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HELLO CYBERSICKNESS MY OLD FRIEND

20 Feb 20

A cura di Luca Morganti


La tecnologia fa male. In un’epoca dove si arriva a parlare di novax, a molti questa frase sembra un’affermazione più che lecita, per certi versi sacrosanta. Una buona laurea in psicologia, tuttavia, ci insegna a sospendere i giudizi di valore, perché essi rischiano di bloccare l’approfondimento necessario per la discussione di certi temi: il giudizio sigilla una tema, col rischio di far nascere da esso guerre di religione, spesso sterili.

Conviene pertanto domandarci quando e soprattutto in che modo la tecnologia fa male, in questa sede per quanto riguarda l’uso della realtà virtuale in ambito professionale psicologico. Partiamo dal quando: la prima, semplice, risposta è “quando non aggiunge nulla al percorso clinico”. Dietro ogni psicologo che introduce nuove tecnologie nella propria pratica lavorativa c’è una parte di curiosità di provare lo strumento: se da un lato essa è una importante leva motivazionale per il cambiamento e, soprattutto, per una crescita scientifica della nostra professione, dall’altro lato rischia di essere un ostacolo lungo la strada dell’efficacia dell’intervento. Saper dosare le modalità con cui proporre uno strumento tecnologico nel percorso psicologico segue due principi: il primo è l’esperienza clinica, ovvero la capacità di poter prevedere quali vantaggi l’intervento può avere sul singolo paziente alla luce della situazione che riferisce; il secondo è la ricerca di evidenze scientifiche a supporto del razionale di intervento. Ad esempio, in presenza di una fobia, la realtà virtuale in grado di riprodurre l’ambiente temuto ha una efficacia dimostrata da decenni (Coté e Bouchard, 2008) quindi possiamo impostare l’intervento su basi solide con fiducia. Tuttavia, dato che la realtà virtuale è una tecnica di intervento in grande espansione, è possibile che non ci siano ancora evidenze scientifiche rispetto ad ogni possibile modalità di utilizzo. Due esempi ci possono aiutare a comprendere la situazione:

  1. L’utilizzo di ambienti geografici, anche semplici video, per la gestione di sintomatologie legate a traumi o per l’ancoraggio ad esperienze piacevoli vissute. Si tratta di una modalità di utilizzo semplice, con contenuti gratuiti a disposizione: in questo caso è opportuno privilegiare se ci sono alcuni contenuti che hanno avuto una valutazione scientifica anche semplicemente riferita all’impatto emotivo. Se, infatti, un ambiente è in grado di stimolare un’emozione clinicamente significativa nel fruitore, si apre uno spiraglio importante di possibile efficacia clinica.
  2. Le esperienze virtuali metaforiche e trasformative sono ambienti virtuali che ricostruiscono una storia per favorire l’immedesimazione del paziente e promuovere un cambiamento, anche a livello psicoterapeutico. Si tratta di ambienti specifici e, in assenza di una validazione di impatto clinico, è importante agire con un protocollo strutturato: in questo caso, vorrebbe dire utilizzare lo strumento all’interno di un approccio clinico validato, come ad esempio l’approccio narrativo, mutuandone la metodologia di intervento.
Per quanto riguarda le modalità nocive, il primo ostacolo parlando di realtà virtuale è storicamente superato, ma non eliminato: si tratta della cybersickness, ovvero una sensazione di malessere che accompagna la fruizione dell'ambiente virtuale con nausea, possibili capogiri e disorientamento spaziale una volta rimosso il visore. Le principali cause della cybersickness sono di tipo tecnico, ovvero l'incapacità dell'ambiente grafico di costruirsi tanto velocemente quanto il movimento della testa dell'utente: alla base delle sensazioni spiacevoli c'è lo scollamento tra la percezione di girare la testa e vedere al termine del movimento un ambiente che non è ancora ruotato con lo stesso angolo. L'aumento della definizione e della qualità grafica dei visori ha praticamente eliminato questo problema, lasciando come unico rischio l'utilizzo di filmati in realtà virtuale che si muovono troppo velocemente rispetto alla posizione del fruitore, tendenzialmente statica.

L'altra accortezza riguarda un utilizzo prolungato della realtà virtuale: in questo caso non parliamo di cybersickness ma di affaticamento, tipicamente un senso di pesantezza agli occhi. Un cardine dell'utilizzo della realtà virtuale si basa su questo dato di usabilità: ogni esposizione deve essere limitata nel tempo, posizionata in un periodo determinato all'interno della seduta. In una seduta con realtà virtuale, infatti, non è una seduta in cui il paziente è sempre all'interno dell'ambiente virtuale per 60 minuti né, a scanso di equivoci, una seduta in cui paziente e terapeuta si incontrano in un ambiente virtuale. Prima dell'esposizione in realtà virtuale è necessario concordare il razionale dell'intervento e valutare il significato dell'ambiente che mostriamo in relazione a quelli eventualmente già mostrati in precedenza; al termine dell'esposizione, invece, è opportuno rielaborare l'esperienza vissuta col paziente in modo da dare senso ad emozioni, pensieri e vissuti che ha sperimentato o associa all'esposizione.
 
REF.
Côté, S., & Bouchard, S. (2008). Virtual reality exposure for phobias: A critical review. Journal of CyberTherapy & Rehabilitation, 1(1), 75-91.

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