero umorismo ebraico: gli ebrei, mettendo in piazza i propri “difetti”, riescono a convertire l’aggressività degli altri, certe volte, in simpatia, altre addirittura in solidarietà. C’è, secondo Freud, una grandezza d’animo, qualcosa di elevato e nobilitante, nel comportamento umoristico.
 
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/parole/kafka-comico 

JULIA KRISTEVA: «IL MATRIMONIO È UN’ARTE DA COLTIVARE. QUOTIDIANAMENTE». «L’incontro tra due persone è l’incontro delle loro infanzie, delle loro memorie e dei loro corpi: la coppia si incontra per caso e dura nel tempo come una conversazione», spiega la psicoanalista scrittrice che ha appena pubblicato il libro “Del matrimonio considerato come un’arte

di Farian Sabahi, iodonna.it, 4 gennaio 2015
 
Psicoanalista, con interessi di semiologia, studi di religione e sull’arte nella storia dell’Occidente, riflessioni sul femminile. Julia Kristeva è un personaggio poliedrico. Nata in Bulgaria nel 1941, esponente di punta della corrente strutturalista francese, nota per la trilogia sul genio femminile, ovvero per un’indagine su Colette, Hannah Arendt e Melanie Klein. Il suo ultimo libro si intitola Del matrimonio considerato come un’arte (Donzelli, Roma, 142 pp, €19) ed è stato scritto con il marito Philippe Sollers, nato a Bordeaux nel 1936, scrittore, saggista e filosofo. Julia Kristeva e Philippe Sollers sono due figure di spicco della cultura francese contemporanea. Dopo l’intervista sugli attentati di Parigi del 13 novembre, siamo tornati nel loro appartamento parigino, vicino ai Jardins du Luxembourg, per farci raccontare come funziona una coppia formata da due stranieri: il bisogno di armonizzare, le note stonate e l’armonia che ritorna.
Quali sono i segreti per una relazione di coppia duratura?
Non esiste un modello di felicità. Ognuno di noi cerca un incontro con l’altro. Ogni matrimonio è un incontro tra due corpi, due sensualità, due sguardi, due bocche, due nasi, due orecchie, due pelli e due sessi. È sulla base di questo accordo – come se si trattasse di violini, pianoforti o organi – che si costruisce anche una complicità che può essere un incontro di idee. Da qui nasce una complicità ideologica, filosofica, e talvolta una lotta politica e sociale.
La fortuna conta qualcosa?
Sì, nel senso che la coppia si incontra per caso e dura nel tempo come una conversazione. Si tratta di uno scambio. Alla domanda: che cosa dice vostra moglie? Che cosa dice vostro marito? I miei pazienti mi rispondono che non si parlano da tempo. Forse il segreto di un rapporto duraturo, se vogliamo restare nei cliché, è continuare a conversare.
Dopo cinquant’anni di matrimonio, lei di cosa parla con suo marito Philippe Sollers?
Parliamo di tutto, anche di attualità ma non solo, discutiamo di tutto. Niente escluso: di quello che facciamo, di calcio. Siamo degli appassionati di calcio e lo stesso vale per nostro figlio. Parliamo della musica che ascoltiamo, del tempo, della Siria, dell’immigrazione, del Papa, del lavoro che devo consegnare al mio editore, di nostro figlio, delle prossime vacanze. È un dialogo senza fine, ed è questo che nutre la nostra vita quotidiana.
 
Segue qui:
http://www.iodonna.it/personaggi/interviste-gallery/2016/01/04/julia-kristeva-il-matrimonio-e-un-arte-da-coltivare-quotidianamente/?refresh_ce-cp 

IL CORPO DEL REATO

di Maurizio Montanari, lettera43.it, 5 gennaio 2016 

Se noi vivessimo in un paese normale, Ilaria Cucchi avrebbe commesso un reato gravissimo, sul quale non varrebbe nemmeno la pena disquisire. La pubblica esposizione della foto di un indagato di reato (grave) mentre le indagini sono in corso, mentre la magistratura sta cercando di fare luce sulle possibili cause della morte di un ragazzo, probabilmente incappato nella violenza sadica di qualcuno. Ma noi non viviamo in un paese normale. Se così fosse, un cittadino che si rivolge alla Stato per avere giustizia dopo aver sepolto un proprio familiare ridotto ad una maschera di orrore e tumefazione, dovrebbe sentirsi garantito, rassicurato. Non dovrebbe impegnare parte della propria vita girando per le piazze con le foto del fratello morto, per svegliare quella Lex sonnacchiosa che, da piccolo, gli hanno raccontato, lo avrebbe protetto e sostenuto. Se vivessimo in un paese normale, un genitore al quale hanno restituito il figlio cadavere, con l’espressione del viso fissata in una smorfia di dolore, che forse annunciava una morte liberatrice da un pomeriggio di pestaggi, non dovrebbe essere sottoposto alla feroce umiliazione di ascoltare, ovunque, conversazioni nelle quali qualcuno si vantava di ‘aver pestato un drogato di merda’.
Lo so, il gesto di Ilaria Cucchi è stato avventato, può infatti armare la penna, o peggio le mani, di un qualche esagitato in cerca di vendetta fuori legge. Sono certo di questo. Come sono certo che il cuore di quella madre sia stato scosso leggendo di quella solidarietà che altri appartenenti alle forze dell’ordine hanno concesso all’indagato, in maniera forse troppo precipitosa. Dicevo, appunto, in un paese normale, la madre di un altro ragazzo, Federico Aldrovandi, non avrebbe dovuto rivedere suo figlio incollato a terra, con un lago di sangue dietro al cranio, il tutto condito da insulti di bassa lega lanciati da appartenenti a quelle forze dell’ordine che avrebbero dovuto proteggere lui e lei dal crimine, dal pericolo. Chissà se la madre di Federico, mentre lo cresceva, immaginava che i rappresentanti del suo Stato, dopo averglielo restituito a brandelli, lo avrebbero definito ‘cucciolo di maiale’.
Quello che so, è che la verità può rendere pazzi. Ho visto, nella mia pratica clinica, donne portate sull’orlo della follia perché il piccolo paese al quale chiedevano giustizia per essere state massacrate di botte dal compagno, le condannava al ruolo di puttana mendace.
 
Segue qui:
http://www.lettera43.it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/il-corpo-del-reato-considerazioni-sul-caso-cucchi_43675228958.htm 

LA DIALETTICA IMPOSSIBILE DI GEORGE BATAILLE. «Piccole ricapitolazioni comiche», una raccolta di scritti di Georges Bataille per Aragno. Anche se presenza costante nei suoi scritti e più volte letto con attenzione, Hegel costituirà l’oggetto polemico del filosofo francese

di Alessandra Pigliaru, ilmanifesto.info, 5 gennaio 2015
 
«Di lui non restò che un manico di badile, un uomo moderno. Ma, prima di mutilarsi, ha senza dubbio toccato l’estremo». Ecco una breve ed efficace immagine che si ritrova nella Piccola ricapitolazione comica, passaggio che Georges Bataille dedica a Hegel nella seconda parte del suo L’esperienza interiore. Più avanti nello stesso volume, pagine generose sono dedicate al filosofo tedesco, così veniamo a conoscenza di «un dente dolente nella bocca di Hegel», poi in Sovranità e ancora in articoli sparsi, da Tel Quel e altre riviste tra le tante che Bataille frequentava. Non sfuggirà allora la consonanza con il titolo scelto per una nuova raccolta di scritti editi di Bataille tra il 1929 e il 1956, che raccontano il corpo a corpo con il pensiero di Hegel. La curatela e la scelta dei testi di Piccole ricapitolazioni comiche (Aragno, pp. 218, euro 15) è di Massimo Palma, ricercatore di filosofia politica e morale che ha già all’attivo pubblicazioni su Walter Benjamin, Eric Weil e il progetto della nuova edizione italiana di Economia e società di Max Weber. Una mosca sul naso di chi si è creduto «il primo venuto», ecco l’istantanea che sceglie Palma per raffigurare la relazione tra Bataille e Hegel. Una mosca singolare che pungola, al pari del tafano platonico, e che declinata al plurale non molla la presa quando pretende giustizia e furore di sé, anche Jean-Paul Sartre ne era convinto quando le scelse per raffigurare le Erinni del dramma Le mosche.

Un inquieto contrappunto

La presenza di Hegel si evince in alcune opere, articoli, recensioni e aneddoti di Bataille che testimoniano un’implicazione di fondo nel rapporto intrattenuto con il filosofo fin dal 1925, anno in cui verosimilmente comincia la lettura delle prime traduzioni francesi. È quindi interessante aver pensato un intero volume che si soffermi su alcuni temi hegeliani che dagli scritti giovanili di Bataille in avanti ne hanno stretto, modificato e dilaniato il segno. Dapprima simile a una forma di allusione polemica e dissacrante che carsicamente si è mossa in interventi comparsi nella rivista Documents e in articoli come Figura umana – che inaugura l’antologia delle Piccole ricapitolazioni comiche; poi la riflessione del 1932 insieme a Queneau dal titolo Critica dei fondamenti della dialettica hegeliana; e solo un anno dopo e fino al 1939, la decisiva frequenza di alcuni seminari parigini tenuti da Alexandre Kojève sulla Fenomenologia dello Spirito all’École Pratique des Hautes Études. Sarà appena il caso di ricordare che a seguire Kojève, insieme a Bataille e Queneau vi saranno Lacan, Aron, Merleau-Ponty, Klossowski e altri. Da quel momento il pensiero hegeliano diviene contrappunto inquieto e più che esplicito in Bataille.
I nuclei centrali su cui ruota il suo coinvolgimento sono da rintracciare all’altezza della filosofia della natura, per poi spostarsi alle figure del signore e del servo, quindi alla complessità che porta al riconoscimento. Intorno alla ricezione di Nietzsche, di cui molto si è scritto, e alla lettura di Freud, Bataille intrattiene una significativa interlocuzione anche con i testi del filosofo tedesco: il non-sapere che scompagina il sapere assoluto, l’esperienza interiore e sovrana che mette in crisi il sistema, il conflitto che racconta un esito dialettico difficile da soddisfare, la libertà della dissipazione contro il servilismo ipocrita del sistema dell’utilità — che baratta la radicalità con una più mediata neutralizzazione.
 
Segue qui:
http://ilmanifesto.info/la-dialettica-impossibile-di-george-bataille/ 

CAPODANNI O CAPORALI

di Umberto Silva, ilfoglio.it, 6 gennaio 2015
 
Cito l’italiano Antonio Gramsci che diceva testualmente: Io odio il Capodanno. Anch’io lo aborro. Un cominciamento coatto, come se bisognasse festeggiare l’inizio e il rinnovamento a inizio anno e poi basta. Il rinnovamento deve avvenire ogni giorno dell’anno”. Con questo minaccioso avvertimento Diego Fusaro inaugura l’anno di grazia 2016, facendoci piangere sulle ceneri di Gramsci ma ancor di più su quelle dell’altrettanto indimenticabile Massimo Catalano, magistrale dispensatore dell’ovvio in “Quelli della notte”. Mi dicono che Fusaro sia un giovane e acclamato filosofo e non ho ragione alcuna per dubitare ma ho tutte le ragioni per non leggerlo, devo infatti confessare che la filosofia di questi ultimi due secoli mi annoia. Per me termina con l’Ecce homo, il testamento dove Nietzsche si denuda e sputtana in modo così esaltante da farmi inginocchiare ai piedi della sua croce. Se il magniloquente Zarathustra mi fa ridere per la sua sublime scemenza, l’Ecce Homo, opera comica per eccellenza, mi fa piangere per la sua profonda verità: lì la filosofia incontra la smagliante derisione e divina conclusione. Se ne accorse Sigmund Freud che raccomandò ai suoi allievi la lettura dell’Ecce Homo, quel Freud che insieme al catarro delle isteriche raccolse la trasfigurazione dell’ultimo grande filosofo, sostituendo alla filosofica visione del mondo lo psicanalitico ascolto dell’immondo.
Torniamo a Diego Fusaro, che da ambizioso giovanotto ha il suo scatto ribelle: “Io odio il Capodanno”, annuncia con un grido di guerra che evoca il famoso sbotto di André Gide: “Famiglie vi odio!”. Sarebbe stato più comprensibile se Fusaro avesse detto: “Odio il Natale”, il Capodanno essendo tra le feste comandate la più innocua, extrafamiliare occasione di baci rubati. Se Fusaro si fosse limitato a dire “Io odio il Capodanno”, in omaggio alle mie giovanili intemperanze avrei applaudito; ma Diego Fusaro non si limita a questo e tiene a chiarire che col Capodanno siamo in presenza di un “cominciamento coatto”, e questo è troppo, ogni spiegozzo risulta mortale. Si possono odiare le tapparelle e i cannolicchi, tutti gli odi sono attraenti, ma chiarire il perché di un odio suona patetico. Eppoi, un cominciamento coatto puoi sempre rifiutarlo, siamo Capodanni o Caporali? Nessuno può obbligarmi a andare a Capodanno a cena dai Chiodati-Ferrati, il Capodanno fa un’offerta, due, tre, e puoi accettare o rifiutare. Io dai Chiodati non ci vado. Ma poi ci vado, perché lì c’è qualcosa di disumano che mi attrae. Se poi alla festa partecipa una donna particolarmente affascinante, perché no? Per il timore che costei gli altri giorni dell’anno sparisca? Meglio così, a volte. Insomma il Capodanno è tutt’altro che coatto, coatto è chi ogni anno ripete il lamento del Capodanno coatto.
 
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/01/06/capodanni-o-caporali___1-vr-136696-rubriche_c334.htm 

INTERVISTA A MASSIMO AMMANITI: “GENITORI CON JEANS E FACEBOOK, ADOLESCENTI PIÙ DEI LORO FIGLI”

di Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2016
 
C’è qualcosa di molto gratificante nell’intervistare uno psicoanalista. Anche se lui sta dalla consueta parte della scrivania e tu da quella del paziente, vicino al lettino, sei tu che fai le domande ed è lui che stavolta deve parare di sé. L’interno borghese è uno studio dei Parioli, l’occasione un libro appena uscito per Laterza, La famiglia adolescente.
Segue qui:
http://www.laterza.it//images/stories/pdf/9788858120668_Ammaniti_IlFattoQuotidiano_07-01-2016.pdf 

CHECCO ZALONE E LA TRISTEZZA DEL SUO UMORISMO

di Luciano Casolari, ilfattoquotidiano.it, 7 gennaio 2016
 
Con mia moglie non abbiamo mai scelto di vedere al cinema un film di Zalone. C’era sempre stato qualche altro spettacolo che ci attirava maggiormente e, sinceramente, avevamo un pregiudizio negativo ritenendo che fosse il solito cinepanettone infarcito di battutacce. Per caso una sera di alcuni mesi orsono hanno proposto sulla tv generalista l’ennesima replica di “Sole a catinelle” e l’abbiamo visto. Ci è parso più gradevole di quello che ci saremmo aspettati, con battute allegre e una trama accattivante. Ieri amici ci hanno proposto di andare a vedere “Quo vado?” ma, anche per precedenti impegni, abbiamo declinato l’invito. Sono convinto che se andassimo a vedere questo film per quell’oretta ci divertiremmo. E allora perché no? Forse perché il divertimento durante la programmazione del film lo sconteremmo nei giorni successivi con un leggero senso di tristezza. Questi film in cui vengono messe in mostra le miserie dell’essere umano per poi riderci sopra, in cui i vizi tipici dell’italiano vengono raccontati con tono scanzonato sul momento fanno ridere e offrono una sorta di autoassoluzione in cui attraverso l’umorismo come affermava Freud “l’uomo mostra di essere superiore alle sue miserie”. Freud citava la battuta del condannato a morte che viene portato alla forca di lunedì ed esclama: “Comincia bene questa settimana!”. Con questa battuta si mostra superiore alla sua sorte che però immancabilmente poi si compie.
 
Segue qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01/07/checco-zalone-e-la-tristezza-del-suo-umorismo/2353402/ 

DE CERTEAU IL PROFETA ERRANTE

di Filippo Rizzi, avvenire.it, 8 gennaio 2016
 
Un sociologo, un antropologo, uno storico della spiritualità («sono solo un viaggiatore della letteratura mistica») capace di interpretare il postmoderno e l’inconscio dei contemplativi del Seicento, attraverso le categorie della psicanalisi freudiana apprese alla scuola di Lacan o semplicemente un sacerdote gesuita in grado di leggere il “cristianesimo in frantumi” della società del suo tempo. A 30 anni dalla morte di Michel de Certeau (1925-1986), avvenuta nella fredda sera del 9 gennaio 1986 a Parigi, sono ancora tanti e innumerevoli i tratti distintivi e attuali ma anche gli interrogativi aperti attorno a questa complessa figura del Novecento, – che fu tra l’altro assieme ad Hans Urs von Balthasar uno dei discepoli prediletti di Henri de Lubac, – definita dal suo confratello Maurice Giuliani, un «soggetto di inquietudine veritiera» per la sua capacità di essere trasversale nella conoscenza tra i saperi e le pratiche quotidiane: dalla filosofia alla teologia, dalla psicanalisi alla storia, fino all’etnografia. Uno studioso di razza citato e preso a modello dallo stesso papa Francesco (l’omaggio a De Certeau avvenne nel corso della sua prima intervista da pontefice ad Antonio Spadaro sulle colonne della Civiltà Cattolica nel settembre 2013) per essere stato uno dei migliori interpreti e curatori del Memoriale scritto dal primo sacerdote della Compagnia di Gesù e oggi santo: Pierre Favre (1506-1546).
 
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/DE-CERTEAU-.aspx 

GOODBYE FREUD, LA PSICOLOGIA ABBANDONA IL NOVECENTO. Dopo la scuola del sospetto di Marx, Freud e Darwin, è l’ora di sospettare anche di costoro. Si tratta di prendere atto che oggi nessuno crede più nel potere taumaturgico del conoscere: sapere, rendere cosciente ciò che prima era ignoto e perfino inconscio, incide poco sui fatti

di Giovanni Maria Ruggero, linkiesta.it, 9 gennaio 2016
 
I tempi cambiano, rapidamente. Anche nel campo della psicoterapia. Per qualche anno abbiamo sentito parlare molto di mindfulness, e forse abbiamo già scavalcato la cresta di quell’ondata di meditazione arrivata dall’oriente. Eppure, malgrado la possibile risacca degli esercizi di consapevolezza mentale, diventa sempre più condivisa e seguita una direzione ben precisa, una strategia di evoluzione della psicoterapia che, man mano che lievita, dimostra un interesse sempre più scarso e decrescente per l’esplorazione interiore, per lo scavo teso alla conoscenza del cosiddetto profondo.
Insomma, si è persa fiducia nel potere taumaturgico della conoscenza. L’atto del conoscere, del sapere come è fatta una cosa, è considerato meno curativo e meno capace di mutare l’ordine delle cose per sola virtù propria. È un secolo sempre più incredulo: dopo che il suo predecessore, il ‘900, aveva voltato le spalle alle grandi teologie in nome della conoscenza critica, questo nuovo tempo dissacra anche la conoscenza stessa, svalutandola a gioco intellettualistico. Non basta sapere per cambiare. E perché mai un processo dovrebbe mettersi in moto dopo che la mente umana l’abbia conosciuto? Dopo la scuola del sospetto di Marx, Freud e Darwin, è l’ora di sospettare anche di costoro. Per la verità si sospetta più Marx e Freud (e più Marx di Freud), mentre Darwin appare inattaccabile. In fondo quest’ultimo aveva ben poco a che fare con gli altri due, un britannico contro due mitteleuropei. I quali, con tutto il loro illuminismo, avevano cercato di rivelare un’essenza, una metafisica sia pure materialistica del mondo. Quanto do più lontano dal pragmatismo del “basta che funzioni” anglo-americano. Cercavano una spiegazione definitiva che potesse cambiare il mondo una volta che si fosse rivelata alla mente umana. Mentre Darwin si limitò a descrivere un modello, sia pure di grande respiro. Darwin descrisse delle funzioni, non cercò delle essenze.
 
Segue qui:
http://www.linkiesta.it/it/article/2016/01/09/goodbye-freud-la-psicologia-abbandona-il-novecento/28852/ 

Video

I TABÙ CI FANNO BENE

Intervista di Lucia Tironi, video.repubblica.it, 2 gennaio 2016
 
Lo psicanalista Massimo Recalcati il 3 gennaio inaugura un nuovo appuntamento domenicale di Repubblica: sul giornale si avvia la sua rubrica “Tutti i tabù del mondo”, a partire da una riflessione sul complesso di Edipo. “Il tabù introduce la dimensione della legge nella vita umana, una soglia che non si può valicare. Ma se interdici un oggetto, ne alimenti il desiderio. E quindi anche la trasgressione, che non esisterebbe se non ci fosse un limite. Bisognerebbe riabilitare la dimensione costruttiva dei tabù, in questo tempo della disinibizione assoluta”, senza vergogna né senso di colpa.
Riprese e montaggio Giulia Costetti e Silvia Valenti
 
Vai al link: 
http://video.repubblica.it/cronaca/recalcati-i-tabu-ci-fanno-bene/223243/222492?ref=HRER2-1 
 
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
 
Da segnalare anche la rubrica
"Mente ad arte, percorsi artistici di psicopatologia nel cinema ed oltre, di Matteo Balestrieri al link 
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4682
 
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com

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