Un comune dolore ci unisce in questi giorni tristi con gli Stati Uniti. A Dallas un nero, reduce della guerra in Afganistan, ha ucciso cinque poliziotti bianchi. Pochi giorni dopo, un altro nero, ex militare decorato, ha ucciso tre agenti senza preoccuparsi del loro colore. Volevano vendicarsi dell’uccisione di due neri da parte della polizia americana: le ennesime vittime di un pregiudizio trasformato in condanna a morte. Una discriminazione persistente si affaccia al rischio di una guerra civile.
La “guerra americana” porta il razzismo storico della maggioranza dei bianchi nei confronti dei neri verso uno scontro generalizzato e indiscriminato in cui ognuno rischia di vedere nell’altro un estraneo pericoloso da cui difendersi. È difficile fidarsi dell’altro in una società in cui i motivi di diffidenza reciproca abbondano, a partire dalla pesante eredità dello schiavismo (che avvelena le coscienze di tutti) e la mancata integrazione delle culture e delle religioni (che restano, in gran parte, scompartimenti stagni).
La Francia, paese emblematico dell’Europa, sia per le più nobili delle sue tradizioni sia per le più irrisolte delle sue contraddizioni, è ugualmente esposta ai venti di una guerra civile, che nel nostro amore per gli schemi predefiniti preferiamo considerare come guerra con il fanatismo islamico. A Nizza è andata in scena, nel più orribile dei modi, la distruttività surreale più volte messa in azione, dei diseredati impazziti che non hanno nulla da perdere e non possono aggrapparsi neppure all’odio.
La vulnerabilità della Francia è nel divario crescente tra i suoi cittadini di vecchia data e i nuovi arrivati, che slitta progressivamente verso una grave crisi identitaria degli uni e degli altri. L’Occidente non sa leggere la realtà che esso stesso ha determinato: la dissociazione tra il possesso dei beni e il loro godimento (la tirannia della quantità sulla qualità) produce un vuoto esistenziale che si diffonde come macchia d’olio. I re Mida, padroni, privi di qualsivoglia visione, del nostro mondo, sono della stessa materia inerte in cui trasformano ciò che toccano, rendendolo non godibile per tutti. Figure irreali, sono i primi ad essere alienati dal processo di alienazione che promuovono. La globalizzazione riproduce il mondo come un’immensa periferia il cui centro è sempre più astratto e invisibile (a prescindere dagli organismi politico-istituzionali che annaspano nel governo di una società di cui sfugge loro il controllo effettivo). Più l’Occidente si aliena dal suo stesso modo assurdo di crescere, più il suo potere economico e militare, strumento di dominio di ciò che gli è esterno, rimbalza nel suo interno disgregandolo.
All’est dell’Occidente c’è solo il suo riflesso, lo sguardo gli restituisce il proprio volto, una maschera di stupore, di inquietudine. Non ha dominato il pianeta, plasmandolo a sua immagine e somiglianza, che per scoprire il deserto delle emozioni in cui vive. Fuori dal coro dei politici e dei commentatori che si sono cimentati con la lettura del conflitto negli Stati Uniti, la voce di una donna si è avvicinata alla realtà. La compagna di uno dei due neri uccisi ha detto, in un comizio improvvisato durante una manifestazione di protesta, che siamo tutti in pericolo indipendentemente dal colore, la religione e la nazionalità. La guerra civile, a cui non vogliamo credere, si sta avvicinando. Una guerra non tra bianchi e neri, cristiani e musulmani, indigeni e immigrati, ma un conflitto tra migranti, sradicati (fisicamente o psichicamente): popolazioni che sbattono l’una sull’altra, anime perse che vagano.
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