Edgar Contesini, educatore e operatore teatrale, fa parte della Rete Nazionale Disabilità Intellettiva. In questo testo, egli presenta alcune fondamentali riflessioni sulla pratica educativa con soggetti disabili, frutto della sua attività quotidiana all'interno di un Centro Diurno.
Mi capita tra le mani una pubblicazione degli anni '80 dal titolo Ai confini della società, curata dall'allora Assessorato alla Sicurezza Sociale dell'Amministrazione Provinciale di Torino. Il documento illustra il passaggio che tra gli anni Sessanta e i Settanta è avvenuto dal Centro di Lavoro Protetto come unica risposta possibile per la persona handicappata di ottenere un ruolo sociale, ai servizi a maggior vocazione educativa, di accompagnamento in una quotidianità diversificata. Già la presentazione del documento ci lascia intendere quale dovesse essere il clima di straordinario sconvolgimento provocato da un simile passaggio; una madre, scriveva l'allora assessore, si lamentava del fatto che il figlio non tornasse più a casa stanco e affaticato dopo la giornata di solo lavoro, quindi non ponendo problemi e andando a letto presto. Adesso – continuava la mamma – quando torna, mi racconta un sacco di cose. Fanno questa ginnastica, recitano questo e quello, si divertono con vari giochi e fanno pittura, lavorano la creta, fanno espressione con il corpo…
Lavoro protetto o meno, in quegli anni si trattava di trovare, non dimentichiamolo, alternative all'oblio tra le mura di casa o addirittura al manicomio, che non era solo una lurida prigione per il malato mentale ma diveniva ricettacolo di persone con i più svariati problemi sociali: dall'adolescente con problemi comportamentali, all'alcolista, al disabile intellettivo. Il superamento del Centro di Lavoro Protetto, spiega il documento, avvenne non solo per andare incontro alle diverse, umane esigenze delle persone, ma anche perché, da un lato, l'attività lavorativa chiudeva la rappresentazione sociale dell'handicappato intorno alla mera capacità produttiva, con occupazioni che spesso si basavano sullo sfruttamento di manodopera a basso costo se non addirittura non remunerata. Dall'altro lato, una simile visione escludeva in partenza le persone colpite da una disabilità intellettiva grave o gravissima, per le quali non era possibile pensare a nulla di quello che oggi si definisce occupazionale.
In un'epoca in cui ancora, sui luoghi di lavoro, si parlava di lavoro, nascono nuove tipologie di servizi per le persone con disabilità intellettiva. Si aprono davvero brecce nei muri, almeno quelli fisici, delle case e delle istituzioni e poi nelle vite cronicizzate e reificate. Si portano fuori le persone, si organizzano i cosiddetti laboratori, che oggi conosciamo fin troppo bene ma che negli anni settanta insegnano sguardi nuovi, freschi, curiosi: per la prima volta, attività che considerano anche gli aspetti ludici, espressivi, affettivi e per quanto possibile la percezione di sé e del mondo; un benessere che passa attraverso la cura (non la terapia!), il sentirsi considerati, attivi in qualcosa, per una quotidianità non solo fisiologica e medicalizzata.
Nelle parole del vecchio documento la fatica e i dubbi di un'innovazione che solo un decennio prima aveva dell'incredibile e suscitava il sarcasmo degli intellettuali e dei manovali del sociale: pensiamo ad esempio al 1973, quando Franco Basaglia (uno che si faceva, appunto, ridere dietro…) mette a disposizione di Vittorio Basaglia, pittore, Giuliano Scabia, poeta e teatrante e di un gruppo di artisti un intero padiglione vuoto dell'Ospedale Psichiatrico di Trieste; con l'indicazione perentoria –venite e fate quello che volete –. Laboratori, riunioni, fatica, disegni, scetticismo, poesie, burattini, scoperte, attese, sorrisi, una città che si apre; Marco Cavallo è ancora là, simbolo vivo, non da museo.
Nelle foto sulla dispensa della Provincia di Torino vedo un'energia nuova. Sui volti, l'attenzione ancora fresca degli operatori per la ricerca dell'umanità di ciascuno e non solo delle sue capacità residue, meglio se lavorative. Scorro le immagini di sport, escursioni, vacanze, laboratori di musica, teatro, arti visive… ma mentre gongolo, specchiandomi in un barbuto operatore che lavora sulla consapevolezza e l'espressività del gesto, il mio cellulare ronza con indelicata insistenza; mi riporta all'oggi. E allora, con gli occhi posati ancora su quelle vecchie foto, si propone, semplice e perturbante, una constatazione: sono passati quarant'anni, ma nei nostri servizi educativi la vita della persona con disabilità intellettiva è ancora organizzata in laboratori, in attività. Tra l'altro, sono più o meno sempre gli stessi…
Hans Schnier, protagonista del libro di Heinrich Boll Opinioni di un clown, così parla di un suo numero: – una (fin troppo) lunga pantomima in cui lo spettatore fino alla fine confonde arrivo e partenza -. Ecco, è questa la sensazione che mi prende: l'aver confuso l'inizio del viaggio con la meta! Il bisogno e il desiderio di cambiamento sembra che si siano accontentati del primo tratto di strada un po' come è accaduto con la Legge 180 del 1978. La strutturazione per laboratori non ha subito alcuna evoluzione sostanziale, e quell'organizzazione dei servizi che quarant'anni fa rappresentava un respiro nuovo, ora sa di aria stantia.
Le attività laboratoriali, con la loro possibilità di operare in gruppi, anche numerosi, hanno finito per trasformarsi da eventi di apertura a comodi modelli di organizzazione e gestione del quotidiano nonché di chiusura nelle istituzioni. L'apertura al territorio (definizione che dice tutto e nulla) è un argomento ancora colmo di contraddizioni e di illusioni e teoricamente obbligatorio solo per servizi offerti a persone in grado di gestire in modo indipendente una buona parte della propria quotidianità; mentre nel caso di disabilità gravi e gravissime, la giornata può tranquillamente svolgersi all'interno dei locali istituzionali.
Ma non è dell'apertura al territorio che voglio parlare qui. Bensì dei modi e delle motivazioni con cui si realizzano le attività di laboratorio, del fatto che esse abbiano ormai preso il sopravvento sulla persona, nel senso che troppo spesso non vengono progettate per andare incontro alle diverse soggettività, per cercarle, oppure per ascoltarne i bisogni e le istanze.
Certamente, a livello organizzativo, di fronte a normative che pretendono di misurare efficacia ed efficienza nel lavoro educativo, che dettano rapporti numerici di un operatore ogni 3-4-5 utenti, oppure definiscono lo standard di assistenza garantito, espresso in minuti settimanali dedicati all'ospite, la strutturazione di un servizio per la disabilità intellettiva grave in attività laboratoriali è quasi una strada obbligata perchè permette una gestione ordinata e controllabile. Accade anche che l'istituzione decida aprioristicamente il tipo di laboratori, il loro scopo, indipendentemente dalle persone che dovranno frequentarli, che vengono semplicemente inserite nelle attività da eseguire. In alcune cooperative sociali dalla forte accezione produttiva, l'educatore ha il solo ruolo di affiancare l'utente nello svolgimento del lavoro, senza la possibilità di inserirsi con uno studio ed un accompagnamento negli aspetti relazionali e emozionali, men che meno con variazioni della routine quotidiana, con l'abbandono o la modifica delle attività e l'attivazione di proposte diverse. Un'impostazione che non differisce certo dal vecchio sistema del lavoro protetto.
E’ certamente più facile, anche per l'operatore, lavorare secondo un precisa scaletta, occuparsi dei materiali necessari, piuttosto che improvvisare, non nel senso di inventare a caso ma in quello di cogliere gli imprevisti e variare. Accade allora che i manovali del sociale si adagino nelle attività, come in una comoda e lineare nicchia di programmazione, dove sapere sempre cosa fare e quando; mentre gli intellettuali del sociale continuano, come un tempo, a ridere dei laboratori, a denigrarli, anche se con altre motivazioni…
Attualmente sono in fase di studio e di prima sperimentazione alcuni tentativi di incrementare la ricchezza di possibilità quotidiane per la persona con disabilità intellettiva, adattandole il più possibile alle richieste, ai gusti, alle necessità; che possono ovviamente mutare nel corso della vita. Un approccio che già in partenza sta facendo i conti con alcune, importanti questioni: quella economica, dal momento che si rendono necessari investimenti ben più pesanti dell'attuale sistema, se non altro perché il numero di operatori deve aumentare considerevolmente per poter seguire le persone con un rapporto quasi individuale; e poi perché le opportunità extra-istituzionali hanno un costo. Poi la questione del tempo: una quotidianità più libera prevede anche il non essere costantemente impegnati in un servizio; quindi le persone starebbero a casa o nelle comunità in momenti della giornata in cui ora non lo sono: questo è possibile per le famiglie e per i servizi residenziali? Anche qui si prevede quindi un necessario aumento degli operatori. Infine la questione culturale: la presenza di persone con disabilità intellettiva vuole che i luoghi si adattino ad accoglierli; nelle strutture, nei tempi, nella disponibilità di persone che operatori sociali non sono. Portando spesso le mie attività nelle scuole o nei luoghi dello svago e della cultura delle città, posso dire che c'è ancora molto da fare in questa direzione…
Non vorrei però essere frainteso: questo mio piccolo contributo non è un attacco ai cosiddetti laboratori. Non sono contrario ai laboratori, anzi: li voglio difendere. Sono utili e possono valorizzare anche la persona con grave o gravissima disabilità, senza contare che vi sono utenti che hanno bisogno delle certezze della routine, della ripetizione e della chiara e stabile scansione di un'attività. E poi, comunque la si pensi, i servizi dedicati alla disabilità intellettiva grave funzionano ancora così e lo faranno ancora per molti anni e dobbiamo farci i conti. Allora stiamo pure nel laboratorio, ma considerandolo un mezzo da piegare intorno la soggettività dell'utente; è necessario che l'operatore recuperi o mantenga la sua curiosità, la sua funzione di ricerca e legittimazione di una presenza: dell'altro e nell'altro.
Cosa vuol dire questo? Vuol dire progettare un'attività insieme agli utenti; vuol dire essere disposti a improvvisi cambi di programma, a interruzioni. Vuol dire cogliere dell'altro i minimi segnali, una parola, un suono, la piena semplicità di uno sguardo nuovo, di una smorfia, di una mano che ti stringe in modo diverso dal solito. Vuol dire accettare il silenzio e il rifiuto di fare come messaggi e non come affronti o sfide alla nostra preparazione. Vuol dire prendere un laboratorio e buttarlo via, dopo mesi o anni di lavoro, perché non coglie l'altro, non lo interessa, perché ci accorgiamo che ormai è il laboratorio degli operatori, non degli utenti. E vuol dire anche imparare a convivere con l'effimero: spesso ciò che nel laboratorio abbiamo trovato oggi, domani sarà scomparso e la ripetizione non basterà ricreare le medesime condizioni per il ritorno di una parola, di un gesto, o della stessa voglia di fare.
Sfoglio un'altra pubblicazione, questa volta molto recente; del CDD di Sesto San Giovanni, in provincia di Milano. Ad ospiti con disabilità intellettive e motorie molto gravi, con una comunicazione verbale assente ed una totale dipendenza per tutte le attività quotidiane, è stata fatta una proposta di stimolazione sensoriale e posturale, sulla scorta della Stimolazione Basale di Andreas Fröhlich. Gli ambienti, gli oggetti, le proposte di contatto e manipolazione non sono state fissate una volta per tutte e per tutti. Le educatrici osservano i visi che si rilassano, ridono o si contraggono nervosamente; le mani che accarezzano o buttano via; gli sguardi che si accendono o che finiscono per coinvolgere, finalmente, qualcun altro. E in base alle risposte senza parola, assumendosi anche la responsabilità e il rischio dell'interpretazione, dosano, cambiano, interrompono o ripropongono.
Se penso poi al laboratorio di Teatro, un'attività che tutti i servizi hanno e che io uso ogni giorno, ricordo un incontro che è diventato un esempio per il modo di lavorare di tutta un'equipe. Siamo seduti in cerchio e mi accingo a introdurre il lavoro della mattinata. Dario, uno dei partecipanti, alza la mano e dice – Ho un problema. Ho un problema con i miei genitori: mi rompono perché faccio le telefonate…-. Io e la mia collega abbiamo a disposizione una frazione di secondo per decidere se rimandare o meno la conversazione; ma anche quella frazione è troppo. Subito si alzano mani e voci: – anche i miei genitori rompono! – anche i miei, mia madre non capisce niente! – Ieri ho litigato con mia sorella… –
La decisione è venuta da sola: quella mattina non abbiamo fatto nulla di teatrale; il nostro programma lo abbiamo lasciato da parte ma abbiamo dato ai partecipanti la possibilità di parlare di sé. E la cosa non è finita con quella mattinata. In ogni seduta dei vari laboratori teatrali (e poi non solo) mettiamo sempre a disposizione di chiunque lo desideri un po’ di tempo, all’inizio o alla fine, per dire. Le questioni che emergono diventano motivo di lavoro e discussione, con la persona e tra colleghi, durante la settimana. Ecco che da un’attività (e dal suo accantonamento) è scaturito qualcosa di molto più importante dell’attività stessa.
Un'attività che certamente, come dicevo sopra, può dare i suoi frutti succosi anche se portata avanti per quello che è. Dico questo pensando alla signora Paola: cinquantacinque anni (e per questo mi irrita che venga chiamata Paolina), in carrozzina, non parla, muove a fatica le braccia. Ma ha un viso che esprime, sempre posate sopra un'eterea malinconia, le sue domande e il suo sguardo sul mondo. Cosa fa Paola nel laboratorio teatrale? Ma è il laboratorio che può fare qualcosa per lei, con lei. Le sue educatrici lo sanno ed hanno osato proporglielo, contro lo scetticismo (di nuovo!) delle colleghe. Porto Paola al centro del gruppo. Metto una musica e le chiedo di eseguire i movimenti che vuole. Tutti gli altri hanno il compito di entrare, ciascuno secondo le sue possibilità, nei suoi gesti: chi li imita, chi li prende e ne fa altro, chi la accompagna sfiorandole le mani; chi non fa nulla. Per interagire a distanza con gli altri e con lo spazio, le consegno una torcia elettrica. Illumina le cose, le persone; il gruppo gioca con lei e lei col gruppo, in una serie di dialoghi scherzosi. Adesso lei c'è e lo sente. Io vedo il suo sorriso aperto, a volte una risata sonora ed è come se vedessi prendere vita una di quelle foto degli anni settanta che guardavo sulla dispensa della Provincia di Torino.
E penso che andare avanti, rispetto ad allora, voglia dire quasi paradossalmente tornare a quarant'anni fa, per recuperare di quel tempo, di quel modo di operare, la freschezza e la voglia di intraprendere, insieme all'altro disabile, continue partenze…
Edgar Contesini
Educatore. Operatore teatrale.
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