Questo breve scritto rappresenta il filo conduttore di un intervento in un corso ECM che si è tenuto presso la Cooperatica di Psicoterapeuti "Solidare" di Milano, aderente alla SGAI. Lungi dal rappresentare dunque una trattazione esaustiva sull’argomento, vuole essere piuttosto una proposta di riflessione su alcuni temi, uno stimolo alla discussione su un fenomeno che tanto sta condizionando le nostre vite e la pratica professionale nella relazione d’aiuto.
Il tempo di internet e dei social-network ci sollecita a modificare i paradigmi culturali con i quali abbiamo approcciato fino ad ora la quotidianità. A volte con resistenza, timore e fatica, ma anche con curiosità, brivido ed esaltazione. L’educazione, la comunicazione, la sessualità, le relazioni… Sono veramente agite in maniera diversa o hanno piuttosto trovato nuovi modi di rappresentazione? Migliori o peggiori? Quali sono i pericoli e le opportunità di questo “smarrimento psico-antropologico"?
INTERNET E LE NUOVE GENERAZIONI
Una conseguenza rilevante della rivoluzione comunicativa di internet l’abbiamo sul piano dell’educazione e la preoccupazione che le giovani generazioni trovino nella cultura digitale, nella navigazione in rete, l’occasione di approdi pericolosi.
È soprattutto una preoccupazione del mondo adulto che ha difficoltà a competere con i più giovani sul piano della “confidenza digitale”.
I nativi digitali hanno in realtà l’opportunità di acquisire nuove abitudini di esplorazione virtuale del territorio, e questa abitudine si somma, e non necessariamente si sostituisce, all’esplorazione “On the road” che era tipica delle generazioni passate.
Certamente il mito statuario di Kerouak entra in competizione con nuovi miti dall’identità indefinita, e spesso impersonata dai mille eroi dei giochi di ruolo.
Mettendo a confronto le giovani generazioni degli anni 60/70 con quelle attuali possiamo cogliere il passaggio da un “monoteismo” dell’iniziazione esplorativa, a un più diversificato “politeismo” dell’esperienza iniziatica di conoscenza del mondo, più precoce ma altrettanto ritualistica. L’agito intelligente dell’educatore evoluto (soprattutto nella personificazione genitoriale) non dovrebbe essere quello di contrapporre due diverse visioni del mondo, ma piuttosto comprendere il senso della propria esperienza iniziatica di un tempo per poterla riconoscere nelle forme della contemporaneità, utilizzandole per sostenere i propri messaggi educativi, le attrattive formative necessarie a veicolare i valori.
I pericoli della strada non sono gli stessi dei pericoli della rete, ma sono entrambi correlati alla stessa percentuale di rischio, quella determinata dalla solidità della piattaforma emotiva/educativa che fa da base di lancio per l’iniziazione esplorativa adolescenziale.
Resta utile e generalizzabile il criterio validato nell’ambito dell’abuso di sostanze: il 90% dei giovani che hanno esperienze di consumo, sia saltuario che continuativo, ad un certo punto smettono o entrano in uno stile di consumo moderato e consapevole il quale non si può certo considerare un problema.
Il restante 10% che si avvia ad un consumo cosiddetto problematico non lo fa perché ha iniziato, ma perché aveva a monte disagi emotivi, fragilità caratteriali, carenze educative, mancanza di modelli di riferimento.
L’accentuazione del rischio è in tutti casi data dalla precocità dell’esperienza e, in secondo luogo dalla massività, dalla “nevroticità”.
Allo stesso modo dunque l’utilizzo, l’uso e l’abuso della navigazione in rete segue, tendenzialmente, la stessa logica di autoregolazione.
I limiti efficaci non sono quelli imposti con le chiavi di accesso e i controlli invasivi, quanto quelli interiori depositati in una coscienza che si è stata ben avviata alla soglia dell’adolescenza, e che si è ben costruita con modelli di riferimento sani.
Il linguaggio irriverente e violento utilizzato talvolta dai giovani nelle reti Social inquieta e preoccupa gli “Educatori” e indigna i perbenisti.
Il realtà gli adolescenti si sono sempre espressi, tra di loro, in termini aspri, forti e anche offensivi, nei confronti degli adulti, dei genitori propri e altrui, per alimentare le sfide all'interno del gruppo, confrontarsi, misurarsi sul potere interno, o testare i livelli di tolleranza, ma soprattutto per superare le prove iniziatiche di adesione al gruppo, acquisire il lasciapassare dell’appartenenza, sancire la ribellione al clan familiare e il parricidio / matricidio simbolico.
Solo che questo avveniva in luoghi privati, fisicamente delimitati, il gruppo si rispecchiava al suo interno.
I Social offrono opportunità di rappresentazione in una forma che era sconosciuta fino ad ora. È una forma che comprende livelli comunicativi inesplorati dalle generazioni precedenti. Non è solo una forma virtuale che annulla la gravità, il peso delle verbalizzazioni; piuttosto è una forma nuova di intimità che prima trovava spazio solo ed esclusivamente in un rapporto di prossimità fisica delimitata, ed ora invece diventa una paradossale "intimità pubblica", che è un codice espressivo nuovo, non necessariamente buono o cattivo.
Il gruppo dei pari (…ai nostri tempi) era lo specchio col quale eravamo a tu per tu nella esternazione del pensiero, il passo evolutivo seguente allo specchio di Lacan, esperienza primaria della percezione dell’identità e del processo di identificazione.
Lo specchio di Lacan diventa oggi con la comunicazione digitale uno specchio prisma attraverso il quale il pensiero si irradia e si moltiplica e viene percepito da ciascuno con diverse tonalità.
E così dalla rappresentazione della propria identità allo specchio, passando per tutte le possibili varianti deformanti del rimando speculare, si è passati all’irradiazione che moltiplica i contatti e i possibili rimandi, con rischi e potenzialità….
i rischi di una frammentazione della propria immagine identitaria
e la potenzialità della liberazione di identità diverse e sinergiche, arricchenti.
Resta la tendenza del giovane adolescente al conformismo di gruppo, a sostenere ed alimentare le credenze e i modelli che vanno per la maggiore nel gruppo dei pari.
Ora come allora la tendenza ad uniformarsi al gruppo resta la strategia principale di ribellione dal mondo degli adulti, e in questo senso é il primo passo sul cammino dell’indipendenza di pensiero, ma allo stesso tempo il rischio maggiore di deriva.
L’antitodo resta lo stesso in ogni caso, in ogni tempo e con qualsiasi evoluzione tecnologica/comunicativa: l’esercizio alla diversità, che rappresenta il seme di una evoluzione equilibrata.
E in questo senso lo stesso mondo di Internet è sicuramente un alleato potente.
INTERNET E LA MODIFICA DEI SINTOMI
Credo che esista una sorta di antropologia dei sintomi, una specificità con la quale i sintomi si manifestano che non legata alla “patologia”, ma alle culture e alle epoche storiche.
L’etnopsichiatria di Tobie Nathan ci suggerisce una strada importante per una osservazione antropologica delle sintmatologie.
Ogni luogo e ogni tempo ha il suo modo di esprimere i disagi e le malattie (e probabilmente non solo i disagi che afferiscono allo psichismo), cosi come ogni luogo ed ogni tempo ha il suo modo specifico di esprimere le sue cure e i suoi guaritori.
Pensiamo all’isteria che nella sua forma più originaria descritta da Charcot, sia praticamente scomparsa o ancora al fenomeno del Tarantismo salentino, una forma teatralizzata di rappresentazione di un disagio (e relativa cura attraverso rituali musicali coreutici), fenomeno studiato e descritto da Ernesto De Martino, che in quella forma non si è più manifestata dopo gli ultimi episodi dei primi anni 80.
O ancora pensiamo ai più recenti studi di etnografia organizzativa, o ancora alla psicogenealogia transgenerazionale, altrimenti definibile in fondo come ”Psico-Antropologia Famigliare”.
Questi esempi ci segnalano come siano ridicoli i tentativi di catalogare, diagnosticare, "DSMizzare" i sintomi allo scopo di omogeneizzare i filtri di lettura, le diagnosi, le cure, finendo per omogeneizzare sostanzialmente soprattutto i giudizi.
La distinzione dei sintomi slegata dalle culture delle “tribù” di appartenenza (la famiglia, la società, il gruppo sociale, l’ambiente di lavoro, le “sette” di appartenenza…) finisce per ridurre le possibilità di comprensione del sintomo e le possibilità di guarigione.
Un lavoro più utile è forse invece quello, da un lato prendere in considerazione la matrice antropologica del disagio, considerare e studiare le culture delle tribù di riferimento (i rituali, i processi sistemici, i dispositivi, le regole…), dall’altro, sfoltire le distinzioni tra i sintomi, per fare emergere la base archetipa delle sintomatologie, quella base che può essere considerata veramente interculturale, intergenerazionale, comune della condizione umana.
Le diverse forme di rappresentazione del sintomo, che nascono e scompaiono con le culture, ci interpellano sul rapporto tra realtà oggettiva e realtà soggettiva.
La mente opera in conseguenza di una realtà soggettiva che non è mai corrispondente ad una realtà oggettiva. La realtà soggettiva è quella che possiamo assumere come la propria realtà virtuale, il “COME SE” che la mente prende in considerazione per generare comportamenti, emozioni, reazioni psichiche e organiche, allucinazioni e deliri, malattie e guarigioni; il “Come se” che la mente assume come verità.
Il processo che dalla realtà oggettiva (colta dalla percezione sensoriale) procede verso la realtà soggettiva (verità) attraversa una realtà simbolica ed una realtà immaginaria.
Il simbolico e l’immaginario sono gli spazi in cui possiamo intervenire per modificare il processo, ed è, per esempio, anche lo spazio della relazione terapeutica.
Esempio esplicito ed evidente, di come la mente assuma la realtà virtuale soggettiva come unica verità è dato dal fenomeno conosciuto come “effetto placebo”: è il “come se” che genera l’effetto, la realtà/verità soggettiva, non quella oggettiva.
Come lo sviluppo tecnologico influenza le nostre funzioni di elaborazione mentale? Non solo per la sua capacità di diffondere e replicare rapidamente le informazioni, ma anche per la sua capacità di rappresentare il virtuale (una sorta di “COME SE oggettivo”), attraverso quella che viene chiamata Realtà Aumentata (RA), cioè rappresentazioni costruite con dovizia di particolari sensoriali/descrittivi/simbolici che hanno l’effetto di ridurre e spesso bypassare la funzione immaginativa, connettendosi direttamente con la realtà soggettiva, diventando verità.
Quanta immaginazione occorreva per decodificare, elaborare, gustare, un film muto in bianco e nero! Oggi, grazie alla tecnologia, il passaggio immaginario viene spesso a mancare.
Questa amplificazione della “realtà virtuale oggettiva” avviene anche attraverso le modalità di fruizione delle informazioni che è diventata immediata e vicina ad un approccio istintuale, primario. L’esempio più eclatante sotto l’aspetto del simbolo di questo ritorno alle modalità istintuali è il concetto del touch screen.
Toccare un’icona per ottenere una forma di retroazione è il tipico gesto istintuale del bambino che non ha ancora elaborato le capacità del linguaggio e di mediazione cognitiva nell’espressione dei bisogni; è quanto di più arcaico e naturale può avvenire per creare una corrispondenza tra “realtà virtuale oggettiva” e “realtà virtuale soggettiva”.
Tutto questo non toglie necessariamente spazio all’immaginazione.
Accade, si, nella misura in cui l’approccio è “nevrotico” (dunque viziato da elementi di massività o di perversione), quando lo spazio dell’immaginario e del simbolico viene cannibalizzato dallo spazio del virtuale oggettivo. ma può invece favorire una ampliamento dell’immaginazione, grazie alle energie liberate dai processi cognitivi superflui.
Non è un bene, non è un male, ma serve con urgenza un "upgrade” delle nostre capacità di presenza mentale" per gestire lo stato di consapevolezza.
È ancora difficile valutare gli effetti di questa rivoluzione comunicativa, ma credo che dovremo aspettarci un salto di qualità nella rappresentazione dei sintomi.
La funzione immaginativa, peraltro, se è vero che è aggredita dalla rappresentazione virtuale oggettiva della “realtà aumentata”, possiede in se quella possibilità di upgrade necessaria a riprendersi lo spazio di azione, ed è probabilmente lo spazio più importante sul quale agire nel contesto della terapia.
Ampliare lo spazio immaginifico sostiene il desiderio, energia fondamentale nel processo terapeutico, energia che invece si riduce se l’immaginario rimane compresso tra la realtà virtuale oggettiva e la realtà virtuale soggettiva.
Questa compressione dell’immaginario esiste nell’esperienza emotiva umana e non è nata con la Realtà Aumentata.
Per esempio quando si è di fronte ad una malattia definita con “esito infausto”, questa definizione, carica di una forte componente simbolica, viene percepita come una realtà virtuale oggettiva che la mente assume come vera. È lo stesso processo dell’effetto placebo, ma al contrario. La mente si predispone per l’esito infausto, e lo spazio immaginativo è compresso.
Non è escluso che tra gli aspetti positivi delle nuove tecnologie ci possano essere tecniche di creazione di esperienze virtuali agevolanti processi di guarigione.
L’ambiguità della Realtà Aumentata sta nel fatto che non può essere sostitutiva del processo immaginativo.
La potenza e la specificità della Realtà Aumentata è quella di poter mettere insieme una buona dose di elementi sensoriali tipici della realtà oggettiva con una buona dose di elementi simbolici che agiscono direttamente sul piano inconscio.
Sono questi che gli elementi che caratterizzano per esempio i giochi di ruolo, i video di propaganda, la pubblicità.
Un altro elemento chiave sul quale agisce la tecnologia in associazione allo sviluppo della comunicazione in rete è un avvicinamento apparente a quello che prima abbiamo definito come livello “archetipo interculturale”.
Il format dei social-network ha conquistato un livello di intercomunicazione mai raggiunto prima. In tutti i luoghi e le culture del mondo si é sviluppato un codice comune e comprensibile allo stesso modo da chiunque.
La forme della conoscenza sono come i punti di un cerchio che assumono distanze
diametrali (diametralmente opposte) secondo la cultura di appartenenza, ma che i format dei social network stanno in qualche modo contribuendo ricongiungere in uno stesso punto. Bisogna però distinguere tra forma e contenuto.
La dimensione interculturale archetipa riguarda il contenuto, quella del format comunicazionale riguarda, appunto, la forma.
Restando su un piano antropologico non ci sfugga il fatto che questa rivoluzione, questo avvicinamento comunicativo interculturale dei format e attraverso i format, per quanto ci appaia pervasivo e globale raggiunge in senso pieno solo un miliardo di persone, e la vera nevrosi / perversione del sistema è rappresentata dal divario sempre più grande che esiste tra chi ha accesso alla tecnologia e chi non ce l’ha.
A vederla con Gilles Deleuze, Internet e le nuove tecnologie, insieme a tutti gli aspetti virtuali, di ampliamento delle risorse disponibili per la conoscenza e l’informazione, stanno territorializzando fortemente una parte del genere umano, a scapito però di una deterritorializzazione, impoverimento di un’altra parte ben più ampia.
Si ripresenta dunque anche sul piano tecnologico, come su quello delle risorse primarie e delle risorse economiche e finanziarie, una frattura in rapida espansione tra chi ha accesso e chi non ha accesso alle risorse.
Questa frattura si esprime attraverso dispositivi in parte incontrollati che non sono solo di aumento della distanza e isolamento tra i gruppi sociali ma anche di contrapposizione aggressiva; una aggressività che può avere confini disparati, famigliari e generazionali, razziali, religiosi, culturali in genere, fenomeni che si connettono con un altra dimensione che è molto influenzata da Internet e le nuove tecnologie: il bisogno di appartenenza.
INTERNET E I PROCESSI DI APPARTENENZA
La globalizzazione dei format comunicativi ci interpella su quali bisogni primari siano richiamati in questo processo di confluenza.
Qual’era la motivazione originaria di Facebook? Quella di riconnettere nella propria vita le persone del passato, recuperare in qualche modo quelle relazioni che per necessità oggettive di gestione di tempi, spazi, e per una oggettiva difficoltà di gestione dell’ubiquità, non fanno più parte del nostro quotidiano relazionale.
La nuova realtà che stiamo sperimentando è che esistono dispositivi che potenziano le nostre possibilità di relazione, includono relazioni che avevamo messo da parte, concretizzano processi immaginari che avevano come supporto esclusivamente la memoria (chissà che fine ha fatto Tizio e Caio).
Anche questa può essere considerata un’opportunità sotto il profilo dell’evoluzione personale e sociale.
È la “nevroticità” con la quale ci si approccia a questi dispositivi che li fanno diventare strumento di deriva. La resistenza all’utilizzo dei social è semplicemente una, più o meno consapevole e legittima paura di restare intrappolati in una PROPRIA gabbia nevrotica, allo stesso modo di quello che era l’atteggiamento nei confronti per esempio della televisione.
È realistico decretare la potenza della tecnologia, tanto quanto è nevrotico decretarne l’onni-potenza.
È realistico avere paura delle tecnologie, tanto quanto è nevrotico demonizzarle.
Ma la scoperta più importante che abbiamo fatto con i Social, al livello dell’accrescimento del potenziale relazionale, è la possibilità di ampliare le nostre appartenenze.
L’appartenenza è un bisogno archetipo.
Questo bisogno è sempre stato agito attraverso la disponibilità oggettiva della prossimità fisica.
Con internet, i Social, i Forum, le Mailing List, ecc ecc abbiamo scoperto modalità di comunicazione che contribuiscono a soddisfare il bisogno di appartenenza e anche, in qualche modo, ad alleggerire l’obbligo di appartenenza ai gruppi in carne ed ossa.
Questo può piacere o non piacere, ma se si considera questa un’opportunità aggiuntiva e non alternativa, si scopre che questo ampliamento è qualcosa di utile all’evoluzione personale e sociale.
Le controindicazioni (individuali e sociali) intendendo come controindicazioni i fenomeni di “deriva sociale o personale” riguardano il fatto che essendo favorita l’accessibilità all’appartenenza, è favorita anche la formazione di aggregazioni virtuali “liquide” e manipolabili.
È anche sulla base di questa rinnovata dinamica del processo di appartenenza che possono essere guardati e interpretati per esempio le adesioni ai gruppi terroristici, il fenomeno dei cosiddetti foreign fighters.
Ce ne accorgiamo esplorando la differenza nella comunicazione tra il terrorismo degli anni 70 e quello attuale.
La rete e la propaganda delle BR era costruita sostanzialmente su un passaggio fisico di informazioni, che potevano raggiungere solo le persone in prossimità. L’area dei “simpatizzanti” era caratterizzata solo da una immaginazione dell’appartenenza, e veniva in linea di massima esclusa dall’operatività.
Oggi l’ISIS, attraverso le nuove tecnologie, internet e la confezione di pacchetti di realtà virtuale, territorializza lo spazio dell’immaginario dei simpatizzanti in maniera molto più concreta, facendo proseliti operativi e attivi.
Il processo messo in atto dalla strategia comunicativa dell’ISIS è quello di “cannibalizzare” lo spazio del simbolico e dell’immaginario attraverso una metacomunicazione che non ha bisogno di contatto diretto, ma lavora ad un livello collettivo, raccogliendo come in un setaccio, le coscienze sensibili e quelle probabilmente indebolite da uno stato di conflitto o insoddisfazione.
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