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I nostri riti di passaggio e i loro

23 Nov 22

A cura di dinange

(già apparso sul sito web Reggio Fahrenheit il  14.2.15)

Van Gennep ci ha insegnato che ogni passaggio da uno stato sociale ad un altro comporta – ed ha comportato sempre e in ogni dove – un processo di cerimonializzazione dovuto ad uno stato di ansia e di angoscia che prende tutti coloro che sono coinvolti nel passaggio.
I neofiti perché non sanno cosa li attende nella nuova condizione cui vanno incontro. I ‘seniores’ poiché più o meno acutamente temono che l’arrivo dei neofiti sconvolga le regole vigenti. Le cerimonie di passaggio variano da cultura a cultura, ma tutte hanno in comune la mimesi di una morte e di una rinascita, guidata da sacerdoti che presiedono al passaggio. Pensiamo al significato del battesimo, del matrimonio, del funerale per rendercene conto. Ma anche alla goliardia, al nonnismo, alle cerimonie d’ingresso nella massoneria o in una società criminale.
Più di recente il sociologo francese Le Breton ha studiato i riti che accompagno oggi il passaggio degli adolescenti all’età adulta; ed ha concluso che nelle culture metropolitane, di fronte all’attuale eclissi di cerimonie di passaggio condivise con gli adulti, i giovani tendono a segnare se stessi ed il proprio corpo con “riti intimi paralleli”, come ad esempio il piercing, il tatuaggio, le prove estreme; che testimoniano quanto importante sia il passaggio nell’economia psichica di ciascuno di noi. Le ricerche del nostro Pietropolli Charmet confermano in pieno questa ipotesi.
 
Una cosa alla quale non facciamo caso però è che i migranti esterni o interni devono fare un passaggio in più rispetto a quelli compiuti da chi sostanzialmente rimane per tutta la vita all’interno della propria cultura originaria: un ulteriore passaggio che avviene sotto il segno dell’acculturazione. Cioè in base a quel processo sempre ‘violento’, cioè traumatico, che nasce dall’impatto fra due culture.
Processo all’interno del quale c’è sempre una cultura egemone e una cultura “vinta”, ci dice un altro francese: l’antropologo René Dupront. Il quale aggiunge che il tasso di violenza e di contaminazione fra due u più culture può essere più o meno basato su di uno scambio reciprocamente arricchente, più o meno fondato sulla ghettizzazione o addirittura sulla distruzione della cultura vinta.
Se vogliamo fare due esempi classici: Roma e la Grecia da una parte: Graecia capta ferum victorem cepit. Cioè la Grecia (militarmente) vinta conquistò (culturalmente) il buzzurro vincitore romano. Roma e Cartagine dall’altra.
 
Tornando subito a noi è indubbio che l’assenza da parte nostra (italiana, voglio dire; ma anche reggiana, come vedremo più avanti) di cerimonie di passaggio dei migranti rende molto più problematica la loro presenza qui.
Negli USA almeno l’acquisizione della cittadinanza americana comporta una precisa cerimonia basata sul giuramento del neofita sulla Costituzione. Ciò non toglie che poi lo scambio rimanga problematico e basato su di una stratificazione ‘razziale’. Ma almeno fa si che il novo arrivato non rimanga un’ombra inquietante destinata ad essere riempita di ogni proiezione che deriva dalle nostre parti interne represse e misconosciute. Delle nostre ombre, insomma.
In base a questa carenza da una parte può accadere che ‘loro’ possano picchiare un proprio figlio, spingere le proprie mogli ad indossare il burka, sottoporsi ad una escissione o ad una infibulazione, etc. etc., perché così si fa nelle proprie culture d’origine, senza nessuno possa dire loro che una volta entrati in Italia, devono
acconciarsi ad accettare le nostre regole di convivenza sociale. Così come si acconciano a sposare la nostra lingua, ad esempio. Dove acconciarsi sta a significare avviare un processo di sintesi ciò che erano e ciò che stanno diventando.
E, di converso, dall’altra parte – cioè dalla nostra – nessuno di noi autoctoni si prende cura di coltivare un processo acculturativo sul piano dello scambio e della reciprocità. Lasciando che questo processo sedimenti odi ed incomprensioni che spesso finiscono con l’accrescere le distanze e mortificare la dignità e la stessa identità dei nuovi arrivati.
 
E si sbaglia chi circoscrive questo problema ai migranti esterni. Come sta venendo fuori in termini drammatici in questi giorni tutta la storia del rapporto fra reggiani autoctoni e cutresi sta a dimostrare che la sottovalutazione dei significati dei processi acculturativi e l’assenza di cerimonie d’ingresso abbia potuto sedimentare “poi” – cioè oggi – modalità di convivenza che hanno sconvolto e stravolto il tessuto sociale senza che nessuno nel frattempo si sia mosso. Fino a che l’estendersi delle metastasi su tutto il corpo sociale non ha spinto gli organi repressivi dello stato ad agire su di esse. Questo è meritorio! Ma, come sappiamo, spesso non basta a garantire il ritorno ad uno stato si salute.

[nella foto in alto: Arnold Van Gennep]

 

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