JACKSON POLLOCK E L’IRRAZIONALITÀ DELLA SUA PITTURA
di Simona Casiraghi, milanofree.it, 22 giugno 2014
Tra i più controversi esponenti dell’arte moderna, Jackson Pollock ha portato un importante contributo nel panorama artistico mondiale, entrando nei libri di storia dell’arte come il più famoso ed emblematico rappresentante dell’action painting americana.
La Donna luna Pollock (vedi qui a fianco)
Opere apparentemente poco comprensibili per gli amanti dell’arte figurativa, esso sono, in realtà molto più vicine alla psiche umana di quanto sembri di primo acchito. La sua arte, infatti, si basa sull’espressione del proprio mondo interiore – come avviene, in termini generali, per tutta la corrente espressionista-, la ricerca irrazionale di esternare emozioni, sensazioni e sentimenti attraverso gesti spontanei e privi di qualsiasi studio e premeditazione. Diverse, non a caso, le affinità con la psicanalisi – come avviene, ancora una volta., nell’espressionismo e nell’arte informale – ma anche con antiche reminescenze di antichi riti magici degli indiani d’America: proprio a Pollock, infatti, è attribuita la tecnica del dripping far gocciolare il colore su una tela posta in orizzontale, determinando la colatura del colore con gesti rituali e coreografici.
Quello che forse non tutti conoscono è il legame esistente tra Pollock e i maestri dell’astrattismo e cubismo Mirò e Picasso; nelle opere giovanili infatti, si notano molto chiaramente gli influssi dei due pittori – un esempio lampante è il dipinto “The Moon Woman del 1942 – sia nell’uso dei colori che nelle forme astratte e rielaborate della figura femminile richiamanti direttamente Picasso.
Senza titolo Pollock (vai al link qui sotto per vedere l’immagine)
Tuttavia il background culturale-artistico assorbito dall’artista è ampio e variegato; egli conosce molto bene le opere di Kandinsky, a tal punto da percepirne l’influenza nelle opere della metà degli anni ’40, come si evince chiaramente dal “Senza titolo” del 1946.
Ma le opere più celebri che ne caratterizzano lo stile degli anni della maturità, perdono completamente qualsiasi riferimento figurativo, astratto e non, per interpretare irrazionalmente attraverso l’inconscio i temi più svariati in opere mai uguali a se stesse. E’ proprio questo uno degli elementi che contraddistingue Pollock, ogni dipinto è un’opera a se stante, dalla quale scaturiscono emozioni diverse e talvolta contrastanti.
Alchimia Pollock (vai al link qui sotto per vedere l’immagine)
Alchimia è un’opera piena. Piena di colore e piena di linee.Linee che non descrivono e non contengono ma semplicemente esistono come evento autonomo che riproduce sulla i tela i movimenti del corpo dell’artista. La linea si assottiglia o si ispessisce, acquista velocità o scorre lentamente, e la sua apparenza si modifica a seconda della casualità con cui il materiale si dispone, sgocciolando, formando delle pozze o delle bolle. In altre opere come “Foresta incantata” ci sono ampie zone di respiro che lasciano trapelare il fondo della tela, anche grazie a un maggiore ordine cromatico ottenuto utilizzando una più ristretta gamma di colori.
http://www.milanofree.it/201406195033/milano/arte/jackson_pollock_e_l_irrazionalita_della_sua_pittura.html
Tra i più controversi esponenti dell’arte moderna, Jackson Pollock ha portato un importante contributo nel panorama artistico mondiale, entrando nei libri di storia dell’arte come il più famoso ed emblematico rappresentante dell’action painting americana.
La Donna luna Pollock (vedi qui a fianco)
Opere apparentemente poco comprensibili per gli amanti dell’arte figurativa, esso sono, in realtà molto più vicine alla psiche umana di quanto sembri di primo acchito. La sua arte, infatti, si basa sull’espressione del proprio mondo interiore – come avviene, in termini generali, per tutta la corrente espressionista-, la ricerca irrazionale di esternare emozioni, sensazioni e sentimenti attraverso gesti spontanei e privi di qualsiasi studio e premeditazione. Diverse, non a caso, le affinità con la psicanalisi – come avviene, ancora una volta., nell’espressionismo e nell’arte informale – ma anche con antiche reminescenze di antichi riti magici degli indiani d’America: proprio a Pollock, infatti, è attribuita la tecnica del dripping far gocciolare il colore su una tela posta in orizzontale, determinando la colatura del colore con gesti rituali e coreografici.
Quello che forse non tutti conoscono è il legame esistente tra Pollock e i maestri dell’astrattismo e cubismo Mirò e Picasso; nelle opere giovanili infatti, si notano molto chiaramente gli influssi dei due pittori – un esempio lampante è il dipinto “The Moon Woman del 1942 – sia nell’uso dei colori che nelle forme astratte e rielaborate della figura femminile richiamanti direttamente Picasso.
Senza titolo Pollock (vai al link qui sotto per vedere l’immagine)
Tuttavia il background culturale-artistico assorbito dall’artista è ampio e variegato; egli conosce molto bene le opere di Kandinsky, a tal punto da percepirne l’influenza nelle opere della metà degli anni ’40, come si evince chiaramente dal “Senza titolo” del 1946.
Ma le opere più celebri che ne caratterizzano lo stile degli anni della maturità, perdono completamente qualsiasi riferimento figurativo, astratto e non, per interpretare irrazionalmente attraverso l’inconscio i temi più svariati in opere mai uguali a se stesse. E’ proprio questo uno degli elementi che contraddistingue Pollock, ogni dipinto è un’opera a se stante, dalla quale scaturiscono emozioni diverse e talvolta contrastanti.
Alchimia Pollock (vai al link qui sotto per vedere l’immagine)
Alchimia è un’opera piena. Piena di colore e piena di linee.Linee che non descrivono e non contengono ma semplicemente esistono come evento autonomo che riproduce sulla i tela i movimenti del corpo dell’artista. La linea si assottiglia o si ispessisce, acquista velocità o scorre lentamente, e la sua apparenza si modifica a seconda della casualità con cui il materiale si dispone, sgocciolando, formando delle pozze o delle bolle. In altre opere come “Foresta incantata” ci sono ampie zone di respiro che lasciano trapelare il fondo della tela, anche grazie a un maggiore ordine cromatico ottenuto utilizzando una più ristretta gamma di colori.
http://www.milanofree.it/201406195033/milano/arte/jackson_pollock_e_l_irrazionalita_della_sua_pittura.html
IL CELLULARE CHIAMA, LA FILOSOFIA RISPONDE
di Félix Duque, avvenire.it, 20 giugno 2014
L’uomo contemporaneo (a partire dagli anni ’90 del XX secolo) vive una ‘vita connessa’, in cui la nuova ontologia procedurale impregna e rimescola, facendoli interagire, i diversi àmbiti di produzione (impresa), riproduzione (scuola, famiglia) e divertimento (hobby) attraverso le differenti interfacce mediatiche, mediante le quali si incrociano la globalizzazione, la commercializzazione e l’individualizzazione. L’essere di questo dire, la cui essenza è la situazione insostanziale, configura una sorta di Gefüge o assemblaggio riflettente mobile che si sgrana in una sequenza indefinita di situazioni, dato che è la partecipazione sociale alla comunicazione a definire che cosa stia avendo luogo, che cosa sia pertinente fare o non fare in tale situazione, e come si svilupperanno gli eventi situazionali. Per i nostalgici: mutatis mutandis, tali regioni dell’ente erano un tempo denominate, rispettivamente: fisica, etica e politica. In tal modo, il cellulare genera, mi si passi l’espressione, una sottile ‘corazza’ protettiva che isola l’individuo dalla situazione fisica, locale, in cui si trova faccia a faccia con i suoi prossimi o in contiguità con essi, e lo immerge in una telepresenza uditiva e sempre più immaginifica che stabilisce un situarsi puramente virtuale, ma che risulta tuttavia intimior intimo meo. Pertanto, un sistema tecnologico finisce per essere ideologicamente rivestito da fattore di cambiamento e generatore di nuove forme di comunità sociale. Per dirla in linguaggio tradizionale, finisce col diventare l’essere tecnologico degli enti sociali.
Tuttavia, bisogna precisare meglio questo clamoroso trionfo del cellulare come strumento di connessione (quasi di communio) tra la gente. Infatti, in questo caso l’utente diviene un mero veicolo, ossia un portatore di valori, se non eterni (posto che la sua ricezione/trasmissione è istantanea) perlomeno immutabili nella circolazione degli Sms. Non vi è ermeneutica possibile durante la trasmissione o ricezione del messaggio via cellulare. La sua forza è anche il suo limite, posto che può riconvertire subitamente in massa la moltitudine di utenti. È ovvio che l’uso del cellulare consente, da un lato, la trasmissione di ordini (in àmbito lavorativo) o di consegne (in àmbito politico); dall’altro, soprattutto, stabilisce e consolida quel che potremmo definire il caro vecchio ciarpame della chiacchiera, ossia il gossip che rinsalda e fomenta le relazioni affettive tramite l’espressione dei sentimenti e delle attività quotidiane dell’uomo comune.
Nel caso specifico, è come se la telefonia mobile confermasse la molto ‘fisica’ concezione di Hegel, secondo la quale la ragione esiste solo incarnata, però spostandola dal soggetto alla macchina, il suo avatar più sicuro e affidabile. E se è vero che la memoria è la manifestazione dell’identità personale, allora l’’Agenda’, il ‘Calendario’ e l’archivio di foto e video del cellulare costituiscono la custodia e garanzia di tale identità, minacciando addirittura di soppiantarla.
Il fatto è che, diversamente da quanto si potrebbe a prima vista supporre su di un piano politicamente corretto, l’uso del cellulare non avvicina il cittadino al mondo, che diventa sempre più ancho y ajeno, cioè troppo grande e straniante, a volte ostile. Al contrario, lo isola simbolicamente e temporalmente da esso per situarlo in uno spazio acustico cordiale, come un caldo rifugio. L’etimologia del termine gossip mostra chiaramente l’indispensabilità della sua funzione sociale: gossib era il padrino/madrina di battesimo di un bambino (god: ‘Dio’ e sib: ‘parente’). I pettegolezzi sono un mero pretesto per «rimanere in contatto» (let keep in touch!), per differenziarsi dalla massa e connettersi con un gruppo eletto di riferimento; si limitano ad alludere al mero (però trascendentale) desiderio di stare insieme, come un grooming a distanza trasmesso sia oralmente che attraverso Sms (o, con sempre maggiore frequenza, Mms, inviando immagini e musica come ricordo, auguri e cose del genere). Lo spazio resta quindi scandito dal binomio intimità/ estraneità tra gli interlocutori e le persone fisicamente vicine (da cui anche il sentimento di malessere di queste ultime quando una conversazione fisica, personale, viene interrotta da una chiamata sul cellulare). In questo senso il gossip può essere considerato paradossalmente come un «pettegolezzo culturale», ma non perturbatore, anzi, al contrario come promessa della possibilità di futuri significati condivisi. Da buon ghost (spettro ma anche spirito: Geist), il cellulare tenta, seduce, persuade e a volte intimorisce. E soprattutto è ubiquo, perché ricerca e modifica al tempo stesso i gruppi sociali in piccoli nuclei di affettività. La sua principale funzione non consiste nella comunicazione di idee, bensì nella diffusione e anzi, di più: nella tras-fusione di sentimenti.
In definitiva, il cellulare vive della mancanza di siti, di dati anagrafici, e provvede a essi, sia mediante la connessione del forestiero coi propri luoghi d’origine, sia – e questo è molto interessante – mediante la creazione di esplosioni situazionali. E di nuovo, è qui la filosofia (o meglio: la psicoanalisi filosofante), quella che, avant la lettre, mostra in modo chiaroveggente la nascita del nuovo soggetto mobile, un soggetto al limite, sospeso, trafitto dai molteplici venti della moltitudine. Nel suo prologo alla Psychoanalyse et transversalité di Félix Guattari, Gilles Deleuze dice di questi gruppi o soggetti emergenti, oggi ancora in statu nascendi, che essi: «si definiscono attraverso coefficienti di trasversalità, che contrastano totalità e gerarchie; sono agenti di enunciazione, sostegni di desideri, elementi di creazione istituzionale: attraverso la loro pratica, si confrontano incessantemente con il limite del proprio non-senso, della propria morte o rottura».
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/CELLULARE.aspx
L’uomo contemporaneo (a partire dagli anni ’90 del XX secolo) vive una ‘vita connessa’, in cui la nuova ontologia procedurale impregna e rimescola, facendoli interagire, i diversi àmbiti di produzione (impresa), riproduzione (scuola, famiglia) e divertimento (hobby) attraverso le differenti interfacce mediatiche, mediante le quali si incrociano la globalizzazione, la commercializzazione e l’individualizzazione. L’essere di questo dire, la cui essenza è la situazione insostanziale, configura una sorta di Gefüge o assemblaggio riflettente mobile che si sgrana in una sequenza indefinita di situazioni, dato che è la partecipazione sociale alla comunicazione a definire che cosa stia avendo luogo, che cosa sia pertinente fare o non fare in tale situazione, e come si svilupperanno gli eventi situazionali. Per i nostalgici: mutatis mutandis, tali regioni dell’ente erano un tempo denominate, rispettivamente: fisica, etica e politica. In tal modo, il cellulare genera, mi si passi l’espressione, una sottile ‘corazza’ protettiva che isola l’individuo dalla situazione fisica, locale, in cui si trova faccia a faccia con i suoi prossimi o in contiguità con essi, e lo immerge in una telepresenza uditiva e sempre più immaginifica che stabilisce un situarsi puramente virtuale, ma che risulta tuttavia intimior intimo meo. Pertanto, un sistema tecnologico finisce per essere ideologicamente rivestito da fattore di cambiamento e generatore di nuove forme di comunità sociale. Per dirla in linguaggio tradizionale, finisce col diventare l’essere tecnologico degli enti sociali.
Tuttavia, bisogna precisare meglio questo clamoroso trionfo del cellulare come strumento di connessione (quasi di communio) tra la gente. Infatti, in questo caso l’utente diviene un mero veicolo, ossia un portatore di valori, se non eterni (posto che la sua ricezione/trasmissione è istantanea) perlomeno immutabili nella circolazione degli Sms. Non vi è ermeneutica possibile durante la trasmissione o ricezione del messaggio via cellulare. La sua forza è anche il suo limite, posto che può riconvertire subitamente in massa la moltitudine di utenti. È ovvio che l’uso del cellulare consente, da un lato, la trasmissione di ordini (in àmbito lavorativo) o di consegne (in àmbito politico); dall’altro, soprattutto, stabilisce e consolida quel che potremmo definire il caro vecchio ciarpame della chiacchiera, ossia il gossip che rinsalda e fomenta le relazioni affettive tramite l’espressione dei sentimenti e delle attività quotidiane dell’uomo comune.
Nel caso specifico, è come se la telefonia mobile confermasse la molto ‘fisica’ concezione di Hegel, secondo la quale la ragione esiste solo incarnata, però spostandola dal soggetto alla macchina, il suo avatar più sicuro e affidabile. E se è vero che la memoria è la manifestazione dell’identità personale, allora l’’Agenda’, il ‘Calendario’ e l’archivio di foto e video del cellulare costituiscono la custodia e garanzia di tale identità, minacciando addirittura di soppiantarla.
Il fatto è che, diversamente da quanto si potrebbe a prima vista supporre su di un piano politicamente corretto, l’uso del cellulare non avvicina il cittadino al mondo, che diventa sempre più ancho y ajeno, cioè troppo grande e straniante, a volte ostile. Al contrario, lo isola simbolicamente e temporalmente da esso per situarlo in uno spazio acustico cordiale, come un caldo rifugio. L’etimologia del termine gossip mostra chiaramente l’indispensabilità della sua funzione sociale: gossib era il padrino/madrina di battesimo di un bambino (god: ‘Dio’ e sib: ‘parente’). I pettegolezzi sono un mero pretesto per «rimanere in contatto» (let keep in touch!), per differenziarsi dalla massa e connettersi con un gruppo eletto di riferimento; si limitano ad alludere al mero (però trascendentale) desiderio di stare insieme, come un grooming a distanza trasmesso sia oralmente che attraverso Sms (o, con sempre maggiore frequenza, Mms, inviando immagini e musica come ricordo, auguri e cose del genere). Lo spazio resta quindi scandito dal binomio intimità/ estraneità tra gli interlocutori e le persone fisicamente vicine (da cui anche il sentimento di malessere di queste ultime quando una conversazione fisica, personale, viene interrotta da una chiamata sul cellulare). In questo senso il gossip può essere considerato paradossalmente come un «pettegolezzo culturale», ma non perturbatore, anzi, al contrario come promessa della possibilità di futuri significati condivisi. Da buon ghost (spettro ma anche spirito: Geist), il cellulare tenta, seduce, persuade e a volte intimorisce. E soprattutto è ubiquo, perché ricerca e modifica al tempo stesso i gruppi sociali in piccoli nuclei di affettività. La sua principale funzione non consiste nella comunicazione di idee, bensì nella diffusione e anzi, di più: nella tras-fusione di sentimenti.
In definitiva, il cellulare vive della mancanza di siti, di dati anagrafici, e provvede a essi, sia mediante la connessione del forestiero coi propri luoghi d’origine, sia – e questo è molto interessante – mediante la creazione di esplosioni situazionali. E di nuovo, è qui la filosofia (o meglio: la psicoanalisi filosofante), quella che, avant la lettre, mostra in modo chiaroveggente la nascita del nuovo soggetto mobile, un soggetto al limite, sospeso, trafitto dai molteplici venti della moltitudine. Nel suo prologo alla Psychoanalyse et transversalité di Félix Guattari, Gilles Deleuze dice di questi gruppi o soggetti emergenti, oggi ancora in statu nascendi, che essi: «si definiscono attraverso coefficienti di trasversalità, che contrastano totalità e gerarchie; sono agenti di enunciazione, sostegni di desideri, elementi di creazione istituzionale: attraverso la loro pratica, si confrontano incessantemente con il limite del proprio non-senso, della propria morte o rottura».
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/CELLULARE.aspx
COME E PERCHÉ IL PRETE DIVENTA PEDOFILO”
di Domenico Fargnoli, globalist.it, 24 giugno 2014
Nel libro di Federico Tulli, Chiesa e pedofilia, il caso italiano (L’Asino d’oro 2014), troviamo chiaramente formulate due domande: qual è la specificità della pedofilia nella Chiesa cattolica? Come e perché il prete diventa pedofilo? Il termine “pedofilia” è stato introdotto nella “Psichopathia sexualis” di Kraft Ebing (1886). In questa opera c’è un primo tentativo medico di mettere in relazione la perversione e la malattia mentale con la vita religiosa. Più in generale si può dire che nel rapporto con la dimensione del sacro nel Cristianesimo c’è sempre stato il rischio di una deriva psicopatologica complicata da condotte criminali, fra cui la pedofilia, ampiamente documentata nella storiografia.
I due libri di Tulli su Chiesa e pedofilia (cfr. “Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro” http://www.lasinodoroedizioni.it/libri/30/chiesa-e-pedofilia 2010) costituiscono una diade inscindibile che potrebbe essere, idealmente, la continuazione della “Storia criminale del cristianesimo” opera in 10 volumi scritta da Deschner Karlheinz scomparso recentemente. I due autori hanno in comune lo scrivere la storia dal punto il punto di vista delle vittime: vengono riportati ed analizzati fatti occultati nella letteratura apologetica e agiografica.
Quanto alla seconda domanda bisogna considerare che tutta la formazione del prete è basata sulla sublimazione dell’istinto sessuale. Il concetto di istinto implica che esso sia innato: ma noi sappiamo che alla nascita nell’uomo non solo non ci sono istinti ma neppure sessualità. Quindi si sublima, si desessualizza un istinto che non esiste. Siamo rimasti al tempo degli eremiti nel deserto, i santi “talpa” e “pascolanti” che aggredivano i bambini occasionalmente incontrati nelle oasi. Essi combattevano le tentazioni della carne, cioè gli istinti cercando di distruggere il corpo. In realtà erano in preda a deliri e allucinazioni a sfondo erotico. Vorrei però raccontare come sono arrivato a queste considerazioni.
A Londra nel Marzo 2011 con Federico abbiamo incontrato un gruppo i Survivors Voice Europe, un’associazione di sopravvissuti alla devastazione degli abusi. Fuori nella piazza antistante la sala dell’incontro c’era una locandina con uno scritto che polemizzava con papa Ratzinger dicendo: Non servono belle parole ma fatti. Basta! Non insisto sul fatto che per i papi chiedere perdono significa auto assolversi ricordo però che in quella circostanza, pur riconoscendo il sacrosanto diritto delle vittime di pretendere giustizia e risarcimento, ho pensato che si doveva andare oltre al confronto scontro con le gerarchie vaticane: il problema era affrontare la mentalità religiosa, scoprire ciò che che alimentava le violenza sui minori.
Tulli nei suoi libri mi sembra abbia condiviso questa impostazione. Egli non approda solo a un anticlericalismo fortemente motivato e documentato ma propone attraverso il contributo di vari esperti una ricerca sulla psicopatologia della vita religiosa. Molto opportunamente il nostro autore allarga il discorso ad una riflessione sulla natura più profonda, irrazionale del cristianesimo nel cui ambito si colloca la pedofilia clericale. Nel cuore dell’esperienza religiosa c’è appunto la dimensione del sacro, del quale il sacerdote dovrebbe essere il soggetto mediatore privilegiato. Perché egli realizza un minus piuttosto che un plus e si comporta come un criminale comune od un malato di mente?
Ci si potrebbe chiedere cos’è il sacro. Mi limito ad alcune considerazioni seguendo la ricerca di Maria Gabriella Gatti nella prefazione del libro.
Il sacro, è stato detto da Mircea Eliade, una struttura fondamentale della coscienza umana e non solo un momento della sua storia. L’esperienza del sacro sarebbe indissolubilmente legata allo sforzo dell’uomo per costruire un mondo che abbia significato.. Che significato ha però un mondo in cui i preti, metà uomini e metà santi, violentano i bambini?
Il famoso teologo e antropologo Julien Ries, ha scritto che la comparsa dell’homo sapiens sul nostro pianeta coinciderebbe con quella dell”homo religiosus.
Il prendere coscienza di sé dell’uomo primitivo sarebbe stato subito il prendere coscienza di altro da sé, cioè della presenza di una potenza misteriosa ed invisibile nella realtà materiale. Questa sarebbe la struttura della coscienza. Essa avrebbe in sé stessa una vocazione religiosa per una qualità innata, antecedente ad ogni esperienza destinata a rimanere tale nel corso della storia.
L’Homo religiosus è fin dall’inizio alienato: non sa che la potenza che colloca nella natura altro non è che l’energia, la forza, (avrebbe detto Goethe nel Faust) della pulsione che si crea nei primi istanti della vita quando il pensiero emerge dalla realtà biologica.
Alla nascita il neonato non ha coscienza di sé ma è già in rapporto con il mondo ed è già una presenza umana.
La coscienza, quando diventa certezza di sé stessi è condannata a rimane religiosa solo se è scissa da ciò che non è cosciente ed annulla il fondamento irrazionale dell’identità tipica della nostra specie.
Rudof Otto, nel 1917 aveva definito il sacro come l’irrazionale nell’idea del divino. Sarebbe la presenza di Dio che suscita il terrore mistico, il sentimento del sublime , ineffabile ed irrazionale: non sarebbe l’irrazionale che crea Dio.
Non è Dio che crea l’uomo, ma l’uomo che crea l’idea di Dio aveva già affermato Feuerbach nell’”Essenza del Crisitianesimo” nel 1841: con la precisazione che è l’irrazionale, la pulsione di annullamento che crea l’idea di Dio e non solo la coscienza dei filosofi.
Dai libri di Tulli traspare in filigrana una nuova concezione del sacro.
Esso è un prodotto umano storico, culturale e istituzionale il cui fine è far fronte ad una crisi della presenza, al rischio di non esserci nel mondo. Il sacro è l’alienazione dell’irrazionale che è dentro di noi nell’idea del divino fuori di noi. Il divino diventa, nel Cristianesimo, il trascendente, l’assolutamente altro, il Gans ander. Ernesto De Martino in alcuni scritti editi postumi nel libro “Storia e metastoria” sosteneva che l’origine del sacro sia rintracciabile nel vissuto di sentirsi gettati inermi nel mondo con il rischio di essere travolti che Martin Heidegger riteneva una condizione originaria e chiamava Geworfenheit. Lo psichiatra dell’Analisi collettiva, Massimo Fagioli, ha tradotto il termine con “parto animale” legando il suo uso, nella filosofia di Heidegger, alla pulsione di annullamento. La Geworfenheit è il vissuto di chi non riesce più a ricreare la propria nascita e, avendola annullata, ha perso l’ identità umana irrazionale.
Il parto è ridotto allora ad una deiezione, ad un espulsione di materiale biologico come quella degli animali. La nascita umana è invece, per Fagioli, fantasia di sparizione che crea una realtà biologica e psichica nuova che gli animali non hanno.
La Geworfenheit in quanto annullamento di ciò che è specificamente umano, è il pericolo estremo che minaccia ed a cui si cerca di ovviare con la spiritualità astratta del sacro, una irrealtà fuori dal tempo e dalla storia.
Dopo questa premessa torniamo all’interrogativo del come e perché il prete diventa pedofilo.
Il concetto di sublimazione è stato utilizzato sia dalla psicoanalisi che dalla Chiesa cattolica. Esso si riferisce all’ipotesi psicoanalitica secondo la quale gli istinti sessuali, originariamente perversi verrebbero desessualizzati per scopi creativi e per obiettivi sociali. L’istinto sessuale, che essendo istinto sarebbe innato, andrebbe desessualizzato altrimenti saremmo del tutto uguali agli animali. Noi sappiamo invece che alla nascita non ci sono istinti ma neppure sessualità. «La sessualità è identità sessuale. Compare dopo che l’essere umano ha realizzato la propria nascita, svezzamento, visione dell’essere umano diverso, pubertà» (Fagioli).
Tutta la formazione del prete scorre sul binario privilegiato della sublimazione: si dovrebbe desessualizzare, delirantemente ciò che nell’uomo non esiste, l’istinto sessuale.
Questa idea, sconcertante, risulta chiaramente presente nell’enciclica Sacerdotalis caelibatus di Paolo VI (1967).
Il celibato, diceva il Papa nel suo pronunciamento è una fulgida gemma, strumento indispensabile per l’elevazione spirituale oltre l’istinto sessuale ed i desideri della carne (testuale). Il sacerdote deve affrontare una quotidiana morte a tutto se stesso per essere più vicino a Dio. Il suo è un olocausto cioè un sacrificio totale di sé. La solitudine, o meglio l’isolamento sacerdotale, non è il vuoto perché esso è riempito dall’imitazione di Cristo Il celibato e la castità, per Paolo VI, non distorcerebbe la personalità anzi contribuirebbe alla sua maturità e stabilità.
E a proposito della sublimazione afferma testualmente il Pontefice: «La scelta del celibato esige lucida comprensione (.), attento dominio di sé e sapiente sublimazione della propria psiche su un piano superiore».
Leggendo l’Enciclica ci si rende conto che i sacerdoti sono vittime e complici di una concezione antiumana: devono annullare se stessi, devono realizzare, ad imitazione di Cristo ” un essere per la morte” ed affrontare il vuoto e lo smarrimento, il vissuto della Geworfenheit che così si determina. Essi devono cancellare. la loro nascita, cioè la propria dimensione affettiva ed irrazionale. Devono diventare anaffettivi in tutto simili ai nazisti come Heidegger, lo schizofrenico autore di Essere e tempo e dei Quaderni Neri. La vita del sacerdote, deposta sull’altare, deve recare i segni dell’Olocausto, il sacrificio levitico del maschio senza difetto. L’uso del termine “Olocausto”, evoca lo spettro del totale annientamento fisico. Come se la rinuncia alla sessualità comportasse una tendenza a procurare una lesione del corpo, un attacco alla vitalità propria e altrui: è quello che i pedofili fanno.
Il concetto Freudiano di sublimazione adottato da Paolo VI e applicato alla formazione dei chierici può avere effetti devastanti.
Nel tentativo di sublimare, che poi è annullare la sessualità come identità,, la personalità intera si altera, aumenta il narcisismo e si ipertrofizza la coscienza. Ciò spiegherebbe lo sviluppo del cosiddetto narcisismo clericale, favorito dalla cultura della Chiesa, cioè la grandiosità, un senso ingigantito della propria importanza, lo sfruttamento degli altri, la negazione che sfiora il delirio e che può giungere fino all’affermazione di una diversità ontologica fra chierici e laici. Un razzismo elevato all’ennesima potenza grazie al sacramento dell’ordine che si somma a quello battesimale anch’esso generatore, secondo Bergoglio, di una diversità ontologica dei credenti rispetto ai non credenti. La sublimazione non è altro che una formazione reattiva, come quella dei santi talpa, cioè una difesa patologica cronica rispetto ad un impulso perverso .
Dalla formazione reattiva, dal narcisismo patologico al costituirsi di una falsa personalità , il passo è breve.. Il Sé pubblico si ipertrofizza mentre il sé privato cioè la sfera dell’intimità e della sessualità si atrofizza. Portato alle estreme conseguenze il processo sopra delineato determina una grave alterazione dell’equilibrio mentale.
Paolo VI nella sua enciclica si riferiva all’isolamento del prete e al suo vuoto affettivo: il sacerdote lo avrebbe dovuto riempire, con l’imitazione di Cristo cioè il sacro.. Il sacro ha un carattere ambivalente presentandosi come fascinans et tremendum, alter ed ater, cioè alterità radicale ed oscurità insieme.
Il sacerdote cerca Dio ma trova il male, la negazione ed il demonio. Trova la pulsione di annullamento al fondo del suo irrazionale alienato e corre il pericolo di impazzire. Nella sua vita compare lo spettro della catastrofe.
Il prete pedofilo vi fa fronte creando un proprio rituale masturbatorio che si contrappone a quello eucaristico diventato privo di senso., In esso egli perfidamente attira e lucidamente coinvolge le vittime: si mantiene così in bilico fra sé pubblico e privato. Il sostegno e la complicità del clericalismo laico, altro grande imputato, e delle gerarchie ecclesiastiche lo confermano nel suo ruolo di pastore: egli rimane apparentemente asintomatico mentre circoscrive il suo delirio alla sfera dei comportamenti masturbatori. Nell’ambito di un’intimità malata e violenta che egli impone alle vittime ha modo di manifestarsi la sua volontà di ledere la vitalità altrui. La segretezza, le raffinate strategie di occultamento sono in funzione di un vissuto di onnipotenza che le permea. Il sacerdote, che non si rassegni ad una religiosità routinaria e razionale, burocratica e di facciata è schiacciato nella relazione che cerca di stabilire con il sacro, da un ideale che gli viene imposto e che si è paranoicamente imposto.
Egli i rivolge allora ai bambini: solo in un rapporto totalmente asimmetrico , dove lui si pone come l’assolutamente altro, cioè un Dio o un demone malvagio, egli recupera una illusoria e transitoria sensazione di potenza. L’abuso sui minori diventa una droga. Essa esaurisce presto il suo effetto fino alla nuova dose in una spirale che si ferma solo con l’arresto. La pedofilia clericale ha quindi una sua caratteristica particolare che la distingue da altre forme di pedofilia Essa è un sintomo di una malattia in cui è coinvolto non solo il prete, ma anche l’intero apparato della Chiesa, nei suoi aspetti istituzionali e dottrinari. La Chiesa non può che cercare di occultare la realtà inquietante degli abusi, dietro dichiarazioni ufficiali che lasciano il tempo che trovano. Essa sa bene che il problema non è costituito dalle deviazioni sessuali di singoli soggetti ma è in discussione il suo intero modo di concepire la realtà umana e la sessualità. . La Chiesa società perfetta aspira a rimanere sempre la stessa, semper eadem ergendosi al di fuori del tempo e della storia. Il progetto di una immobilità assoluta, viene realizzato al prezzo di vite umane, sofferenze e torture indicibili. Tale sacrificio, per le gerarchie clericali, sembra non essere poi così importante. Importante è che l’immagine di Gesù e di Dio legati da un matrimonio mistico con la Chiesa, rifulga imperitura nei secoli dei secoli.
http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=59572&typeb=0
Nel libro di Federico Tulli, Chiesa e pedofilia, il caso italiano (L’Asino d’oro 2014), troviamo chiaramente formulate due domande: qual è la specificità della pedofilia nella Chiesa cattolica? Come e perché il prete diventa pedofilo? Il termine “pedofilia” è stato introdotto nella “Psichopathia sexualis” di Kraft Ebing (1886). In questa opera c’è un primo tentativo medico di mettere in relazione la perversione e la malattia mentale con la vita religiosa. Più in generale si può dire che nel rapporto con la dimensione del sacro nel Cristianesimo c’è sempre stato il rischio di una deriva psicopatologica complicata da condotte criminali, fra cui la pedofilia, ampiamente documentata nella storiografia.
I due libri di Tulli su Chiesa e pedofilia (cfr. “Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro” http://www.lasinodoroedizioni.it/libri/30/chiesa-e-pedofilia 2010) costituiscono una diade inscindibile che potrebbe essere, idealmente, la continuazione della “Storia criminale del cristianesimo” opera in 10 volumi scritta da Deschner Karlheinz scomparso recentemente. I due autori hanno in comune lo scrivere la storia dal punto il punto di vista delle vittime: vengono riportati ed analizzati fatti occultati nella letteratura apologetica e agiografica.
Quanto alla seconda domanda bisogna considerare che tutta la formazione del prete è basata sulla sublimazione dell’istinto sessuale. Il concetto di istinto implica che esso sia innato: ma noi sappiamo che alla nascita nell’uomo non solo non ci sono istinti ma neppure sessualità. Quindi si sublima, si desessualizza un istinto che non esiste. Siamo rimasti al tempo degli eremiti nel deserto, i santi “talpa” e “pascolanti” che aggredivano i bambini occasionalmente incontrati nelle oasi. Essi combattevano le tentazioni della carne, cioè gli istinti cercando di distruggere il corpo. In realtà erano in preda a deliri e allucinazioni a sfondo erotico. Vorrei però raccontare come sono arrivato a queste considerazioni.
A Londra nel Marzo 2011 con Federico abbiamo incontrato un gruppo i Survivors Voice Europe, un’associazione di sopravvissuti alla devastazione degli abusi. Fuori nella piazza antistante la sala dell’incontro c’era una locandina con uno scritto che polemizzava con papa Ratzinger dicendo: Non servono belle parole ma fatti. Basta! Non insisto sul fatto che per i papi chiedere perdono significa auto assolversi ricordo però che in quella circostanza, pur riconoscendo il sacrosanto diritto delle vittime di pretendere giustizia e risarcimento, ho pensato che si doveva andare oltre al confronto scontro con le gerarchie vaticane: il problema era affrontare la mentalità religiosa, scoprire ciò che che alimentava le violenza sui minori.
Tulli nei suoi libri mi sembra abbia condiviso questa impostazione. Egli non approda solo a un anticlericalismo fortemente motivato e documentato ma propone attraverso il contributo di vari esperti una ricerca sulla psicopatologia della vita religiosa. Molto opportunamente il nostro autore allarga il discorso ad una riflessione sulla natura più profonda, irrazionale del cristianesimo nel cui ambito si colloca la pedofilia clericale. Nel cuore dell’esperienza religiosa c’è appunto la dimensione del sacro, del quale il sacerdote dovrebbe essere il soggetto mediatore privilegiato. Perché egli realizza un minus piuttosto che un plus e si comporta come un criminale comune od un malato di mente?
Ci si potrebbe chiedere cos’è il sacro. Mi limito ad alcune considerazioni seguendo la ricerca di Maria Gabriella Gatti nella prefazione del libro.
Il sacro, è stato detto da Mircea Eliade, una struttura fondamentale della coscienza umana e non solo un momento della sua storia. L’esperienza del sacro sarebbe indissolubilmente legata allo sforzo dell’uomo per costruire un mondo che abbia significato.. Che significato ha però un mondo in cui i preti, metà uomini e metà santi, violentano i bambini?
Il famoso teologo e antropologo Julien Ries, ha scritto che la comparsa dell’homo sapiens sul nostro pianeta coinciderebbe con quella dell”homo religiosus.
Il prendere coscienza di sé dell’uomo primitivo sarebbe stato subito il prendere coscienza di altro da sé, cioè della presenza di una potenza misteriosa ed invisibile nella realtà materiale. Questa sarebbe la struttura della coscienza. Essa avrebbe in sé stessa una vocazione religiosa per una qualità innata, antecedente ad ogni esperienza destinata a rimanere tale nel corso della storia.
L’Homo religiosus è fin dall’inizio alienato: non sa che la potenza che colloca nella natura altro non è che l’energia, la forza, (avrebbe detto Goethe nel Faust) della pulsione che si crea nei primi istanti della vita quando il pensiero emerge dalla realtà biologica.
Alla nascita il neonato non ha coscienza di sé ma è già in rapporto con il mondo ed è già una presenza umana.
La coscienza, quando diventa certezza di sé stessi è condannata a rimane religiosa solo se è scissa da ciò che non è cosciente ed annulla il fondamento irrazionale dell’identità tipica della nostra specie.
Rudof Otto, nel 1917 aveva definito il sacro come l’irrazionale nell’idea del divino. Sarebbe la presenza di Dio che suscita il terrore mistico, il sentimento del sublime , ineffabile ed irrazionale: non sarebbe l’irrazionale che crea Dio.
Non è Dio che crea l’uomo, ma l’uomo che crea l’idea di Dio aveva già affermato Feuerbach nell’”Essenza del Crisitianesimo” nel 1841: con la precisazione che è l’irrazionale, la pulsione di annullamento che crea l’idea di Dio e non solo la coscienza dei filosofi.
Dai libri di Tulli traspare in filigrana una nuova concezione del sacro.
Esso è un prodotto umano storico, culturale e istituzionale il cui fine è far fronte ad una crisi della presenza, al rischio di non esserci nel mondo. Il sacro è l’alienazione dell’irrazionale che è dentro di noi nell’idea del divino fuori di noi. Il divino diventa, nel Cristianesimo, il trascendente, l’assolutamente altro, il Gans ander. Ernesto De Martino in alcuni scritti editi postumi nel libro “Storia e metastoria” sosteneva che l’origine del sacro sia rintracciabile nel vissuto di sentirsi gettati inermi nel mondo con il rischio di essere travolti che Martin Heidegger riteneva una condizione originaria e chiamava Geworfenheit. Lo psichiatra dell’Analisi collettiva, Massimo Fagioli, ha tradotto il termine con “parto animale” legando il suo uso, nella filosofia di Heidegger, alla pulsione di annullamento. La Geworfenheit è il vissuto di chi non riesce più a ricreare la propria nascita e, avendola annullata, ha perso l’ identità umana irrazionale.
Il parto è ridotto allora ad una deiezione, ad un espulsione di materiale biologico come quella degli animali. La nascita umana è invece, per Fagioli, fantasia di sparizione che crea una realtà biologica e psichica nuova che gli animali non hanno.
La Geworfenheit in quanto annullamento di ciò che è specificamente umano, è il pericolo estremo che minaccia ed a cui si cerca di ovviare con la spiritualità astratta del sacro, una irrealtà fuori dal tempo e dalla storia.
Dopo questa premessa torniamo all’interrogativo del come e perché il prete diventa pedofilo.
Il concetto di sublimazione è stato utilizzato sia dalla psicoanalisi che dalla Chiesa cattolica. Esso si riferisce all’ipotesi psicoanalitica secondo la quale gli istinti sessuali, originariamente perversi verrebbero desessualizzati per scopi creativi e per obiettivi sociali. L’istinto sessuale, che essendo istinto sarebbe innato, andrebbe desessualizzato altrimenti saremmo del tutto uguali agli animali. Noi sappiamo invece che alla nascita non ci sono istinti ma neppure sessualità. «La sessualità è identità sessuale. Compare dopo che l’essere umano ha realizzato la propria nascita, svezzamento, visione dell’essere umano diverso, pubertà» (Fagioli).
Tutta la formazione del prete scorre sul binario privilegiato della sublimazione: si dovrebbe desessualizzare, delirantemente ciò che nell’uomo non esiste, l’istinto sessuale.
Questa idea, sconcertante, risulta chiaramente presente nell’enciclica Sacerdotalis caelibatus di Paolo VI (1967).
Il celibato, diceva il Papa nel suo pronunciamento è una fulgida gemma, strumento indispensabile per l’elevazione spirituale oltre l’istinto sessuale ed i desideri della carne (testuale). Il sacerdote deve affrontare una quotidiana morte a tutto se stesso per essere più vicino a Dio. Il suo è un olocausto cioè un sacrificio totale di sé. La solitudine, o meglio l’isolamento sacerdotale, non è il vuoto perché esso è riempito dall’imitazione di Cristo Il celibato e la castità, per Paolo VI, non distorcerebbe la personalità anzi contribuirebbe alla sua maturità e stabilità.
E a proposito della sublimazione afferma testualmente il Pontefice: «La scelta del celibato esige lucida comprensione (.), attento dominio di sé e sapiente sublimazione della propria psiche su un piano superiore».
Leggendo l’Enciclica ci si rende conto che i sacerdoti sono vittime e complici di una concezione antiumana: devono annullare se stessi, devono realizzare, ad imitazione di Cristo ” un essere per la morte” ed affrontare il vuoto e lo smarrimento, il vissuto della Geworfenheit che così si determina. Essi devono cancellare. la loro nascita, cioè la propria dimensione affettiva ed irrazionale. Devono diventare anaffettivi in tutto simili ai nazisti come Heidegger, lo schizofrenico autore di Essere e tempo e dei Quaderni Neri. La vita del sacerdote, deposta sull’altare, deve recare i segni dell’Olocausto, il sacrificio levitico del maschio senza difetto. L’uso del termine “Olocausto”, evoca lo spettro del totale annientamento fisico. Come se la rinuncia alla sessualità comportasse una tendenza a procurare una lesione del corpo, un attacco alla vitalità propria e altrui: è quello che i pedofili fanno.
Il concetto Freudiano di sublimazione adottato da Paolo VI e applicato alla formazione dei chierici può avere effetti devastanti.
Nel tentativo di sublimare, che poi è annullare la sessualità come identità,, la personalità intera si altera, aumenta il narcisismo e si ipertrofizza la coscienza. Ciò spiegherebbe lo sviluppo del cosiddetto narcisismo clericale, favorito dalla cultura della Chiesa, cioè la grandiosità, un senso ingigantito della propria importanza, lo sfruttamento degli altri, la negazione che sfiora il delirio e che può giungere fino all’affermazione di una diversità ontologica fra chierici e laici. Un razzismo elevato all’ennesima potenza grazie al sacramento dell’ordine che si somma a quello battesimale anch’esso generatore, secondo Bergoglio, di una diversità ontologica dei credenti rispetto ai non credenti. La sublimazione non è altro che una formazione reattiva, come quella dei santi talpa, cioè una difesa patologica cronica rispetto ad un impulso perverso .
Dalla formazione reattiva, dal narcisismo patologico al costituirsi di una falsa personalità , il passo è breve.. Il Sé pubblico si ipertrofizza mentre il sé privato cioè la sfera dell’intimità e della sessualità si atrofizza. Portato alle estreme conseguenze il processo sopra delineato determina una grave alterazione dell’equilibrio mentale.
Paolo VI nella sua enciclica si riferiva all’isolamento del prete e al suo vuoto affettivo: il sacerdote lo avrebbe dovuto riempire, con l’imitazione di Cristo cioè il sacro.. Il sacro ha un carattere ambivalente presentandosi come fascinans et tremendum, alter ed ater, cioè alterità radicale ed oscurità insieme.
Il sacerdote cerca Dio ma trova il male, la negazione ed il demonio. Trova la pulsione di annullamento al fondo del suo irrazionale alienato e corre il pericolo di impazzire. Nella sua vita compare lo spettro della catastrofe.
Il prete pedofilo vi fa fronte creando un proprio rituale masturbatorio che si contrappone a quello eucaristico diventato privo di senso., In esso egli perfidamente attira e lucidamente coinvolge le vittime: si mantiene così in bilico fra sé pubblico e privato. Il sostegno e la complicità del clericalismo laico, altro grande imputato, e delle gerarchie ecclesiastiche lo confermano nel suo ruolo di pastore: egli rimane apparentemente asintomatico mentre circoscrive il suo delirio alla sfera dei comportamenti masturbatori. Nell’ambito di un’intimità malata e violenta che egli impone alle vittime ha modo di manifestarsi la sua volontà di ledere la vitalità altrui. La segretezza, le raffinate strategie di occultamento sono in funzione di un vissuto di onnipotenza che le permea. Il sacerdote, che non si rassegni ad una religiosità routinaria e razionale, burocratica e di facciata è schiacciato nella relazione che cerca di stabilire con il sacro, da un ideale che gli viene imposto e che si è paranoicamente imposto.
Egli i rivolge allora ai bambini: solo in un rapporto totalmente asimmetrico , dove lui si pone come l’assolutamente altro, cioè un Dio o un demone malvagio, egli recupera una illusoria e transitoria sensazione di potenza. L’abuso sui minori diventa una droga. Essa esaurisce presto il suo effetto fino alla nuova dose in una spirale che si ferma solo con l’arresto. La pedofilia clericale ha quindi una sua caratteristica particolare che la distingue da altre forme di pedofilia Essa è un sintomo di una malattia in cui è coinvolto non solo il prete, ma anche l’intero apparato della Chiesa, nei suoi aspetti istituzionali e dottrinari. La Chiesa non può che cercare di occultare la realtà inquietante degli abusi, dietro dichiarazioni ufficiali che lasciano il tempo che trovano. Essa sa bene che il problema non è costituito dalle deviazioni sessuali di singoli soggetti ma è in discussione il suo intero modo di concepire la realtà umana e la sessualità. . La Chiesa società perfetta aspira a rimanere sempre la stessa, semper eadem ergendosi al di fuori del tempo e della storia. Il progetto di una immobilità assoluta, viene realizzato al prezzo di vite umane, sofferenze e torture indicibili. Tale sacrificio, per le gerarchie clericali, sembra non essere poi così importante. Importante è che l’immagine di Gesù e di Dio legati da un matrimonio mistico con la Chiesa, rifulga imperitura nei secoli dei secoli.
http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=59572&typeb=0
PADRI AMOREVOLI E CRUDELI ASSASSINI. Ecco come un padre “normale” diventa uno spietato assassino e uccide, senza pietà, i propri figli. Lo psicanalista: “La scienza psichiatrica non è quasi mai in grado di prevedere il realizzarsi di gesti omicidi”
di Nadia Francalacci, news.panorama.it, 24 giugno 2014
La normalità che si trasforma in follia omicida. Amorevoli padri di famiglia che impugnano un coltello e sgozzano i figli con i quali pochi istanti prima hanno mangiato in pizzeria, giocato e riso in cameretta con le macchinine o le costruzioni della Lego. Uomini che uccidono “con efferata crudeltà” ragazzi che hanno la stessa età dei propri figli. E nessuno di questi “soggetti” ha mai manifestato, in precedenza, nessuna forma di violenza o aggressività. Anzi. Chi conosce bene gli autori di questi delitti o stragi, a partire dai familiari, spesso sono i primi a rimanere sconvolti e sorpresi. Dunque chi sono realmente questi assassini? Sono ottimi attori tali da ingannare tutti compresi i familiari? Oppure folli dotati di una freddezza e una lucidità inimmaginabile?
Professor Raffaele Bracalenti, medico psicoterapeuta, Presidente Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali nessun vicino di casa avrebbe mai immaginato che il padre di Motta Visconti potesse realizzare una carneficina simile; molti dubbi e perplessità anche sulla personalità del presunto killer di Yara Gambirasio.
Come può un uomo nascondere così bene la propria aggressività?
Dopo tanti anni di ricerche e soprattutto dopo lo scritto di Hannah Arendet sulla banalità del male, si cerca ancora disperatamente di trovare la drammaticità del male nell’Altro, in colui che è sostanzialmente diverso. Qualcuno che si faccia carico di portare in maniera visibile e facilmente riconoscibile lo stigma della malattia e della violenza. Purtroppo coloro che mostrano in maniera evidente i segni del disagio psichico e che suscitano ancora troppa paura sociale, sono in realtà color che hanno perduto la loro battaglia: i veri vinti e sconfitti, e troppo spesso i più inermi. Vi sono, in qualche caso, nella storia di coloro che all’improvviso riempiono le pagine dei giornali per l’efferatezza e l’insensatezza dei propri crimini, elementi evidenti di una follia assassina che si va costruendo, come nel caso dell’omicida della strage sull’isola norvegese. E tuttavia nella maggioranza dei casi ci si sveglia all’improvviso scarafaggi, come nel caso di Gregor Sansa, senza che alcuno ne avesse potuto prevedere l’evenienza. E’ questo che rende la radice del male e questa sorta di lucida follia criminale ancor più misteriosa e perturbante.
Come è possibile che un uomo dopo aver ucciso possa far finta che nulla sia accaduto nascondendo le sue emozioni?
Freud parla di delinquenti per senso di colpa: persone che commettono un reato per poter finalmente ricevere la punizione che inconsciamente attendono. Così dopo il gesto vi è come un rilassamento, la sensazione di aver fatto ciò che potrà placare un angoscioso sentimento interiore di colpa. Aggiungerei qui la geniale lettura che ci offre Dostojevskij in Delitto e castigo. Raskolnikov compie un gesto assurdo, l’uccisione della vecchietta, per poter avere conferma dell’assoluta insensata sensatezza del mondo: tutto poi sarà come prima, e in un certo senso questo è vero, a livello sociale. Cosa vuole che cambi nel mondo. Un omicidio in più o in meno non trasforma certo il senso del mondo. Purtroppo, come per Raskolnikov, a livello individuale non è così. La vita di Raskolnikov, così come quella di colui che compie un simile gesto, sarà stravolta per sempre, e l’illusione della normalità non dura che poche ore.
Nel caso di Yara Gambirasio, il presunto killer ha tre figli di cui uno della stessa età della vittima. L’omicida crea nella propria mente un rapporto, un collegamento tra la vittima appena uccisa e i propri figli? Solitamente si crea una sorta di “traslazione” tra vittima e prole?
Sa, questa domanda può avere due tipi di lettura: la prima riguarda l’eventuale attrazione sessuale nei confronti dei propri figli- la dimensione incestuosa – che verrebbe esperita su altri bambini, che sarebbero chiamati, per così dire, a prendere il posto dei propri figli nel gioco sessuale: la psicoanalisi ci ha abituati a non scandalizzarci delle pulsioni incestuose, presenti in tutti. Ovviamente il non scandalizzarsi non vuol dire accettarne serenamente la messa in atto, anche quando non dovessero giungere a esiti così drammatici. Nessuna forma di violenza è naturalmente mai accettabile, e purtroppo troppo spesso i bambini sono oggetto di un vergognoso abuso sessuale. L’altra riguarda l’esistenza di una pulsione omicida, come nel caso di Motta Visconti, qui, però deviata dai propri figli e indirizzata all’esterno. Su questo punto posso dirle che la cultura greca ci ha abituati a pensare che l’origine del mondo inizi con un padre, Urano, che divora i figli, sin a quando saranno i figli a compiere il parricidio. Freud, in Totem e tabù, riprende, in una lettura a metà tra il mito e la scienza, l’ipotesi che a fondamento dell’organizzazione sociale vi sia la ribellione dei figli nei confronti del padre despota, che si organizzano per ucciderlo. Che, quindi, al fondo di ogni essere umano vi sia un Urano che divora i suoi figli, un Karamazov che sogna di uccidere il padre, una Medea che uccidi i figli, purtroppo non dovrebbe sorprende più di tanto. Il gioco delle identificazioni, poi, è ancora più complesso, poiché quel padre è a sua volta figlio, forse, chissà è stato vittima di violenza, reale o immaginaria. E’ ovvio che qui parliamo di dinamiche inconsce, profonde, che ancorché rintracciabili in tutti, e rintracciabili nei miti fondativi della nostra società, solo raramente si trasformano in atti concreti.
Quali possono essere gli atteggiamenti che permettono di decifrare un’aggressività latente che può trasformarsi in furia omicida?
Come ho detto prima trovo questa domanda pericolosa: vorrei evitare che qualsiasi persona si sentisse in grado di diagnosticare l’incipiente follia omicida nel proprio collega di lavoro o vicino di casa. Sappiamo bene quanto sia rischioso alimentare quelle che una volta si chiamavano psicosi collettive, in cui si era certi di aver scoperto il possibile omicida, pedofilo, rapitore di bambini, e a quali talvolta orrende azioni “preventive” quelle psicosi abbiano condotto. Troppo spesso i media prima alimentano la paura del mostro dietro casa, e poi pensano di ridurne l’effetto dando istruzioni per l’uso su come difendersi dal mostro o come riconoscerlo a prima vista. La scienza psichiatrica non è quasi mai in grado di prevedere il realizzarsi di gesti omicidi: questo, purtroppo, è un esercizio in cui falliscono fior di clinici con anni e anni di esperienza. Si figuri se è possibile dare la lista dei cinque o dieci atteggiamenti che tradiscono l’assassino che è in noi.
http://news.panorama.it/cronaca/yara-gambirasio-bossetti-guarinoni-motta-visconti?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+FeedDiTuttiICanaliDiPanoramait+(Panorama.it+-+Tutti+i+canali)
La normalità che si trasforma in follia omicida. Amorevoli padri di famiglia che impugnano un coltello e sgozzano i figli con i quali pochi istanti prima hanno mangiato in pizzeria, giocato e riso in cameretta con le macchinine o le costruzioni della Lego. Uomini che uccidono “con efferata crudeltà” ragazzi che hanno la stessa età dei propri figli. E nessuno di questi “soggetti” ha mai manifestato, in precedenza, nessuna forma di violenza o aggressività. Anzi. Chi conosce bene gli autori di questi delitti o stragi, a partire dai familiari, spesso sono i primi a rimanere sconvolti e sorpresi. Dunque chi sono realmente questi assassini? Sono ottimi attori tali da ingannare tutti compresi i familiari? Oppure folli dotati di una freddezza e una lucidità inimmaginabile?
Professor Raffaele Bracalenti, medico psicoterapeuta, Presidente Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali nessun vicino di casa avrebbe mai immaginato che il padre di Motta Visconti potesse realizzare una carneficina simile; molti dubbi e perplessità anche sulla personalità del presunto killer di Yara Gambirasio.
Come può un uomo nascondere così bene la propria aggressività?
Dopo tanti anni di ricerche e soprattutto dopo lo scritto di Hannah Arendet sulla banalità del male, si cerca ancora disperatamente di trovare la drammaticità del male nell’Altro, in colui che è sostanzialmente diverso. Qualcuno che si faccia carico di portare in maniera visibile e facilmente riconoscibile lo stigma della malattia e della violenza. Purtroppo coloro che mostrano in maniera evidente i segni del disagio psichico e che suscitano ancora troppa paura sociale, sono in realtà color che hanno perduto la loro battaglia: i veri vinti e sconfitti, e troppo spesso i più inermi. Vi sono, in qualche caso, nella storia di coloro che all’improvviso riempiono le pagine dei giornali per l’efferatezza e l’insensatezza dei propri crimini, elementi evidenti di una follia assassina che si va costruendo, come nel caso dell’omicida della strage sull’isola norvegese. E tuttavia nella maggioranza dei casi ci si sveglia all’improvviso scarafaggi, come nel caso di Gregor Sansa, senza che alcuno ne avesse potuto prevedere l’evenienza. E’ questo che rende la radice del male e questa sorta di lucida follia criminale ancor più misteriosa e perturbante.
Come è possibile che un uomo dopo aver ucciso possa far finta che nulla sia accaduto nascondendo le sue emozioni?
Freud parla di delinquenti per senso di colpa: persone che commettono un reato per poter finalmente ricevere la punizione che inconsciamente attendono. Così dopo il gesto vi è come un rilassamento, la sensazione di aver fatto ciò che potrà placare un angoscioso sentimento interiore di colpa. Aggiungerei qui la geniale lettura che ci offre Dostojevskij in Delitto e castigo. Raskolnikov compie un gesto assurdo, l’uccisione della vecchietta, per poter avere conferma dell’assoluta insensata sensatezza del mondo: tutto poi sarà come prima, e in un certo senso questo è vero, a livello sociale. Cosa vuole che cambi nel mondo. Un omicidio in più o in meno non trasforma certo il senso del mondo. Purtroppo, come per Raskolnikov, a livello individuale non è così. La vita di Raskolnikov, così come quella di colui che compie un simile gesto, sarà stravolta per sempre, e l’illusione della normalità non dura che poche ore.
Nel caso di Yara Gambirasio, il presunto killer ha tre figli di cui uno della stessa età della vittima. L’omicida crea nella propria mente un rapporto, un collegamento tra la vittima appena uccisa e i propri figli? Solitamente si crea una sorta di “traslazione” tra vittima e prole?
Sa, questa domanda può avere due tipi di lettura: la prima riguarda l’eventuale attrazione sessuale nei confronti dei propri figli- la dimensione incestuosa – che verrebbe esperita su altri bambini, che sarebbero chiamati, per così dire, a prendere il posto dei propri figli nel gioco sessuale: la psicoanalisi ci ha abituati a non scandalizzarci delle pulsioni incestuose, presenti in tutti. Ovviamente il non scandalizzarsi non vuol dire accettarne serenamente la messa in atto, anche quando non dovessero giungere a esiti così drammatici. Nessuna forma di violenza è naturalmente mai accettabile, e purtroppo troppo spesso i bambini sono oggetto di un vergognoso abuso sessuale. L’altra riguarda l’esistenza di una pulsione omicida, come nel caso di Motta Visconti, qui, però deviata dai propri figli e indirizzata all’esterno. Su questo punto posso dirle che la cultura greca ci ha abituati a pensare che l’origine del mondo inizi con un padre, Urano, che divora i figli, sin a quando saranno i figli a compiere il parricidio. Freud, in Totem e tabù, riprende, in una lettura a metà tra il mito e la scienza, l’ipotesi che a fondamento dell’organizzazione sociale vi sia la ribellione dei figli nei confronti del padre despota, che si organizzano per ucciderlo. Che, quindi, al fondo di ogni essere umano vi sia un Urano che divora i suoi figli, un Karamazov che sogna di uccidere il padre, una Medea che uccidi i figli, purtroppo non dovrebbe sorprende più di tanto. Il gioco delle identificazioni, poi, è ancora più complesso, poiché quel padre è a sua volta figlio, forse, chissà è stato vittima di violenza, reale o immaginaria. E’ ovvio che qui parliamo di dinamiche inconsce, profonde, che ancorché rintracciabili in tutti, e rintracciabili nei miti fondativi della nostra società, solo raramente si trasformano in atti concreti.
Quali possono essere gli atteggiamenti che permettono di decifrare un’aggressività latente che può trasformarsi in furia omicida?
Come ho detto prima trovo questa domanda pericolosa: vorrei evitare che qualsiasi persona si sentisse in grado di diagnosticare l’incipiente follia omicida nel proprio collega di lavoro o vicino di casa. Sappiamo bene quanto sia rischioso alimentare quelle che una volta si chiamavano psicosi collettive, in cui si era certi di aver scoperto il possibile omicida, pedofilo, rapitore di bambini, e a quali talvolta orrende azioni “preventive” quelle psicosi abbiano condotto. Troppo spesso i media prima alimentano la paura del mostro dietro casa, e poi pensano di ridurne l’effetto dando istruzioni per l’uso su come difendersi dal mostro o come riconoscerlo a prima vista. La scienza psichiatrica non è quasi mai in grado di prevedere il realizzarsi di gesti omicidi: questo, purtroppo, è un esercizio in cui falliscono fior di clinici con anni e anni di esperienza. Si figuri se è possibile dare la lista dei cinque o dieci atteggiamenti che tradiscono l’assassino che è in noi.
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VASCO PER TRE GIORNI ALL’OLIMPICO, SPIETATO COME GLI STONES: «SARANNO CONCERTI DURI»
di Marco Molendini, spettacoliecultura.ilmessaggero.it, 25 giugno 2014
Tempo di gladiatori rock: prima gli Stones al Circo Massimo, ora Vasco tre volte all’Olimpico. Casi della vita, visto che proprio i Rolling sono gli idoli storici del rocker di casa nostra. «Sono diventato quello che sono perché ci sono stati loro. Mi hanno insegnato ad usare la musica in modo provocatorio: se i Beatles rappresentavano l’apollineo, la bellezza delle forme, loro sono il dionisiaco, come me» racconta alla vigilia del debutto romano. E rivela d’aver incontrato Mick Jagger, «siamo amici e ci siamo fatti una chiacchierata».
Anche se non lo dice, sa che la sfida romana a distanza l’ha vinta lui, se non altro coi numeri. Quanto alla musica, la prova l’affronta stasera (bis domani e lunedì con 173 mila spettatori totali): «Un concerto spietato, dove non si scherza» lo definisce il Blasco, tirato a lucido, capelli rasati, l’aria sorridente. A Roma si trova bene: «Sono passato l’altro giorno da Villa Borghese e mi sono chiesto: ma perché non sono nato anch’io in questa città?». Promette: «Sarà un concerto durissimo, segna la mia svolta heavy. Nel rock è così, dopo un po’ si va verso l’heavy, è una evoluzione naturale. E poi ho un batterista spettacolare».
Il biondo Will Hunt degli Evanescence. È il primo segnale di un tour che ha come slogan il titolo dell’ultimo singolo, Cambiamenti.
«Ho grandi musicisti, difficilmente se ne trovano così. Siamo cresciuti nel tempo. Ricordo tanti anni fa, eravamo in viaggio e ci fermammo a un autogrill, avevamo l’aria da sbandati. Entrando dissi: Siamo gli Sbandau ballett. Qualcuno negli anni è rimasto a casa, sono quelli che non hanno tenuto il passo. È la spietata legge del rock. Non vado in giro per portare a spasso i miei amici. Siamo una banda, non una famiglia. Una banda di malviventi specializzati, c’è quello che sa scassinare, quello che guida la macchina».
Per fare sette stadi, tre a Roma e quattro a Milano, con 400 mila spettatori bisogna essere grandi comunicatori. E la nostra epoca predilige i supercomunicatori, dal papa a Renzi, del quale lei ha detto che “si muove bene” e, appunto, “che sa comunicare”.
«Noi siamo solo dei musicanti che propongono una serata di gioia. Una festa laica di comunicazione e liberazione. Una notte che non fa politica, però provoca le coscienze. Sono convinto che l’Italia abbia bisogno di una sterzata ma non siamo un partito, solo una tribù».
Con un capo riconosciuto.
«Dico cose che la gente ha dentro. Io aiuto solo a tirarle fuori perché condividiamo rabbie e debolezze. Certo, riempire l’Olimpico tre volte come non ha mai fatto nessuno è una bella soddisfazione. Vuol dire che posso tornare a Zocca a testa alta».
Lo sa, Vasco, che sono passati 50 anni dal suo primo successo: al concorso Ugola d’oro con la canzone Come nelle fiabe?
«L’aveva scritta il mio maestro di canto, Bonacini. Mi faceva fare tutti i giorni grandi vocalizzi, non so come ho fatto. Ma a 13 anni si fa in genere quello che ti dicono. Poi a 15… via. Il testo, molto bello, invece, era del proprietario di una boutique, Lorenzo Marengo. Ma allora ero ancora indeciso sul da farsi».
La strada del rock non era ancora aperta?
«Mi sarebbe piaciuto fare lo psicanalista, soprattutto per psicanalizzare me stesso. Ma mio padre voleva che facessi economia e commercio. Dopo due anni tornai da lui dicendo: vado a lavorare. Capì e mi iscrisse a psicologia. L’ho lasciata che mancavano sei esami: facevo già il dj».
Ed è andata alla grande.
«Ma sono uno che non s’accontenta mai. Amo le sfide. Come questo concerto. Avrei potuto rifare quello dell’anno scorso. Invece ho scelto una strada diversa, che parte da subito con uno schiaffo sonoro potente».
Sua madre la segue ogni tanto nei concerti?
«È venuta una volta a vedermi allo stadio, a Milano. S’è messa a piangere d’emozione vedendo tutta quella gente».
Vasco anche stavolta Albachiara chiuderà la serata. C’è un motivo?
«È così: una sera non l’ho suonata e la gente non andava via. Abbiamo dovuto farla e, da allora, per la tribù è il segnale che la festa è finita».
http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it/musica/vasco-rossi-concerti-olimpico-stones/764629.shtml
Tempo di gladiatori rock: prima gli Stones al Circo Massimo, ora Vasco tre volte all’Olimpico. Casi della vita, visto che proprio i Rolling sono gli idoli storici del rocker di casa nostra. «Sono diventato quello che sono perché ci sono stati loro. Mi hanno insegnato ad usare la musica in modo provocatorio: se i Beatles rappresentavano l’apollineo, la bellezza delle forme, loro sono il dionisiaco, come me» racconta alla vigilia del debutto romano. E rivela d’aver incontrato Mick Jagger, «siamo amici e ci siamo fatti una chiacchierata».
Anche se non lo dice, sa che la sfida romana a distanza l’ha vinta lui, se non altro coi numeri. Quanto alla musica, la prova l’affronta stasera (bis domani e lunedì con 173 mila spettatori totali): «Un concerto spietato, dove non si scherza» lo definisce il Blasco, tirato a lucido, capelli rasati, l’aria sorridente. A Roma si trova bene: «Sono passato l’altro giorno da Villa Borghese e mi sono chiesto: ma perché non sono nato anch’io in questa città?». Promette: «Sarà un concerto durissimo, segna la mia svolta heavy. Nel rock è così, dopo un po’ si va verso l’heavy, è una evoluzione naturale. E poi ho un batterista spettacolare».
Il biondo Will Hunt degli Evanescence. È il primo segnale di un tour che ha come slogan il titolo dell’ultimo singolo, Cambiamenti.
«Ho grandi musicisti, difficilmente se ne trovano così. Siamo cresciuti nel tempo. Ricordo tanti anni fa, eravamo in viaggio e ci fermammo a un autogrill, avevamo l’aria da sbandati. Entrando dissi: Siamo gli Sbandau ballett. Qualcuno negli anni è rimasto a casa, sono quelli che non hanno tenuto il passo. È la spietata legge del rock. Non vado in giro per portare a spasso i miei amici. Siamo una banda, non una famiglia. Una banda di malviventi specializzati, c’è quello che sa scassinare, quello che guida la macchina».
Per fare sette stadi, tre a Roma e quattro a Milano, con 400 mila spettatori bisogna essere grandi comunicatori. E la nostra epoca predilige i supercomunicatori, dal papa a Renzi, del quale lei ha detto che “si muove bene” e, appunto, “che sa comunicare”.
«Noi siamo solo dei musicanti che propongono una serata di gioia. Una festa laica di comunicazione e liberazione. Una notte che non fa politica, però provoca le coscienze. Sono convinto che l’Italia abbia bisogno di una sterzata ma non siamo un partito, solo una tribù».
Con un capo riconosciuto.
«Dico cose che la gente ha dentro. Io aiuto solo a tirarle fuori perché condividiamo rabbie e debolezze. Certo, riempire l’Olimpico tre volte come non ha mai fatto nessuno è una bella soddisfazione. Vuol dire che posso tornare a Zocca a testa alta».
Lo sa, Vasco, che sono passati 50 anni dal suo primo successo: al concorso Ugola d’oro con la canzone Come nelle fiabe?
«L’aveva scritta il mio maestro di canto, Bonacini. Mi faceva fare tutti i giorni grandi vocalizzi, non so come ho fatto. Ma a 13 anni si fa in genere quello che ti dicono. Poi a 15… via. Il testo, molto bello, invece, era del proprietario di una boutique, Lorenzo Marengo. Ma allora ero ancora indeciso sul da farsi».
La strada del rock non era ancora aperta?
«Mi sarebbe piaciuto fare lo psicanalista, soprattutto per psicanalizzare me stesso. Ma mio padre voleva che facessi economia e commercio. Dopo due anni tornai da lui dicendo: vado a lavorare. Capì e mi iscrisse a psicologia. L’ho lasciata che mancavano sei esami: facevo già il dj».
Ed è andata alla grande.
«Ma sono uno che non s’accontenta mai. Amo le sfide. Come questo concerto. Avrei potuto rifare quello dell’anno scorso. Invece ho scelto una strada diversa, che parte da subito con uno schiaffo sonoro potente».
Sua madre la segue ogni tanto nei concerti?
«È venuta una volta a vedermi allo stadio, a Milano. S’è messa a piangere d’emozione vedendo tutta quella gente».
Vasco anche stavolta Albachiara chiuderà la serata. C’è un motivo?
«È così: una sera non l’ho suonata e la gente non andava via. Abbiamo dovuto farla e, da allora, per la tribù è il segnale che la festa è finita».
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FOUCAULT, PASSIONE PER LA VERITÀ
di Silvano Petrosino, avvenire.it, 25 giugno 2014
Vi sono pensatori la cui opera dimostra una forza che supera di gran lunga il valore delle singole tesi interpretative ch’essi sostengono e difendono. Nel leggere i loro testi, nell’ascoltare le loro parole e nel seguire i loro ragionamenti si è presi all’interno di una riflessione, di uno stile o meglio di un respiro di pensiero, che è come se spiazzasse o distraesse dall’urgenza, in verità sempre un po’ puerile, di dover decidere ad ogni costo se dire “sì” o “no” a questa affermazione oppure a quell’altra. Viceversa vi sono dei pensatori con le cui tesi ci si trova sempre d’accordo, subito d’accordo, ma la cui opera, certamente condivisibile, ragionevole e “benpensata”, in verità delude, lascia indifferenti, togliendo talvolta persino la voglia di continuare a studiare. Nel leggere i testi dei primi, e in particolare nel rileggerli magari a distanza di venti o trent’anni, si impara sempre qualcosa di nuovo, non si finisce di imparare, e soprattutto si viene come sollecitati a pensare in proprio, raggiunti da delle “evidenze” così semplici e chiare che ci sorprende del fatto di non averle sapute cogliere prima. La “forza” dell’opera di simili pensatori coincide in verità con la loro “fecondità”: ci sono autori che fanno riflettere, che fecondano il pensiero, a volte sostenendo anche tesi strane, con le quali non ci si trova immediatamente d’accordo, così come ci sono autori che inibiscono il pensiero, che sterilizzano il pensiero, spesso sostenendo tesi ragionevoli con le quali non si riesce, verrebbe da dire per sfortuna, che ad essere d’accordo. In effetti pensare non ha mai significato dimostrare delle tesi, ed è proprio per questa ragione che l’opera di un vero pensatore ha un respiro, per l’appunto una fecondità, che va sempre al di là della fortuna o della sfortuna delle singole proposizioni ch’esso ha voluto e qualche volta creduto di dover sostenere.
Foucault è stato senza alcun dubbio un vero pensatore. Riferendosi a La storia della follia (1961) Jacques Derrida, che come è noto non ha certo risparmiato le critiche all’amico, ha riconosciuto che «qualunque cosa si pensi di questo libro, qualunque domanda o riserva possa ispirare ad alcuni su tale o tal’altro punto di vista, appare incontestabile che ha avuto la forza di tracciare un cammino» (Ogni volta unica, la fine del mondo, Jaca Book). Questo cammino resta ancora aperto e tutti coloro che avranno l’umiltà e la serietà di ripercorrerlo non ne resteranno certamente delusi. Che cosa rimane della lezione di Foucault a trent’anni della sua morte? A me sembra che siano essenzialmente due i grandi insegnamenti foucaultiani in grado di interrogare il nostro presente e di rilanciare ancora il nostro pensiero.
Vi è innanzitutto il tema del potere, ma più precisamente bisogna dire dello smascheramento del potere. Non è la verità ma il potere che ama nascondersi, ed esso si nasconde sotto quel senso dell’ovvio, del naturale, che finisce per far apparire tutto neutrale e di conseguenza inevitabile. Negli anni Settanta ed Ottanta la tematica del sospetto e dello smascheramento era di moda, e in quanto tale essa è giustamente passata; ma la cosiddetta fine delle ideologie si è portata con se anche la fine della critica all’ideologia come se oggi non ci fosse più nulla da smascherare, su cui interrogarsi. Ma se c’è qualcosa che è sempre all’opera, che è sempre di moda, è per l’appunto il potere, l’esercizio del potere, e Foucault ha magistralmente mostrato ch’esso agisce, non solo negli apparati politici e religiosi o nella burocrazia statale, ma anche nel sesso, nella follia e persino nella cura di sé. Contro ogni supposta “trasparenza originaria” il pensatore francese non si è stancato di mostrare che i codici fondamentali sui quali si fonda una determinata società «non sono forse i soli possibili o i migliori» (Le parole e le cose, Rizzoli). Questa lezione non può ma soprattutto non deve restare inascoltata.
In secondo luogo vi è il tema della verità, ma più precisamente bisogna dire dell’etica della verità. A tale riguardo ha perfettamente ragione Remo Bodei quando, nella sua introduzione al magnifico saggio sulla parresia (Discorso e verità, Donzelli, afferma: «Per Foucault la “verità” indubbiamente esiste, così come esiste il potere di condizionamento e quello di dominazione. Il problema, semmai, verte sui loro nessi di interdipendenza e sulle specifiche modalità del loro intreccio». D’altra parte – contro coloro che sono sempre pronti, allora come ora, ad accusare di relativismo o di scetticismo ogni pensiero che pone qualche domanda e osa interrogare ed interrogarsi – è lo stesso pensatore francese a chiarire nelle conclusioni di questo saggio il proprio intento: «La mia intenzione non era affrontare il problema della verità, ma il problema di colui che dice la verità, del dire la verità come attività». Grandissimo e magnifico tema: la verità come attività del dire, come inseparabile da colui che cerca-spera-desidera dirla. Verità, dunque, non assoluta, ma non perché relativa ma perché “non sola”.
Ecco perché a me sembra che si possa certamente applicare a Foucault ciò che Lacan afferma a proposito di altri pensatori: «Né Socrate, né Descartes, né Marx, né Freud, possono essere “superati” in quanto hanno condotto la loro ricerca con quella passione di svelare che ha un oggetto: la verità» (Scritti, Einaudi).
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/foucault-passione-per-la-verita.aspx
Vi sono pensatori la cui opera dimostra una forza che supera di gran lunga il valore delle singole tesi interpretative ch’essi sostengono e difendono. Nel leggere i loro testi, nell’ascoltare le loro parole e nel seguire i loro ragionamenti si è presi all’interno di una riflessione, di uno stile o meglio di un respiro di pensiero, che è come se spiazzasse o distraesse dall’urgenza, in verità sempre un po’ puerile, di dover decidere ad ogni costo se dire “sì” o “no” a questa affermazione oppure a quell’altra. Viceversa vi sono dei pensatori con le cui tesi ci si trova sempre d’accordo, subito d’accordo, ma la cui opera, certamente condivisibile, ragionevole e “benpensata”, in verità delude, lascia indifferenti, togliendo talvolta persino la voglia di continuare a studiare. Nel leggere i testi dei primi, e in particolare nel rileggerli magari a distanza di venti o trent’anni, si impara sempre qualcosa di nuovo, non si finisce di imparare, e soprattutto si viene come sollecitati a pensare in proprio, raggiunti da delle “evidenze” così semplici e chiare che ci sorprende del fatto di non averle sapute cogliere prima. La “forza” dell’opera di simili pensatori coincide in verità con la loro “fecondità”: ci sono autori che fanno riflettere, che fecondano il pensiero, a volte sostenendo anche tesi strane, con le quali non ci si trova immediatamente d’accordo, così come ci sono autori che inibiscono il pensiero, che sterilizzano il pensiero, spesso sostenendo tesi ragionevoli con le quali non si riesce, verrebbe da dire per sfortuna, che ad essere d’accordo. In effetti pensare non ha mai significato dimostrare delle tesi, ed è proprio per questa ragione che l’opera di un vero pensatore ha un respiro, per l’appunto una fecondità, che va sempre al di là della fortuna o della sfortuna delle singole proposizioni ch’esso ha voluto e qualche volta creduto di dover sostenere.
Foucault è stato senza alcun dubbio un vero pensatore. Riferendosi a La storia della follia (1961) Jacques Derrida, che come è noto non ha certo risparmiato le critiche all’amico, ha riconosciuto che «qualunque cosa si pensi di questo libro, qualunque domanda o riserva possa ispirare ad alcuni su tale o tal’altro punto di vista, appare incontestabile che ha avuto la forza di tracciare un cammino» (Ogni volta unica, la fine del mondo, Jaca Book). Questo cammino resta ancora aperto e tutti coloro che avranno l’umiltà e la serietà di ripercorrerlo non ne resteranno certamente delusi. Che cosa rimane della lezione di Foucault a trent’anni della sua morte? A me sembra che siano essenzialmente due i grandi insegnamenti foucaultiani in grado di interrogare il nostro presente e di rilanciare ancora il nostro pensiero.
Vi è innanzitutto il tema del potere, ma più precisamente bisogna dire dello smascheramento del potere. Non è la verità ma il potere che ama nascondersi, ed esso si nasconde sotto quel senso dell’ovvio, del naturale, che finisce per far apparire tutto neutrale e di conseguenza inevitabile. Negli anni Settanta ed Ottanta la tematica del sospetto e dello smascheramento era di moda, e in quanto tale essa è giustamente passata; ma la cosiddetta fine delle ideologie si è portata con se anche la fine della critica all’ideologia come se oggi non ci fosse più nulla da smascherare, su cui interrogarsi. Ma se c’è qualcosa che è sempre all’opera, che è sempre di moda, è per l’appunto il potere, l’esercizio del potere, e Foucault ha magistralmente mostrato ch’esso agisce, non solo negli apparati politici e religiosi o nella burocrazia statale, ma anche nel sesso, nella follia e persino nella cura di sé. Contro ogni supposta “trasparenza originaria” il pensatore francese non si è stancato di mostrare che i codici fondamentali sui quali si fonda una determinata società «non sono forse i soli possibili o i migliori» (Le parole e le cose, Rizzoli). Questa lezione non può ma soprattutto non deve restare inascoltata.
In secondo luogo vi è il tema della verità, ma più precisamente bisogna dire dell’etica della verità. A tale riguardo ha perfettamente ragione Remo Bodei quando, nella sua introduzione al magnifico saggio sulla parresia (Discorso e verità, Donzelli, afferma: «Per Foucault la “verità” indubbiamente esiste, così come esiste il potere di condizionamento e quello di dominazione. Il problema, semmai, verte sui loro nessi di interdipendenza e sulle specifiche modalità del loro intreccio». D’altra parte – contro coloro che sono sempre pronti, allora come ora, ad accusare di relativismo o di scetticismo ogni pensiero che pone qualche domanda e osa interrogare ed interrogarsi – è lo stesso pensatore francese a chiarire nelle conclusioni di questo saggio il proprio intento: «La mia intenzione non era affrontare il problema della verità, ma il problema di colui che dice la verità, del dire la verità come attività». Grandissimo e magnifico tema: la verità come attività del dire, come inseparabile da colui che cerca-spera-desidera dirla. Verità, dunque, non assoluta, ma non perché relativa ma perché “non sola”.
Ecco perché a me sembra che si possa certamente applicare a Foucault ciò che Lacan afferma a proposito di altri pensatori: «Né Socrate, né Descartes, né Marx, né Freud, possono essere “superati” in quanto hanno condotto la loro ricerca con quella passione di svelare che ha un oggetto: la verità» (Scritti, Einaudi).
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/foucault-passione-per-la-verita.aspx
SUÁREZ, IL GHIGNO CHE CI MANCA. È lui il mio uomo, il mio tipo. Pagherei per andare a cena col suo psicoanalista. Ma la nostra figaggine stanca è stata rottamata. Suárez è precisamente il contrario del panorama umano vittimista dell’italianità (video in basso)
di Giuliano Ferrara, ilfoglio.it, 25 giugno 2014
Va bene, s’è capito, l’Italia non era in forma, non era abbastanza patriottica, non aveva il fuoco nella pancia, e la sua classe brillante, la sua figaggine andava ed è stata rottamata. Ce l’aveva fatta col fair play degli inglesi, che ci hanno preceduto di una spanna all’inferno dei beneducati, e poi uno sconquasso di debolezza, neghittosità, maniere buonine e vittimismo a schiovere. Perfino con il Costa Rica. Ma Suárez?
Non lo conoscevo, non avevo mai seguito le sue gesta nel campionato inglese, ma appena l’ho visto mi sono detto: è il mio uomo, il mio tipo, ha un sorriso diabolico, una facies lombrosiana da avanzo di galera, una capacità bestiale e balorda di trattare la palla dopo averla agganciata, e di tirarla. Il morso, poi, la sua premeditazione, il suo arrivo da dietro, senza farsi scoprire, una specie di delirante dietro-le-quinte, è stato monumentale. Volete che esca dai Mondiali, e per un pareggio, una squadra che ha nel suo seno il talento e la sguaiataggine, la violenta volontà di potenza, di un uomo così? Fuori dai Mondiali un paese che vuole liberalizzare la droga, il cui presidente ex montonero vive lontano dalla capitale e coltiva l’orzo e recita da nonno della Repubblica in un trionfo di sinistra nel suo Dopoguerra di guerriglia? Il cipiglio di Suárez mi è estraneo, preferisco le geometrie anche stanche di un Pirlo e l’accomandita calcistica della mia famiglia nazionale, l’accademia degli eleganti. Non sopporto i processi postumi, siamo sempre convinti che l’Italia non è degna di vincere e quando vince gridiamo al miracolo (vi ricordate il grande saggio di Vittorio Sermonti sul Mundial che vincemmo dopo performance, sul campo e nei giornali e al bar sport, da oratorio di periferia?).
Il ghigno di Suárez è precisamente quello che manca, morsi ed eventuali squalifiche a parte, al panorama umano dell’italianità.
Dobbiamo esserne fieri? Dobbiamo censurare negli altri quel che manca a noi? Non lo so. Forse è troppo. Ma quell’aria da bambino di Balotelli e quei giri di frase narrativi di Pirlo, comprese le geometrie da fermo, sono precisamente il quid di cui disponiamo e insieme il quid che ci manca. Non solo sui campi di calcio. Ci vuole del talento a essere così figli di puttana. Darei molto denaro per stare a tavola con lo psicoanalista del morsicatore, l’uomo che ha tentato di trasformarlo in paziente. E quel talento lì, quella sfacciataggine che va dalla presa di Suárez sull’incolpevole Chiellini, fino alla simulazione del mal di denti da fallo subito, e che è paragonabile soltanto al celebre gol di pugno di Maradona, ecco, quello e quella non ce l’abbiamo. Mi spiace.
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/118494/rubriche/brasile-2014-suarez-italia-uruguay.htm
Va bene, s’è capito, l’Italia non era in forma, non era abbastanza patriottica, non aveva il fuoco nella pancia, e la sua classe brillante, la sua figaggine andava ed è stata rottamata. Ce l’aveva fatta col fair play degli inglesi, che ci hanno preceduto di una spanna all’inferno dei beneducati, e poi uno sconquasso di debolezza, neghittosità, maniere buonine e vittimismo a schiovere. Perfino con il Costa Rica. Ma Suárez?
Non lo conoscevo, non avevo mai seguito le sue gesta nel campionato inglese, ma appena l’ho visto mi sono detto: è il mio uomo, il mio tipo, ha un sorriso diabolico, una facies lombrosiana da avanzo di galera, una capacità bestiale e balorda di trattare la palla dopo averla agganciata, e di tirarla. Il morso, poi, la sua premeditazione, il suo arrivo da dietro, senza farsi scoprire, una specie di delirante dietro-le-quinte, è stato monumentale. Volete che esca dai Mondiali, e per un pareggio, una squadra che ha nel suo seno il talento e la sguaiataggine, la violenta volontà di potenza, di un uomo così? Fuori dai Mondiali un paese che vuole liberalizzare la droga, il cui presidente ex montonero vive lontano dalla capitale e coltiva l’orzo e recita da nonno della Repubblica in un trionfo di sinistra nel suo Dopoguerra di guerriglia? Il cipiglio di Suárez mi è estraneo, preferisco le geometrie anche stanche di un Pirlo e l’accomandita calcistica della mia famiglia nazionale, l’accademia degli eleganti. Non sopporto i processi postumi, siamo sempre convinti che l’Italia non è degna di vincere e quando vince gridiamo al miracolo (vi ricordate il grande saggio di Vittorio Sermonti sul Mundial che vincemmo dopo performance, sul campo e nei giornali e al bar sport, da oratorio di periferia?).
Il ghigno di Suárez è precisamente quello che manca, morsi ed eventuali squalifiche a parte, al panorama umano dell’italianità.
Dobbiamo esserne fieri? Dobbiamo censurare negli altri quel che manca a noi? Non lo so. Forse è troppo. Ma quell’aria da bambino di Balotelli e quei giri di frase narrativi di Pirlo, comprese le geometrie da fermo, sono precisamente il quid di cui disponiamo e insieme il quid che ci manca. Non solo sui campi di calcio. Ci vuole del talento a essere così figli di puttana. Darei molto denaro per stare a tavola con lo psicoanalista del morsicatore, l’uomo che ha tentato di trasformarlo in paziente. E quel talento lì, quella sfacciataggine che va dalla presa di Suárez sull’incolpevole Chiellini, fino alla simulazione del mal di denti da fallo subito, e che è paragonabile soltanto al celebre gol di pugno di Maradona, ecco, quello e quella non ce l’abbiamo. Mi spiace.
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/118494/rubriche/brasile-2014-suarez-italia-uruguay.htm
SE CARO L’ERMO COLLE NON È
di Paola Tournour-Viron, ttgitalia.com, 26 giugno 2014
La diatriba recentemente esplosa circa l’opportunità – o l’insensatezza? – di realizzare un resort turistico sull’ermo colle di leopardiana concezione è metafora di quell’ampia fetta di Italia ancora tenacemente avvinghiata a un’idea di destination management fondato sulla trascuratezza della Memoria. E pensare che, statisticamente, gli ospiti stranieri pongono l’incolumità della stessa in vetta ai propri desiderata. Prima ancora del wifi gratuito e dell’efficienza dei trasporti chiedono infatti all’Italia di restare fedele alle proprie tradizioni e a se stessa.
Invitato a un premio letterario nelle Langhe, Martin Amis, una delle più influenti voci della letteratura inglese, ha dichiarato: “Vengo volentieri in Italia: sembra di entrare in un quadro”. Tutto questo mentre i giapponesi invadono l’Abruzzo sull’onda delle meraviglie narrate nel best seller nipponico di Yasuko Ishikawa, i nordamericani chiedono di atterrare in aeroporti circonfusi di arie operistiche nostrane e Alma Tv, primo canale web sulla lingua italiana, ci ricorda che nel mondo esiste una vasta galassia di cultori dell’italianità cui si aggiunge circa un milione e mezzo di persone – la metà delle quali sotto i 18 anni – impegnate nello studio del dantesco idioma. Un bacino di potenziali testimonial e utenti inspiegabilmente trascurato, in nome di uno sviluppo teso più alla distruzione che alla creazione di quel “Prodotto Italia” dalla personalità coerente e fiera vagheggiato dagli stranieri.
Chissà cosa ne direbbe Laurent Petit, psicologo urbano fondatore dell’Anpu (Agenzia Nazionale di Psicanalisi Urbana), mai stanco di rimarcare che “anche i luoghi hanno un subconscio”, con tanto di “albero mitogenealogico fatto di santi patroni, antenati di fama, celebrities del momento, fiumi o montagne”. Retaggi talvolta ingombranti, che è tuttavia indispensabile imparare a gestire, cavandone il meglio, proprio come vuole la psicanalisi.
Da buon analista, il dottor Petit sa bene che all’Italia occorrerebbe una pesante terapia. “Aspettiamo – ha dichiarato in una recente intervista – che qualche coraggioso ci interpelli”. Nel frattempo, all’indomani dell’inserimento di Langhe-Roero e Monferrato nel Patrimonio Unesco, proviamo ad azzardare almeno un’autoanalisi. Magari sfruttando l’indicazione di un luminare come Carl Gustav Jung, secondo il quale “sarebbe necessario insegnare all’uomo l’arte di vedere”. Possibilmente, spingendo lo sguardo oltre la siepe, verso l’ultimo orizzonte. Leopardi ce ne sarebbe Infinitamente grato.
http://www.ttgitalia.com/stories/viaggi_di_marketing/99064_se_caro_lermo_colle_non/
La diatriba recentemente esplosa circa l’opportunità – o l’insensatezza? – di realizzare un resort turistico sull’ermo colle di leopardiana concezione è metafora di quell’ampia fetta di Italia ancora tenacemente avvinghiata a un’idea di destination management fondato sulla trascuratezza della Memoria. E pensare che, statisticamente, gli ospiti stranieri pongono l’incolumità della stessa in vetta ai propri desiderata. Prima ancora del wifi gratuito e dell’efficienza dei trasporti chiedono infatti all’Italia di restare fedele alle proprie tradizioni e a se stessa.
Invitato a un premio letterario nelle Langhe, Martin Amis, una delle più influenti voci della letteratura inglese, ha dichiarato: “Vengo volentieri in Italia: sembra di entrare in un quadro”. Tutto questo mentre i giapponesi invadono l’Abruzzo sull’onda delle meraviglie narrate nel best seller nipponico di Yasuko Ishikawa, i nordamericani chiedono di atterrare in aeroporti circonfusi di arie operistiche nostrane e Alma Tv, primo canale web sulla lingua italiana, ci ricorda che nel mondo esiste una vasta galassia di cultori dell’italianità cui si aggiunge circa un milione e mezzo di persone – la metà delle quali sotto i 18 anni – impegnate nello studio del dantesco idioma. Un bacino di potenziali testimonial e utenti inspiegabilmente trascurato, in nome di uno sviluppo teso più alla distruzione che alla creazione di quel “Prodotto Italia” dalla personalità coerente e fiera vagheggiato dagli stranieri.
Chissà cosa ne direbbe Laurent Petit, psicologo urbano fondatore dell’Anpu (Agenzia Nazionale di Psicanalisi Urbana), mai stanco di rimarcare che “anche i luoghi hanno un subconscio”, con tanto di “albero mitogenealogico fatto di santi patroni, antenati di fama, celebrities del momento, fiumi o montagne”. Retaggi talvolta ingombranti, che è tuttavia indispensabile imparare a gestire, cavandone il meglio, proprio come vuole la psicanalisi.
Da buon analista, il dottor Petit sa bene che all’Italia occorrerebbe una pesante terapia. “Aspettiamo – ha dichiarato in una recente intervista – che qualche coraggioso ci interpelli”. Nel frattempo, all’indomani dell’inserimento di Langhe-Roero e Monferrato nel Patrimonio Unesco, proviamo ad azzardare almeno un’autoanalisi. Magari sfruttando l’indicazione di un luminare come Carl Gustav Jung, secondo il quale “sarebbe necessario insegnare all’uomo l’arte di vedere”. Possibilmente, spingendo lo sguardo oltre la siepe, verso l’ultimo orizzonte. Leopardi ce ne sarebbe Infinitamente grato.
http://www.ttgitalia.com/stories/viaggi_di_marketing/99064_se_caro_lermo_colle_non/
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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