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Grande capo indiano, quanti psicologi ci vogliono per curare il disagio della civiltà?

12 Lug 14

A cura di Luigi D'Elia


 
Qualcuno si è mai preoccupato di verificare il rapporto che intercorre tra la demografia delle diverse professioni e le problematiche sociali che dovrebbero, da queste, essere risolte o quanto meno attutite?
 
Quale rapporto esiste tra il numero di avvocati e giudici e la giustizia di una nazione? Tra il numero di medici, infermieri e la domanda relativa alla salute di un paese? Tra il numero di psichiatri, psicologi e la salute mentale di un popolo? E ancora, tra il numero di giornalisti e l’informazione libera e di qualità?
 
Semmai una ricerca del genere fosse stata già svolta, o si volesse svolgere, temo proprio che infrangerebbe molte delle nostre ingenue considerazioni che, normalmente, saremmo portati a fare correlando domanda e offerta di un dato servizio, bisogno o emergenza sociale in una proporzione equilibrata, o quanto meno coerente con flussi corrispondenti. Tipo: maggiore giustizia, molti avvocati; maggiore salute, più medici, e così via.
 
No, probabilmente temo che scopriremmo qualcos’altro, e cioè che non c’è una correlazione coerente (o comunque non sempre coerente) tra demografia di una certa attività e problematica ad essa relativa nel corso del tempo. Anzi, che in certi casi il rapporto tra un’attività e la problematica ad essa connessa è inversamente proporzionale, come dimostrato dal filosofo Ivan Illich riguardo la medicina nel suo noto (per me leggendario) testo “Nemesi Medica” e perfettamente espresso nel suo concetto di iatrogenesi. Come accade in certe zone del sud Italia, dove il numero di incendi aumenta con il numero di agenti forestali o, ancora, laddove la burocrazia diviene più macchinosa in seguito all’aumento di impiegati degli enti locali.
 
E allora, come funziona la faccenda? Beh, a mio parere funziona più o meno come la nota barzelletta dell’indiano e dell’inverno freddo, freddo, freddo. Vale a dire, che il rapporto tra domanda e offerta è talora dipendente da fattori estrinseci e indiretti: può accadere, ad esempio, che sia l’offerta a determinare l’aumento della domanda anche riguardo i bisogni essenziali, e non viceversa. Una sorta di escalation, sconnessa dalla realtà di quello specifico problema/bisogno, che riguarda invece bisogni altri, legati più ad equilibri e assestamenti sociali che ben poco hanno a che fare con l’oggetto di lavoro di quella data professione, anzi che a volte la riguardano in maniera inversa e paradossale (come nel caso della iatrogenesi appena citata). Bisogni altri spesso collegati, ad esempio, ad esigenze ed equilibri connessi a necessità di sopravvivenza di quella specifica popolazione professionale.
 
Ma, senza incorrere nell’ingenuità opposta e contraria di pensare che basti diminuire il numero di lavoratori di un dato settore per diminuire le problematiche di cui essi si occupano, cosa ne possiamo dedurre da tutto ciò?
 
Come ripensare, cioè, in maniera realistica al rapporto tra demografia di un dato mestiere e problema/bisogno sociale ad esso connesso in società complesse come la nostra?
 
Ebbene, per tentare di abbozzare una prima approssimativa risposta a questa difficile domanda, mi riferirò al nostro campo – la salute psicologica – che, come emerge da questi ultimi dati sulla salute mentale in Italia, sembra essere peggiorata a seguito della crisi con un notevole incremento anche del consumo di psicofarmaci.
 
Se, ad esempio, rapportiamo questo dato all’aumento vertiginoso, avvenuto negli ultimi 15-20 anni nel territorio nazionale, sia del numero degli iscritti ai corsi di laurea in psicologia che degli iscritti agli albi regionali (oramai siamo sui 90.000), scopriremmo, anche qui, non proprio un rapporto inverso, ma certamente, quantomeno, una mancata correlazione positiva tra aumento di psicologi e aumento di salute psicologica.
Al netto dell’annoso ed evidente mancato utilizzo pubblico, o drammatico sottoutilizzo delle professionalità psicologiche, a cui ci si potrebbe legittimamente appellare, il dato rimane comunque eloquente in sé.
 
Analoga considerazione potremmo fare sulla psichiatria, non a proposito dell’incremento demografico, bensì riguardo il perfezionamento/evoluzione dei suoi interventi, della farmacoterapia, degli interventi territoriali e di tutte le forme di terapie mediche sulla psiche in relazione all’incidenza epidemiologica delle diverse psicopatologie.
 
Insomma, ne dovremmo dedurre che di certo, nel complesso, psichiatria e psicoterapia non hanno inciso molto, se non per niente, sullo stato della salute mentale delle popolazioni.
Chi si volesse divertire a dare un’occhiata ai dati, basta che si faccia un giro su questo interessante sito che compara l’incidenza delle patologie (comprese quelle mentali) in tutto il mondo per comprendere che le logiche che distribuiscono qui e lì i numeri di professionisti e operatori non sono assolutamente afferrabili e congrue.
 
Ed allora quale senso conferire alle nostre professioni di cura se poi la cura si diluisce come una goccia in un oceano?
 
Appare evidente, almeno al sottoscritto, che la proliferazione di professionisti in questo settore non rappresenta in alcun modo una risposta al disagio psichico ma, casomai, ne sia piuttosto una sorta di indicatore sintomatico; quella demografia non risponde cioè, se non marginalmente, alle ragioni profonde di tale disagio, ma si limita ad affiancarsi ad esso. E in questo affiancamento esaurisce il suo scopo sociale. Ne dobbiamo ancora dedurre che l’ininfluenza di questa professione per le sorti della salute mentale è massima.
 
Identico discorso potremmo, probabilmente, fare per ogni altra professione.
 
 
100 anni di psicoterapia. E il mondo… a che punto sta?
 
Parafrasando il noto libro di Hillman, scendiamo ancora nel dettaglio ed esaminiamo, in estrema sintesi, quanto accade al variegato mondo delle psicoterapie.
 
Che la psicoterapia sia un metodo efficace tanto da essere in grado di modificare significativamente il cervello è ormai cosa arcinota a clinici e ricercatori. Ma qual è lo stato dell’arte di questa disciplina? Lungi dal tentare una meta-meta-analisi in mezza paginetta, mi limito a riportare una sintesi dei dati di ricerca più significativi emersi nelle ultime quattro decadi che ci consentono di avere una visione netta ed eloquente di tale stato dell’arte.
 
Cominciamo con il dire che secondo Norcross & Newman esistono circa 450 modelli di psicoterapia diversi (Psychotherapy integration: Setting the context, in J.C. NORCROSS & M. R. GOLDFRIED Eds., 1992, in Handbook of psychotherapy integration, pp. 3–45, New York, NY: Basic Books).
Probabile che dal 1992 questo numero sia anche aumentato, numero che curiosamente corrisponde all’incirca a quello, folle ed esorbitante, delle sedi accreditate delle scuole di psicoterapia in Italia. Esiste insomma una smisurata varietà di modi di essere psicoterapeuta che a tutto farebbe pensare fuorché ad una attendibilità scientifica di questo genere di intervento sulla salute mentale o, come vorrebbe qualcuno, ad una ricchezza metodologica. Si staglia, invece con forza, nelle nostre menti, l’immagine di una babele piuttosto confusa di voci contrastanti che dipendono da ben altri fattori.
 
Di contro, è dal lontano 1975 (Luborsky L., Singer B. & Luborsky L., 1975, Comparative studies of psychotherapies, Archives of General Psychiatry, 32, 995–1008), risultato confermato in numerose ricerche successive, che i ricercatori e clinici più onesti e avveduti in psicoterapia, sanno bene del verdetto di Dodo (tratto da Alice nel paese delle meraviglie), o paradosso dell’equivalenza, che recita “Tutti hanno vinto e tutti meritano un premio”; ovverosia, esiste, a ben vedere, una sostanziale equivalenza tra efficacia di esito tra i diversi modelli. E nonostante i tentativi di dimostrare il contrario portando acqua al proprio mulino da parte delle singole cordate di psicoterapeuti, e ancora i numerosi tentativi di assemblaggio, ricombinazione, revisione integrativa di questa babele di modelli, emerge di fatto un quadro dal quale risulta chiaramente che i fattori efficienti di questo intervento (vedi elenco successivo) sono ancora in buona parte indeterminabili, extraterapeutici e soprattutto extramodellistici, mentre sull’influenza combinata dei vari fattori le ricerche sono ancora in progress.
 
  
Guardiamo ad esempio questo significativo elenco di variabili essenziali che determinano l’esito in psicoterapia tratto da una importante e recente ricerca (Norcross, 2011, Psychotherapy relationship that work: evidence-based responsiveness, Oxford University Press, Trad. it., Quando la relazione psicoterapeutica funziona… Ricerche scientifiche a prova di evidenza, Sovera Edizioni, Roma, 2012):
  1. Interazione 3%
  2. Personalità del terapeuta 7%
  3. Tecniche specifiche 8%
  4. Relazione terapeutica 12%
  5. Contributo del cliente 30%
  6. Varianza non spiegata (Fattori extraterapeutici) 40%
 

Ricapitolando a grandi linee (e semplificando molto):
1.       i modelli sono innumerevoli,
2.       sembrerebbero tutti sostanzialmente equivalenti riguardo agli esiti,
3.   i fattori efficaci sono ancora in gran parte sconosciuti pur cominciando ad intravederne il complesso meccanismo ed intreccio.
 
Cosa ne possiamo dedurre da tutto ciò?
Personalmente ne deduco che la psicoterapia nel suo complesso pur dimostrando empiricamente la propria efficacia, ancora non sa bene perché lo è. Essa è una modalità di prendersi cura del disagio psichico ancora molto lontana dalla propria cifra essenziale e, nel proliferare di modelli avvenuto nel primo secolo della sua breve vita, appare come una raccolta infinita di “narrazioni curanti” piuttosto che come una cura strictu sensu; un racconto della cura e non di per sé la cura. La cura, quando avviene (ed avviene), risiede piuttosto nel fortunato incontro tra le persone e i loro variegati "dispositivi". Dispositivi antropologicamente determinati di volta in volta dal contesto culturale di riferimento e legati a quel particolare momento storico e a quel particolare incontro. La tendenza nefasta degli addetti ai lavori ad ipostatizzare tali racconti trasformandoli in realtà oggettivabili è poi la ciliegina sulla torta. Confondere nuvole concettuali, per quanto contingentemente efficaci, con l’efficacia in sé è la particolare tracotanza di psicologi e psichiatri che, quella sì, è ben lungi dall’essere curata.

I vari racconti che hanno fatto le “n” psicoterapie diverse (450 e passa), fino ad oggi, altro non sono che un tentativo maldestro, parziale, schematico e riduttivistico di mettere nero su bianco quello strano e fortunato incontro, che sì funziona (detto alla Feyerabend), che sì è veicolato da quel particolare racconto in quel particolare momento storico-culturale, da quella particolare tecnica, da quella particolare personalità terapeutica, ma che è ben lungi da una integrazione operabile laboratoristicamente con modalità di assemblaggio postmodernista, come appare in certi recenti tentativi, pur in parte condivisibili, di questi ultimi anni.

Non è ossessivizzandosi sulle proprie tecniche e non è nemmeno concentrandosi sulla misurabilità dei propri modelli (come se un modello si potesse mai misurare) che a mio parere la psicoterapia può cogliere la propria essenza antropologica e la propria intrinseca efficacia. Bensì piuttosto provando a cogliere i piani di sovrapposizione variabili e cangianti che si realizzano tra i contesti socio-antropologici degli attori della scena, i sistemi curanti, le metodologie, la comprensione degli specifici disagi, le politiche di intervento e le possibilità di risposte resilienti dei portatori di domanda di cura, i cosiddetti pazienti.
 
Torniamo quindi al discorso iniziale e proviamo ora ad argomentare meglio, alla luce di quanto esposto riguardo il nostro settore, l’ipotesi da me declinata e relativa al rapporto tra demografia professionale e risposta al bisogno sociale come forma di affiancamento a quel bisogno, piuttosto che come risposta esaustiva vera e propria.
I dati della salute mentale relativi alla crisi, sopra citati, ed in generale dell’assetto stesso della civiltà occidentale, ce lo confermano: l’aumento del numero di addetti ai lavori di un settore non è essenzialmente segno del miglioramento di qualità di vita che quella professione contribuisce ad aumentare, quanto piuttosto evento sintomatico che il disagio in quel dato settore della vita produce. Disagio che genera una domanda indifferenziata e confusa di cui quegli addetti ai lavori si assumono in qualche modo un ruolo di prima linea, di avanguardia potenzialmente esperta.

Ma, essendo disfunzionale l’organizzazione di vita della nostra civiltà nelle sue fondamenta, risulta di fatto impossibile, per tale prima linea, operare a valle di problemi che sono stati prodotti a monte, per cui si limita ad affiancarsi variabilmente a tali problemi e a ridurre, laddove possibile, il danno, se non in talune derive addirittura a produrlo o cronicizzarlo per autosopravvivienza.
 
 
(Ringrazio la Dr.ssa Miriam Columbro per l’assistenza bibliografica e per la lettura della sua bellissima ed illuminante tesi di laurea)

 

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