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Guarigione, equilibro ed ordine pubblico. La difficile arte di mediare con la medicina

10 Lug 14

A cura di info_1

Il confronto tra psicoanalisi e mondo della medicina, è proficuo laddove la clinica riesce a fungere da ponte tra due mondi solo all’apparenza lontani. Guarigione è un termine che quotidianamente un centro di psicoanalisi applicata deve saper rimodulare, contrattandone l sfumature con il medico che ha come obbiettivo la remissione del sintomo. Ecco due esempi di compensazione che il soggetto trova itilizzando una modalità sintomatica che non può del tutto essere guarita, quanto tenuta sotto controllo come elemento regolatore dell’individuo.
 
 
Vedo Blanca all’età di 17 anni su richiesta della madre per uno scompenso. Nel corso di una gita si apparta con un coetaneo e viene ritrovata la mattina dopo, confusa e disorientata. Tornata a casa piomba in un mutismo profondo accompagnato da un drastico ritiro sociale. Sopravvengono allucinazioni serali: morti che la reclamano, animali con sembianze umane. La madre contatta la struttura di salute mentale con la quale il mio centro di psicoanalisi collabora, e lo psichiatra ordina un TSO[1].  Dopo venti giorni esce dall’ospedale sedata, con una diagnosi di schizofrenia e un piano di reinserimento che prevede un lavoro guidato in biblioteca, che lei rifiuta.  ‘L’ho portata da lei perché la convinca che ciò che vede sono bugie, e la spinga ad accettare il lavoro’ dice la madre. Circoscrivo uno spazio lontano dalla struttura e dalla madre, la ricevo da sola chiedendole cosa abbia da dire. Sostiene che le visioni sono angoscianti, ma non  possono nuocerle poiché di giorno scompaiono. In questo modo dunque  lei sa che non sono reali. Grazie a questo meccanismo di controllo le gestisce e non ne è vissuta completamente. E’ disperata perché la madre non crede alle visioni ( ‘bugie per non lavorare’), la struttura non crede che siano innocue e le impone un lavoro sgradito e farmaci per eliminarle. Vuole anzitutto un posto nel quale la sua parola sia creduta. Il piano di reinserimento è progettato dalla struttura sanitaria, imbevuta di una fede assoluta nel DSM. Nella mia regione, nella quale governò uno dei partiti comunisti più grandi d’Europa, darle un impiego fa parte della convinzione che la salute mentale si conquisti anche grazie al lavoro utile alla collettività. Dagli incontri congiunti apprendo che viene adottata all’età di sette anni in un centro di accoglienza in Brasile ove ha trascorso 5 anni. Fu tolta alla famiglia originaria per comportamenti disturbati e violenti dei genitori. E’ un centro sregolato, senza igiene e senza legge, con frequenti abusi e sparizioni di bambini. Lei, vista la sua corporatura, aveva il compito di accudire i più piccoli. Portata in Italia viene iscritta a scuola, dove emergono tratti paranoici, isolamento, violenza fisica verso i compagni colpevoli di tramare alle sue spalle. Più grande, si iscrive ad un istituto magistrale desiderando fare la maestra e lo porta a termine con più facilità. Il momento dello scatenamento si colloca alla fine del corso di studi. Continuando i nostri incontri si attenuano i timori che le allucinazioni possano sopraffarla e  riprende a frequentare Mario, il coetaneo conosciuto in gita, col quale si fidanza. Senza la scuola la situazione precipita: la madre le impone di accettare il lavoro proposto dalla struttura, e le vieta di frequentare il ragazzo. Priva di occupazione, senza il fidanzato, preda della furia materna e degli ordini dell’istituzione, le crisi allucinatorie trabordano nel giorno. L’istituzione mi accusa di non seguire il protocollo vedendola fuori ospedale, e di ostacolare il reinserimento lavorativo stabilito non sostenendo il lavoro in biblioteca. Resto perplesso, visto il suo quadro grave ed instabile, quando mi dice di voler accettare un lavoro come educatrice in una scuola materna, nella quale deve gestire bambini di 4 – 5 anni. Mi chiedo se ne sia in grado senza conseguenze per i minori. Le faccio notare cautamente che può dire no al lavoro imposto dalla struttura, ma può prendere in considerazione altri impieghi che il Comune offre ai disoccupati. La sua reazione è durissima. Mi accusa di essere come quelli dell’ospedale ( ‘ che mi chiedono cosa vedo, e non cosa voglio fare’) e la madre che ‘ vuole nascondermi in biblioteca perché si vergogna del colore della mia pelle. Mi ha adottato solo perché era sterile e cattolica’. Sospende le sedute, mi sento annoverato tra i suoi persecutori colmi di sapere che sanno cosa lei voglia e  desiderano guarirla guardandola attraverso il filtro del DSM. Tuttavia mi telefona e mi aggiorna regolarmente sulla sua situazione. Continua a vedere nello spazio ricavato per lei un alleato. Mi scrive della degenerazione del conflitto con la madre e della mancanza del ragazzo, nonché del trabordare delle allucinazioni nel giorno. Mi chiamerà ogni giorno per mesi.  Divenuta maggiorenne, va a vivere con Mario. Torna in seduta e domanda di riprendere gli incontri. Ha accettato contemporaneamente un lavoro come educatrice nel week end e di maestra per un campo estivo per bambini di quarta elementare. Le allucinazioni sono tornate serali, e quindi per lei innocue. Ha fatto ritorno, dopo avermi messo da parte, per mostrami l’efficacia del rimedio trovato per sostenersi: fare l’insegnante. E’ andata a riprendere, per usarlo oggi, ciò che le permise di non sprofondare ai tempi dell’orfanotrofio: accudire i piccoli.  Chiede che io creda al suo no gridato a chi, tramite il DSM o con volontà di fagocitazione, aveva deciso per lei senza ascoltarla. Lei sa che fare l’insegnante si dimostra, retroattivamente, un sinthomo. La clinica psicoanalitica lacaniana legge il sinthomo come un ‘ elemento riparatore’, qualcosa che non  “ non è da guarire, ma si presenta perché se ne faccia uso[2]. La mia iniziale perplessità andava nella direzione del collaborazionista con la struttura, che valuta le risorse del paziente per capire se siano o meno funzionali al suo buon funzionamento in società, che non da spazio alla parola, ma preferisce le performances. Tra madre, etichette ed istituzione, ho dato spazio al soggetto, anche nelle sue intemperanze. Quando si tratta dello strumento col quale sostenersi, il soggetto reclama la sua assolta autonomia da ciò che l’Altro ha pensato essere bene per lui.   dell’inconscio potevano essere ritenute non conformi al funzionamento della struttura.  
 
 
 J.A. Miller parla del legame tra salute mentale ed ordine pubblico. ‘La salute mentale è definta come ordine pubblico’, il mantenimento del quale pare essere lo scopo primario in un mondo nel quale ‘ gli operatori della salute mentale decidono chi è in grado di circolare con gli altri , per la strada, e chi, al contrario, non può uscire di casa’(…)’La salute mentale si pone pertanto l’obbiettivo (…) di reintegrare l’individuo nella società’
Lo psicoanalista è discontinuo rispetto a questa idea di società e lontano da questo progetto, operando non già sul solo versante riabilitativo, ma dando forma sia all’inconscio , sia aiutando l’individuo nell’organizzare il suo sinthomo. L’opera costante nel lavoro di un centro di psicoanalisi applicata, è proprio quella di fare da trait d’union tra le istanze normalizzanti degli apaprtaid di strutture mentale, e le richieste del soggetto, che , come nel caso descritto, vanno in una direzione ben precisa, a volte assai lontana dagli standard di guarigione.
 
 * i dati contenuti nello scritto sono stati modificati nell’età, nei nomi, nell’anagrafica. Questo per la privacy, nel rispetto del percorso del soggetto, intento nelle sue scelte. Tali dati sono dunque usati a scopo paradigmatico e non riconducibili all’interessato
 
 
 



[1] Trattamento sanitario obbligatorio. Procedura con la quale le autorità amministrative e mediche possono  
  obbligare ad un ricovero forzato se ritengono la persona pericolosa per se o per altri.
[2] J.A.Miller. Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXIII

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