Dialogo tra Sarantis Thanopulos e Stefano Canali
Sarantis Thanopulos: “Caro Stefano, in uno studio condotto in collaborazione da SISSA e dall’Università Roma Tre, avete analizzato le parole e le costruzioni linguistiche usate da persone dipendenti dal gioco d’azzardo. E avete individuato dei “marcatori” linguistici e narrativi caratteristici del loro stato emotivo e cognitivo. Il più evidente è l’assenza totale di parole e frasi riferite al futuro. Un altro marcatore è l’uso contemporaneo della prima persona e della forma passiva nel raccontare il rapporto col gioco. I giocatori si sentono agiti, passivi, trascinati dal desiderio e dagli automatismi. E il giocare è narrato in modo contraddittorio con termini che esprimono emozioni positive e negative. Nella mia esperienza clinica il “giocatore d’azzardo” è profondamente delegittimato nel suo desiderio e vive come furto l’appropriazione soggettiva del suo legame con l’oggetto desiderato. Tende a fondare il legame con ciò che ama sulla compiacenza e teme così la propria “castrazione” come soggetto desiderante. Con l’azzardo affida al caso le sue possibilità di successo, deresponsabilizzandosi, e per non sentirsi in balia della fortuna si impegna in calcoli probabilistici, ma il “banco” (l’oggetto inaccessibile) deve vincere sempre. L’azzardo è una sfida perenne alla propria morte erotica, una castrazione simbolica a cui spera di sopravvivere ogni volta. La vita diventa un’eccitazione forte che vive in prossimità del morire. Questa prospettiva clinica converge con i vostri risultati. Non penso che una terapia puramente “linguistica” possa trasformare i vissuti che sottendono l’uso del linguaggio da parte dei dipendenti dal gioco. Tuttavia, la vostra ricerca è molto interessante per gli psicoanalisti. Può mettere a fuoco le aree critiche in cui i conflitti psichici si manifestano sul piano del linguaggio, estrinsecandosi. Rendendo anche più chiari gli schemi mentali/comportamentali da cui è agito il giocatore d’azzardo.”
Stefano Canali: “Caro Sarantis concordo con te che una terapia puramente linguistica non può essere da sola in grado di trasformare i vissuti dei soggetti dipendenti. Lo studio e il lavoro sui marcatori narrativi prefigurano tuttavia un orizzonte ampio di possibili azioni finalizzate al recupero. Noi partiamo da una matrice teorica discosta dalla tua, dalle scienze cognitive dell’azione. Abbiamo preso le mosse dalla teoria dell’identità narrativa. Questa descrive l’Io come un centro di gravità narrativa impegnato a tenere assieme i diversi sistemi funzionali della mente (emotivo, cognitivo, motivazionale) nel presente, momento per momento, e a conservare nel tempo il senso di unità, integrità e continuità personale a dispetto delle discontinuità e dei rivolgimenti nel divenire delle storie personali e del senso che un individuo attribuisce loro guardando al futuro o a partire dal passato. Questa multipla frammentarietà viene ridotta a sistema funzionale dall’azione della gravità narrativa, dalle narrazioni di sé costantemente riformulate. Da queste narrazioni dipendono parte delle ragioni, del senso e delle direzioni per le valutazioni, le regolazioni emotive, le decisioni e l’azione. Così, questo spazio informato dal linguaggio condiziona fortemente le operazioni cognitive alla base del controllo volontario del comportamento e della capacità di fronteggiare il desiderio del gioco o della sostanza nelle dipendenze. Ecco noi cerchiamo di lavorare in questo spazio, dentro a questa prospettiva. Vogliamo provare a sviluppare una strategia di intervento complementare ai trattamenti già in uso. Un protocollo di esercizi, non centrati sulla condizione patologica ma sulle capacità generali di concepire e raccontare storie, che punti alla risoluzione degli aspetti deficitari e contraddittori segnalati dai marcatori narrativi che abbiamo individuato e così, sperabilmente, a riabilitare il controllo nei giocatori patologici.”
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