Le parole hanno uno scopo e spesso come dice il proverbio popolare feriscono più della spada. Certe volte possono uccidere lentamente tramite piccole ferite quotidiane che alla fine dissanguano la vittima. Le parole possono erigere muri invisibili e spesso operare su tutto un contesto di vita sociale di cui si è partecipi, condizionandola fortemente.
In realtà basterebbe poco per non ferire il prossimo, a condizione di capire questo implicito potere del parlare. Come? Presto detto. Si tratterebbe in fondo di usare meglio gli aggettivi quando li riferiamo a qualcuno che non conosciamo ma del quale identifichiamo una appartenenza ad un gruppo (sono gli stereotipi) oppure non esprimersi a mo' di allenatori del pallone quando parlando di persone che si conoscono, in parte o nel giro delle nostre conoscenze, si fanno previsioni sul comportamento oppure sul tipo di risultati che potrebbero portare le azioni di chi è al centro, appunto, delle attenzioni (sono i pregiudizi). In questo articolo cercheremo di spiegare cosa sono gli stereotipi.
Per essere più espliciti e meno teorici: spesso capita di sentire discorsi in cui sapendo che qualcuno o qualcuna “è in terapia” oppure “va dallo psicologo” porta prima al classificarlo in un gruppo invisibile di “malati” e poi gli si attribuiscono, anzi gli si attaccano addosso come se fossero dei post-it tante caratteristiche espresse con una serie di aggettivi che stando agli studi, si ripetono ciclicamente nei discorsi con caratteristiche derisorie, canzonatorie o squalificanti. Quante volte l'espressione “ma chi va dallo psicologo ha problemi”. Vero. Ma i problemi sono problemi di salute, diversi ma non cosi lontani nella finalità, ossia la necessità di star bene, di chi si rivolge al dentista per un dolore al dente oppure al reumatologo per le artrosi, o al gastroenterologo per il colon irritabile. Ma è davvero cosi? No. Quando si viene categorizzati come “chi ha un problema” si riceve in dote un nutrito numero di caratteristiche caratteriali che spesso non hanno nulla a che fare con la realtà.
Molti studi sugli atteggiamenti stigmatizzanti di tutto il mondo convergono sull'attribuire a chi chiede aiuto psicologico una specie di “intrinseca” fragilità o mancanza di carattere o debolezza morale. A volte più di una se si scade nel bieco pettegolezzo. Gli stereotipi, questa è la nota peggiore sull'argomento, si creano spesso internamente al gruppo di appartenenza dello stigmatizzato: è crede di conoscerti che maggiormente ti critica e appiccica aggettivi su cosa e come fai le cose. E' come se la vicinanza o la frequentazione dei medesimi luoghi attribuisca una indiscussa conoscenza dell'altro senza incontro realmente profondo. Come dire che tutti i vicini di casa di Dante Alighieri solo perché lo vedevano tutte le mattine o lo vedevano scrivere la Divina Commedia, automaticamente ne potevano criticare l'operato poetico. Esatto: lo stereotipo funziona come un sillogismo filosofico come quelli imparati al liceo: se A è uguale a B e B è uguale a C allora A è per forza uguale a C! In realtà l'esempio di Dante Alighieri, ma avrebbe potuto essere l'ex presidente della Repubblica Cossiga, non è perfettamente calzante: gli stereotipi si attribusicono quando spesso quando non si nutre una considerazione alla pari di chi ne viene investito. In parole povere si critica chi si ritiene avere qualcosa meno o si ritiene l'elemento più fragile di un gruppo.
Ma la fragilità può diventare un elemento di debolezza e di crisi identitaria di tutto il gruppo: diventa funzionale al gruppo stesso cercare delle motivazioni (pseudo)cognitive che giustifichino un cambio di atteggiamento verso il portatore della “diversità/fragilità”. Spesso diventa un esempio da non seguire perché poi si finisce come e cosi facendo si rinforza e irrigidisce il conformismo (definito più tecnicamente come desiderabilità sociale). Lo status sociale degli individui membri di un gruppo, quindi, influenza gli stereotipi e questo apre a discorsi di tipo morale.
Se il meccanismo di difesa sociale della stereotipizzazione è funzionale da millenni nella società umana, occorre sottolineare che negare i bisogni e le richieste di aiuto in salute mentale non porta mai ad un migliore stato di salute. Il conformismo non cura, cosi come non curano gli stereotipi. Occorre essere più forti e trovare il coraggio di rivolgersi ad un professionista, la posta in gioco è troppo alta: non c'è alcun tipo di vergogna nel manifestare il bisogno di aiuto. Purtroppo il complesso tessuto delle relazioni umane e i vari sistemi sociali in cui siamo tutti immersi non possono essere dipanati con un semplice e banale ragionamento. Per fortuna la nostra mente è più complessa di un complesso di aggettivi che possono venirci attribuiti.
Repost articolo pubblicato sul n.1 del periodico Depressione Stop, edito da EDA ONLUS
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