Quando si parla di suicidio giovanile il più delle volte le notizie si concentrano su una difficile relazione con i genitori, o su una delusione sentimentale, o su un litigio con i compagni di scuola. Ma chi non ha sperimentato, con diverse intensità, ognuna di queste situazioni? Allora, chi è l’adolescente che arriva a commettere il gesto estremo del suicidio? Se negli anni ’70 Schwab[1] notava una crescente incidenza di reazioni depressive nei giovani, frutto dell’accumularsi di sentimenti di perdita e di delusione, ritenendo le aspirazioni dei giovani adolescenti “troppo ambiziose” e che la delusione per la mancanza di risultati nutriva il terreno sul quale fioriva un’“affermazione depressiva”, oggi la risposta è da cercare in quella fragilità che sembra essere così tipica dei giovani di quest’era, causa o conseguenza di una vulnerabilità che nella ragazza di Forlì, come nel 16enne di Aprilia che pochi mesi fa cadeva da una finestra del suo liceo, fortunatamente salvandosi, e in tanti altri adolescenti, appare sempre più consolidata, tanto da configurare il suicidio come seconda causa di morte nella fascia adolescenziale, spesso associato ad abuso di sostanze, a disturbi dell’umore (essi ricorrono con una percentuale che oscilla tra il 49 e il 64% negli adolescenti vittime di suicidio) e a sentimenti di disperazione, al non avere prospettive positive future (hopelessness)[2].
La predittività del rischio suicidario nell’adolescenza si esprime attraverso chiari fattori, richiami di allarme per chi ha più stretti rapporti con il giovane e che includono segnali verbali, comportamentali, situazionali[3]. Qualunque cambiamento repentino o drammatico che danneggi le attività di un adolescente, la sua frequentazione scolastica, il suo comportamento personale, deve essere considerato seriamente.
Tra gli indicatori utili ad individuare i giovani a rischio di suicidio:
· mancanza di interesse per le attività abituali;
· generale calo delle qualità (attenzione, memoria etc.);
· mancanza o diminuzione della forza di volontà;
· comportamenti negligenti in classe;
· inspiegabile assenza o ripetute assenze ingiustificate;
· abuso di tabacco, alcool o droga (compresa la cannabis);
· coinvolgimento in atti di violenza tra studenti o atti che richiamano l’intervento della polizia;
· isolamento;
· hopelessness, cioè l’atteggiamento di mancanza di speranza;
· dichiarazioni scritte e verbali riguardanti la morte, l’intenzione di morire e la mancanza di voglia di vivere;
· attrazione per la morte ed il morire;
· disfarsi di beni o lasciare le proprie volontà;
· drastici cambiamenti del comportamento o della personalità, come trascurarsi nell’aspetto e isolarsi dagli amici e familiari.
In un’era in cui i valori sono diversi da quelli così rimpianti di un tempo, la famiglia, il tempo dedicato da ogni membro ad ogni membro, la qualità del tempo trascorso assieme, rimangono quei fattori che permettono al giovane una maturità affettiva tale da potere autorizzarsi a chiedere aiuto ad una figura di riferimento, da abituarsi a fronteggiare delusioni e frustrazioni, da potere reggere quei “no” che a volte sembrano muri invalicabili, allo stesso tempo permettono a chi è vicino a quel giovane di recepire i segnali, quasi sempre presenti ma sottovalutati, di una vita che richiede troppa fatica, troppo dolore, troppa solitudine.
Quando si gioca con la vita e con la morte, le “non-parole”, come le parole, hanno un enorme peso e dare loro valore spesso cambia le sorti del gioco.
Riferimenti
[1] Schwab. J.J. A Rising Incidence of Depression, in Attitude, Vol. I, N. 2 (gen.-feb. 1970).
[2] Plutchik, R. (1995). Outward and inward directed aggressiveness: the interaction between violence and suicidality. Pharmacopsychiatry, 28 Suppl 2:47-57.
[3] Sanchez H.G. (2001). Risk factors model for suicide assessment and intervention. Prof Psychol 32, 4, 351.
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