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I lapsus di un uomo ridicolo. Caso esposto al XIX Congresso della Scuola lacaniana di psicoanalisi

11 Lug 22

A cura di Maurizio Montanari

I LAPSUS DI UN UOMO RIDICOLO
 
Vittorio è un uomo maturo, sulla cinquantina. Avvocato di successo e con carattere poco socievole, conduce da sempre una vita ritirata, un isolamento spezzato solo dalla passione per la recitazione teatrale. Da alcuni anni soffre di attacchi di panico per i quali assume abitualmente farmaci.  Mi contatta perché, terminata una prestigiosa accademia teatrale, tali crisi gli impediscono di recitare. In questo ultimo anno gli attacchi lo hanno colpito in concomitanza del transito vicino a strutture sopraelevate (il palco del teatro, la scalinata).  Al secondo incontro gli sfugge un lapsus che coglie a fatica. ‘E’ l’altezza il problema. Il panico mi abbatte quando sono davanti a qualcosa di altro’.
‘Altro?’ dico io.
‘Volevo dire alto! Non mi metta le parole in bocca! ‘.
Lascia la seduta stizzito. 
Nonostante ciò, negli incontri successivi accetta di percorrere la strada aperta dal lapsus.
‘Stare con gli altri non mi è mai riuscito, per questo vivo isolato. A teatro invece è più facile, perché indosso una maschera. Ma oggi, a causa del panico non riesco nemmeno più a recitare’. 
 
La sua compagnia mette in scena ‘ Amleto ’ per una trasmissione. L’opera è preregistrata. Quando è il suo turno di salire sul palco viene bloccato da un violento senso di costrizione cardiaca e dolore intercostale. Nel corso delle prove successive l’impedimento si ripresenta costantemente, costringendolo alla fine ad abbandonare.   
 
‘Lei dice che la maschera la facilita, ma non riesce a salire’.  
 
‘Non ce la faccio!  Quando salgo mi sento nudo, temo che verrei deriso’.
 
‘La recita è a porte chiuse, non c’è nessuno in sala. Chi può mai deriderla, oggi?’.  
 
 Quell’ ‘oggi’ apre ad uno snodo.
 
‘Credo riguardi il casino della mia infanzia. La verità è che io temo di essere preso in giro’.
 
Il significante essere deriso fa il suo ingresso in seduta. Gli chiedo di parlarmene.
 
Il padre morì in un incidente d'auto poco prima che lui nascesse. Il fratello, di 5 anni più vecchio, e la madre emergono in tutta la loro problematicità.
 
‘ Mio fratello mi ha sempre odiato! Dopo la mia nascita ha cercato di cancellarmi’.
 
Lo descrive come un violento  scansafatiche, ‘ un parassita, il matto del paese’, oggetto della costante preoccupazione della madre. Sovente si fa vivo a casa di lei dicendo di essere gravemente malato. Vive grazie ai servizi sociali.
 
 ‘Lei è sempre al telefono, in perenne stato di apprensione per quello stronzo che si mette nei guai e poi finge di stare male.’
 
La mai sopita questione del riconoscimento, oggi elemento vivo e riattualizzato dalle sedute, lo porta a gareggiare sull’asse del dolore.  
Un giorno le grida tutto il suo rammarico:
‘ mamma, anche io sto male! Vado da uno psicologo!”.
 
Quando mi riferisce questo episodio, volendo stigmatizzare il fatto che lei non abbia reagito, incappa in un altro lapsus:
 
‘ Dopo che glie l’ho detto, lei non ha avuto nessuna erezione!’
 
‘Erezione’? Sottolineo io.
 
Digrigna i denti e mi guarda torvo, ma stavolta non se ne va irato, non contrasta ma si piega al lapsus riuscendo a collegarlo ad una scena che riaffiora dal passato: una mattina, uscendo entrambi dalla doccia, rimase alquanto colpito dall'aver visto il membro del fratello che era più sviluppato del suo. Umiliato, cercò di strofinare il proprio pene alla ricerca di un'erezione per compensare quella differenza. Il fratello se ne accorse e sul momento non disse nulla.  Attese malignamente la prima occasione pubblica, una gita al mare con gli amici, per raccontare l’accaduto coprendolo di ridicolo agli occhi degli altri. In altre occasioni lo trascinava in mezzo ai compagni gridando ‘dai, tira fuori quel fagiolo!.’   
 
I diversi sentieri aperti in seduta dai lapsus sono contornati da questi significanti: la scena, l’essere ridicolizzato, l’indifferenza materna. Il tempo edipico si tratteggia: il padre è mancato, il fratello ha cercato di mettere Vittorio fuori campo relegandolo al ruolo di scarto. Vittorio ha pagato l’assenza di una barriera simbolica capace di schermarlo dalla sua sregolata violenza.  Funzione che la madre non solo ha rifuggito, scegliendo al contrario di appoggiare i tratti sadici del fratello.
Il panico lo assale quando, dopo una vita passata nell’anonimato, si appresta a ritornare sulla scena, di fronte all’Altro, riattualizzando quella sensazione di nudità, di ragazzino esposto al ludibrio. Un movimento per il quale gli strumenti del simbolico non paiono in grado di sostenerlo. Il panico lo colpisce e lo affonda, ma al contempo lo avverte e lo preserva mettendolo in allarme quando quello scenario interiore passato minaccia di riaffiorare rievocato da una contingenza attuale.
La crisi violenta lo tiene lontano da un luogo per accedere al quale si è reso necessaria     un’opera di revisione tesa a far riemergere e bonificare la scena traumatica primigenia.
Con Lacan scorgiamo come l’angoscia segni l’impasse del soggetto nel non essere in grado di dare una risposta al ‘cosa vuole l’altro da me, ‘, se non intravedendo la sola risposta possibile: tornare nella posizione di oggetto dello scherno e della nudità. Pasto dell’Altro che lo umilia.    Il  ‘Che cosa vuole l’altro  rispetto a questo posto dell'io ?’ si adatta benissimo alla posizione di Vittorio che appunto si chiede ‘Quale posto occupo sulla scena?’.   
Si testimonia qua l’atemporalità dell’inconscio, l’angoscia come affetto che convoca il soggetto minacciato d qualcosa di ancora non chiaro, ma che lo riguarda, ‘interessato nella sua sfera più intima’[1]. L’angoscia acuta come interdetto alla ripetizione dello scenario, quasi a voler ammonire ‘prima di avvicinarti a rivivere quel momento, devi lavorarci sopra. Quel tempo va elaborato prima di riprodurlo’.
Possiamo dire con Freud di essere in presenza di quel segnale di angoscia che    ricorda un evento traumatico, fungendo da avvertimento per un pericolo futuro. Segnale che Vittorio coglie appieno rifiutando di affrontare direttamente quel momento in cui   passato e   presente si elidono sovrapponendosi, perché impedito ad accedervi. Caduto, va a perfezionare il suo arsenale simbolico e si mette al lavoro iniziando a ragionare, a storicizzare e decifrare l'evento traumatico antico, e in seduta lo padroneggia.
L'angoscia, in questo caso, è stata un utile avvertimento.
 
Rifletto sul tema del congresso: il silenzio dopo il lapsus non è esso stesso interpretazione?  Io non ho proferito verbo lasciando che l’inconscio parlasse e, parlando, ho delegato a lui il compito di vincere le resistenze messe in atto da Vittorio che, inizialmente, negava la traccia contenuta nel lapsus.
Non mi sono avventurato in interpretazioni, l’evidenza del lapsus costituiva quel punto di verità tale da rendere inutile ogni commento.
Dopo tanti anni di silenzio, i fratelli si parlano.   La sua sensazione riferita è che del fratello in verità gli importi poco o nulla, il vederlo in quelle condizioni miserrime ne  ha in parte depotenziato l'odio. 
 
‘Vorrei che lui si rimettesse a posto. Ma non per lui. Vorrei che si riabilitasse di fronte a mia madre, che la smettesse di essere un suo pensiero fisso. Forse così lei finalmente mi vedrebbe, e capirebbe che io non sono un uomo ridicolo!’.  Sarà il tempo a dire se Vittorio riuscirà a mettere ordine nel passato, affinando la capacità di elaborare la scena perturbante del ridicolo alla quale è stato esposto per poi tentare nuovamente la carriera di attore, a tutt'oggi abbandonata.   
 



[1] Sem. X, p. 173

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