Nella settimana appena trascorsa, all’interno di centinaia di scuole italiane, si sono tenute le famigerate prove Invalsi, lo strumento attraverso il quale lo stato cerca di valutare le condizioni del proprio sistema di istruzione. Cosa è l’ Invalsi è presto detto: è “ l’Ente di ricerca dotato di personalità giuridica di diritto pubblico che ha raccolto, in un lungo e costante processo di trasformazione, l’eredità del Centro Europeo dell’Educazione (CEDE) istituito nei primi anni settanta del secolo scorso” (http://www.invalsi.it/invalsi/istituto.php?page=chisiamo) . La scuola italiana ne fa esperienza attraverso una prova scritta che ha lo scopo di valutare i livelli di apprendimento degli studenti e di riflesso il livello e la produttività del corpo docente nazionale.
Uno strumento pensato per razionalizzare la spesa pubblica e “misurare” lo standard qualitativo delle prestazioni della scuola italiana, questo dovrebbe essere l’Invalsi. Eppure, come ben sappiamo dalla lettura di Foucault, ogni pratica di sapere è anche e soprattutto una pratica di potere, frutto di geometrie ed equilibri governamentali attraverso i quali si vuol assoggettare la popolazione. Il “come si svolge il potere” è il baricentro analitico degli studi di Foucault a partire dal 1970-71[1] e questo perché ritiene che le logiche del potere, prima di poter essere identificate in attori o ipostatizzazioni varie, debbano essere ricercate nelle modalità di funzionamento, nel “come” più che nel “che cosa”. La scuola, più delle caserme e delle prigioni, è la fabbrica disciplinare per definizione, lo spazio entro cui si plasmano le persone di domani; per tal motivo problematizzare le logiche gestionali della scuola italiana vuol dire analizzare la fisionomia delle relazioni di potere odierne. Ancora prima di chiederci cosa sono gli “Invalsi” dovremmo porre in questione la finalità governamentale che ne anima il senso, lo scopo politico-giuridico che ne determina la ragion d’essere. E in subordine, ma solo in apparenza, la visione antropologica che ne anima la finalità politica: quale visione dell’uomo c’è dietro le “condizioni di esistenza” dell’Invalsi?
Gli Invalsi sono test di abilità per misurare le capacità di lettura e comprensione del testo e il livello di apprendimento in matematica degli studenti italiani dalla seconda elementare fino alla maturità. Gli scopi principali dei test sono due: quantificare un certo tipo di competenze negli alunni, fondamentalmente saper rispondere a degli stimoli strutturati in un certo tempo e, conseguentemente, valutare la capacità delle scuole di educare i propri studenti ad un determinato tipo di prestazioni misurabili in maniera oggettiva (sic!). Il fine è quello di comparare gli alunni e gli istituti di una città, di una regione, di una macro-regione, di una nazione, di un continente. Il tutto secondo criteri intersoggettivamente verificabili, cioè quantificabili numericamente.
I test Invalsi, che entro il 2015 si vorrebbero estendere a tutte le scuole, sono a tutti gli effetti una procedura di soggettivazione per un individuo ridotto alla funzione di contabile da ufficio di ragioneria, un novello Fantozzi che nel futuro saprà soltanto rendicontare le entrate e le uscite dell’azienda-mondo. Il tono lirico di queste ultime righe non devono farci dimenticare che la scuola, secondo i programmi sbandierati a Lisbona nel 2000, è prima di tutto un’agenzia per lo sviluppo della persona, delle intelligenze, della cittadinanza attiva alla luce delle competenze. L’ Invalsi quali competenze vuole evidenziare? Quale tipo di intelligenza hanno in mente quando disciplinano l’alunno rendendolo nulla di più che un esecutore di funzioni in tempi sempre più ridotti?
Riducendo la valutazione a semplice processo di riscontro delle velocità di reazione dell’alunno davanti a problemi strutturati, con riposta oggettiva, si plasma un’antropologia che esalta il soggetto- strumento, l’esecutore di certe risposte alla luce di determinati stimoli. Eppure che la valutazione all’interno della scuola debba ridursi a questa compilazione del registro dei consuntivi sulla base della differenza matematica tra le entrate e le uscite è quantomeno discutibile. Di fatto, nella scuola, si dovrebbe valutare il percorso di crescita della persona alla luce della triade “conoscenze-abilità-competenze” dove, soprattutto quest’ultimo parametro, dovrebbe delineare un sotto-insieme di criteri includenti: le capacità di problematizzazione, di autovalutazione, di collaborazione nella risoluzione di problemi, di analisi, sintesi, critica, argomentazione, organizzazione del pensiero secondo concatenamenti logici; insomma, una serie di elementi che dovrebbero fotografare lo sviluppo cognitivo e affettivo dell’alunno, non soltanto la capacità di produrre certe, limitate, prestazioni in termini rapidi. Il solito problema di preferire il regime di “complessità” a quello del “riduzionismo”
.
Misurare non è valutare, anche se spesso i due termini vengono utilizzati come sinonimi, obliando la differenza costitutiva che li ricolloca in due ambiti distinti e separati; da una parte quello proprio della “razionalità economica”, dall’altro la multiforme costellazione socio-affettiva della “soggettività”. La questione in ballo è biopolitica e riguarda il tipo di “persona” che si vuol produrre per l’immediato futuro. Le “parole” fanno le “cose” e questo credo sia riconosciuto, almeno per l’ambito sociale, anche da chi non si identifica come propriamente costruttivista.[2] Si devono preferire, a procedure di misurazione a tutti gli effetti biometriche, quali gli Invalsi, una valutazione analitica, complessa, della persona fatta di considerazioni sul percorso svolto in relazione al contesto di riferimento, alle potenzialità e alle inclinazioni sintomali che rendono unico il soggetto, all’impegno profuso in ordine al processo di apprendimento. Solo così la scuola può eludere il fantasma sadico che si cela dietro la valutazione.
Quanto detto, beninteso, non si inserisce nella retorica di cui si nutre la logica “buonista”, riflesso radical chic dell’antropologia permissiva sviluppatasi nelle scuole italiane dopo il 1968[3], tutt’altro. Infatti, riteniamo che il buonismo imperante nelle scuole italiane, al di là di certe affermazioni di principio sulla necessità della “meritocrazia”, sia da iscrivere a pieno diritto nello stesso ambito in cui si è sviluppato il “sistema Invalsi”. Se quest’ultimo decostruisce la soggettività riducendola a semplice dispositivo calcolatore, la “logica permissiva”, sottraendo al giovane la fase conflittuale data dal confronto con la “legge”, ne svuota l’aspetto desiderante, quindi il nucleo di costituzione della soggettività. Come sappiamo bene, il giovane che non desidera è preda delle passioni mortifere che tanto comuni sono oggi in età scolare[4].
Il disegno dell’ Invalsi si situa in dinamiche di ampio respiro che includono anche il recente concorsone per gli insegnanti, con la farsa delle prove “oggettive” e, per tornare agli alunni, le certificazioni creditizie utili per il sospirato “punto incrementale” in vista degli esami, i quiz per l’ammissione alle facoltà universitarie, le scuole di preparazione per i suddetti quiz, vere agenzie disciplinari che in un’ottica di addestramento al mondo del lavoro, plasmano gli studenti al dogma dell’oggettività. Solo evitando di scorporare le logiche degli Invalsi da quelle che orientano le attuali pratiche di governo biopolitico è possibile situare la problematica per provare a comprendere quali sono le trasformazioni dell’immaginario che si stanno delineando e che riguarderanno l’immediato futuro.
0 commenti