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I tesori del passato nel presente: le “Ultime cose” di Saba

1 Giu 22

A cura di Sabino Nanni

         Se scopo di ogni cura è aiutare il paziente a divenire padrone di sé stesso, è bene aiutarlo a recuperare quanto, nella rievocazione della sua storia, può renderlo più presente a sé stesso, più a contatto con la sua autentica natura. La nostalgia, perciò, può divenire feconda: si tratta di ritrovare, a partire da quelle presenti, esperienze del passato di cui non si era ancora compreso appieno il significato, di riscoprire una capacità di coinvolgersi nella vita (e soprattutto di amare) di cui allora non si era capito il valore, e che sembrava perduta o mai posseduta. Tutto questo significa rafforzare le risorse interiori necessarie per affrontare gli orrori che troppo spesso la vita c’infligge, ed oggi lo vediamo chiaramente. Saba, in proposito, ci offre importanti suggerimenti.
        In questa sezione de “Il Canzoniere”, le “ultime” cose (da intendersi, credo, come le cose “più recenti”) possono divenire lo specchio del passato. “… il presente, invece di esaurirsi in sé stesso, fa rivivere, riacutizzandolo, il passato; lo esaspera a significati attuali a un tempo e remoti.” (“Storia e cronistoria del Canzoniere”, pag. 306). Vediamo, ad esempio, questa poesia (i numeri di pagina si riferiscono all’edizione Einaudi del 1961):

 
Bocca – pag. 446

La bocca
che prima
mise alle mie labbra il rosa dell’aurora,
ancora
in bei pensieri ne sconto il profumo.
 
O bocca fanciullesca, bocca cara,
che dicevi parole ardite ed eri
così dolce a baciare.
 

Saba (ibidem, pag. 306, 307), cita gli ultimi tre versi di questa poesia come esempio di una caratteristica che accomuna tutte le “Ultime cose”. Citando, a sua volta, il critico Debenedetti, ci parla di “presenze e non ricordi: sono tratti delle figure un tempo amate, che sono rimasti sospesi nell’aria, fatti di aria essi stessi: sono gli sguardi, i sorrisi, sono l’ombra che scende da un ciglio; cose ancora così fisiche, così legate a una persona, eppure già impalpabili, come anime”. Cose “fisiche”, ossia elementi sensoriali grezzi di carattere tattile, olfattivo, visivo, uditivo (Bion direbbe “elementi beta”) mai elaborati mentalmente: le intense emozioni, ad essi legate, non erano mai state tradotte in parole e divenute pienamente coscienti; pur essendo di origine remota, non erano mai state collocate nel tempo. Tali elementi sono “presenti”, perché evocati in modo vivo da uno stimolo sensoriale del momento attuale (come la “madeleine” di Proust), eppure appartenenti a un tempo che non esiste più, come c’illustra lo stesso Saba a proposito di questa bocca: “Tanto presente, … eppure irraggiungibile nel tempo, come fosse vissuta in altri secoli, appartenuta a una creatura di cui non sapremo mai più nulla. Quei versi pare di leggerli su una tomba pagana, o graffiti sul muro di un’antica città dissepolta”. La “presenza” di questa bocca è così viva da risvegliare l’antica sensualità, e la curiosità di un tempo. Tuttavia il ricordo della persona cui apparteneva si è perso. Ciò stimola la fantasia del Poeta a ricostruire la natura di tale persona, a ridarle vita. Questo è il modo in cui i residui del passato possono arricchire la vita interiore presente.

 
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Lavoro – pag. 443

Un tempo
la mia vita era facile. La terra
mi dava fiori, frutta in abbondanza.
 
Or dissodo un terreno secco e duro.
La vanga
urta in pietre, in sterpaglia. Scavar devo
profondo, come chi cerca un tesoro.
 

L’infanzia e la giovinezza sono caratterizzate da grande vivacità interiore: da una fantasia, stimolata ogni momento, che produce, a getto continuo, immagini, idee, sogni. Si tratta, tuttavia, di una creatività che resta in superficie, che non ha bisogno di scavare in profondità per trovare i suoi “tesori”, sempre immediatamente disponibili e mai apprezzati come tali. Solo in tarda età i prodotti della creatività vengono valorizzati pienamente, ma il trovarli richiede un lavoro impegnativo: un lungo lavoro di scavo in profondità fra i ricordi, in cui occorre affrontare “l’urto di pietre e sterpaglia”, ossia il carattere in sé doloroso di ciò che suscita nostalgia: le perdite irrevocabili, le illusioni perdute, le attese di quanto sarebbe potuto avvenire e non è avvenuto.

 
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Fontanella – pag. 445

Sotto gli alberi spogli del viale
degli svaghi offre invano il suo zampillo.
 
Ma è venuta l’estate, altro le accade.
È cara a tutti, al vecchio curvo come
al giovane che il suo corpo modella
nel segno sotto cui nacque, severo.
Il passante che segue di un pensiero
arido i fili e la scopre,
devia verso una gioia pronta e gratuita.
 
Offre un sorso di vita ad ogni vita,
che in sé grata l’accoglie, poi l’oblia,
per proseguire ignara al suo destino.
 

“Sorso di vita” come metafora dell’atto d’amore, necessario per la nostra sopravvivenza, che ci fu offerto all’inizio della vita, e che occasionalmente si ripete anche in epoche successive da parte di persone diverse. Viene in mente lo “emotional refueling” della Mahler. Tale gesto di generosità è sempre disponibile, anche quando non ne sentiamo il bisogno: la fontanella offre il suo zampillo anche quando, d’inverno, non abbiamo sete. Tuttavia il bisogno periodicamente si risveglia, nel giovane vigoroso come nel vecchio ingobbito. Allora, il “sorso di vita” è come una parentesi che si apre, interrompendo gli “aridi pensieri” (quelli legati alle necessità di ogni giorno) che caratterizzano la nostra vita quotidiana. Il passante gode di questo atto generoso d’amore, necessario per sostenere la sua vitalità interiore, e ne prova gratitudine. Tuttavia subito lo dimentica, perché il percorso successivo della sua esistenza, pieno d’incognite, assorbe completamente i suoi pensieri.

 
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Caro luogo – pag. 447

Vagammo tutto il pomeriggio in cerca
d’un luogo a fare di due vite una.
 
Rumorosa la vita, adulta, ostile,
minacciava la nostra giovanezza.
 
Ma qui giunti ove ancor cantano i grilli,
quanto silenzio sotto questa luna.
 

È, qui, illustrato quel che rende dolce il rapporto fra due giovani amanti. Nell’abbraccio tra due persone appena divenute adulte, si avvertono gli echi di un’esperienza remota: le due vite (le due esistenze soggettive separate e differenti l’una dall’altra), (ri)divengono una; il contatto evoca l’antica simbiosi. La vita adulta che si svolge al di fuori di questo rapporto viene avvertita come ostile e minacciosa, perché in contrasto con il carattere unico di questo mondo paradisiaco ricostruito dai due ragazzi. Solo Madre Natura asseconda quest’esperienza e ne è come partecipe; ma si tratta di una Natura quieta, silenziosa, che completa la scena solo col canto dei grilli, e la luce attenuata della luna: nessun stimolo sensoriale violento disturba il contatto fra i due amanti, così come il momento d’intimità fra madre e neonato non deve essere disturbato in alcun modo. Il rapporto fra due giovani soddisfa i desideri di due adulti e, nello stesso tempo appaga le esigenze della nostalgia.

 
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Amico – pag. 450

Trovare,
quando la vita è al tuo declino, il raggio
che primo la beò: un amico. È il bene
che mi fu dato.
 
Simile a me e dissimile, ribelle
e docile. Lo guardo
a me vicino respirare come
un figlio fuor d’ogni speranza nato
tenera madre.
 
In breve partirà, per la sua via
andrà, dubbia e difficile. Alle angosce
dei miei anni in discesa lascerà
egli la casta dolcezza di un bacio.
 
Ma, se il tempo gli orrori suoi precipita,
a serena letizia oggi si è volta
per lui la mente mia.
 

L’amico ritrovato è, nel presente così come lo fu nel passato, oggetto di una “traslazione gemellare” (“twinship tranference” di Kohut), ossia di un investimento narcisistico su di un essere simile, ma non identico, al soggetto. Tale rapporto, così come ebbe un effetto vivificante sul Poeta nella sua epoca giovanile, in cui il Sé era ancora in fase di crescita, lo è anche ora, nel declino senile. Saba coglie una similitudine fra i suoi sentimenti verso l’amico e quelli di una donna che riceve dalla vita, e le offre, il dono insperato di un bambino: ancora avvertito, in parte, come prolungamento di sé stessa, ed in parte già dissimile e dotato di un’esistenza autonoma: respira indipendentemente da lei. Come il figlio che, crescendo, si allontanerà da chi lo ha messo al mondo, così succede all’amico, alla fine dell’incontro. Entrambi dovranno affrontare (o tornare ad affrontare) le incertezze e le difficoltà della loro vita da soli, senza più disporre della partecipazione e della protezione di chi li ha amati. Tuttavia, anche qui, la traccia lasciata nel Poeta da un elemento sensoriale (la “casta dolcezza di un bacio”) continuerà a testimoniare l’esistenza di un rapporto che fu ed è fonte di “serena letizia”.

 
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I morti amici – pag. 451

I morti amici rivivono in te,
e le morte stagioni. Che tu esista
è un prodigio; ma un altro lo sorpassa:
che in te ritrovi un mio tempo che fu.
 
In un paese m’aggiro che più
non era, remotissimo, sepolto
dalla mia volontà di vita. È questo
il bene o il male, non so, che m’hai fatto.
 

Ritrovare, dopo tanto tempo, un vecchio amico porta a rievocare antiche esperienze vissute insieme. Tuttavia si scopre che molti ricordi, ancora vivi in lui, in noi sono spariti; e l’amico prova le stesse sensazioni: altri episodi, che noi ricordiamo, a lui sembrano estranei. Avviene come uno scambio che porta a far rivivere pienamente, da parte di entrambi, “le morte stagioni”, anche in quegli aspetti del passato che “per volontà di vita”, il Poeta tenta di respingere da sé, per non aggravare il cumulo delle memorie, che non sempre le parole riescono a sciogliere” (Storia e cronistoria del Canzoniere, pag. 307). La vita impone che l’attenzione di ciascuno sia concentrata soprattutto sui problemi del presente; e quegli aspetti del passato che potrebbero essere rievocati, ogni momento, da innumerevoli stimoli sensoriali, non possono essere tutti resi pensabili, ossia trasformati in parole, e divenire veri e propri ricordi. Non tutti gli aspetti dell’esistenza degli amici che non ci sono più possono essere ricostruiti, non sempre il lutto può essere elaborato completamente e superato, soprattutto se troppo doloroso. Ecco perché il far rivivere, da parte dell’amico, ciò che la volontà di vita ha reso morto e sepolto, non è chiaro se sia un bene o un male: fonte di arricchimento della vita interiore (attraverso il recupero di ciò che si riteneva perduto), oppure risveglio di una nostalgia struggente che fa ripiombare nella disperazione?

 
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Partita – pag. 454

Quante speranze nel gioco! Ma poi,
sul tavolo abbattute,
tutte le carte erano contrarie.
 
Fu il destino, e l’accetto. Non gli faccio
mal viso, non mi lagno
come nella chiassosa giovanezza.
 
Ma conosco la scala che all’altezza
conduce a me possibile.
                                        Mi levo
tra volti amici, conto il mio guadagno.
 

Soprattutto nell’età giovanile (ma anche, occasionalmente, in quella adulta), anche la persona sana può cadere nell’illusione tipica della ludopatia: la speranza (e la pretesa onnipotente) di poter dominare ciò che per definizione non è dominabile: la “dea” bendata. Si tratta della madre arcaica, dotata di poteri magici, ma incomprensibile e imprevedibile, che viene identificata con tutto ciò che, nella vita, non dipende da noi e dobbiamo soltanto subire. Il gioco si basa su questa illusione, ed è per questo che, di regola, è fonte d’amarezza e solo raramente di sensazioni di trionfo. Tuttavia il Poeta, finita la partita a carte in cui ha perso, recupera il suo equilibrio di persona adulta: non rimprovera scioccamente il destino, né si lamenta, come poteva fare da giovane; i sentimenti d’amicizia verso gli avversari rimangono inalterati. Tutto questo gli è possibile perché ha imparato a fondare la propria autostima sulle sue reali capacità: conosce “la scala che lo conduce all’altezza a lui possibile”. Essendosi emancipato dalla madre arcaica, conta su sé stesso, e non sulla occasionale benevolenza della misteriosa e onnipotente Fortuna.

 
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Tappeto – pag. 456

Cose più belle della vita a lungo
cercavi, fanciulletta, nel suo pallido
disegno; chi sa quali evasioni…
 
Lo rivedi, al suo luogo.
                               Come allora,
il palazzo di Mille ed una notte
è aperto. Ma non v’entri tu, né alcuno
che con te sulle tue orme vagava.
Né le ceste ti allietano di frutta,
cui sorride il ragazzo che le porta.
Paradiso perduto, che rifugge
l’occhio che più l’amava, è il bel tappeto.
 

Nell’infanzia, anche l’oggetto più banale è stimolo alla fantasia. Una fantasia vivace, pronta a ricreare continuamente un mondo di fiaba, fatto di “cose più belle” della vita reale. Nel disegno di un tappeto, in cui lo sguardo distratto dell’adulto vedrebbe, al più, un insieme di decorazioni graziose, la fanciulletta entrava in contatto con l’incantevole palazzo delle Mille e una notte, e vi si addentrava. Il Poeta, sensibile a tutto ciò che fa rivivere il “fanciullino” che c’è in lui, seguiva le sue orme e ritrovava qualcosa del Paradiso perduto. Tuttavia la fanciulletta ora è cresciuta, ed il suo occhio, reso disincantato dalle delusioni della vita e dalla sua più completa immersione nella realtà oggettiva, rifugge da quel che un tempo più amava, perché fonte, allora, di splendide immagini. Immagini che ora sono scomparse.

 
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Principio d’estate – pag. 457

Dolore, dove sei? Qui non ti vedo;
ogni apparenza t’è contraria. Il sole
indora la città, brilla nel mare.
D’ogni sorta veicoli, alla riva
portano in giro qualcosa o qualcuno.
Tutto si muove lietamente, come
tutto fosse di esistere felice.
 

Solo il bambino è capace di sentirsi felice per il semplice fatto d’esistere: per lui è una novità, un prodigio. Naturalmente, tale felicità ha bisogno di rispecchiarsi nella gioia materna per la sua esistenza. Qui Madre Natura “sorride” all’esistenza delle cose e delle persone. Il Poeta avverte le antiche emozioni prodotte dalla scena, ma non può condividerle del tutto: in lui c’è dolore; un dolore cui il sole splendente, le cose, le persone, sembrano indifferenti.

 
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Anche un fiato di vento – pag. 458

Anche un fiato di vento pare un sogno
agli uomini del porto, alla bandiera
afflosciata là in cima alla terrazza
del Bagno della Diga.
Il mare, come in burrasca, si leva.
 
Sotto il cielo coperto è volta l’ansia
di tutti ad una raffica, alla prima,
che sbatterà le tende lungo riva,
chiuderà gli ombrelloni varieggiati,
per i quali l’estate ci veniva,
più amica incontro;
 
che sarà un refrigerio ed una fine.
 

Per le persone che, come il Poeta, amano l’autunno, la prima raffica di vento che preannuncia la fine dell’estate, è fonte di refrigerio. L’estate è, sì, “amica” perché stimola ed asseconda le pulsioni di vita, ma per Saba è eccessivamente ardente: non lascia spazio a quel quieto raccoglimento che ha bisogno di porsi al riparo dalle sollecitazioni del mondo esterno. L’inizio dell’autunno, perciò, è fonte di sollievo; ma è anche “una fine”. Il che adombra un’altra fine: quella della vita, ossia la meta perturbante della pulsione di morte.

 
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Notte d’estate – pag. 459

Dalla stanza vicina ascolto care
voci nel letto dove il sonno accolgo.
Per l’aperta finestra un lume brilla,
lontano, in cima al colle, chi sa dove.
 
Qui ti stringo al mio cuore, amore mio,
morto a me da infiniti anni ormai.
 

Le voci familiari nella stanza vicina, una luce che brilla “lontano, in cima al colle” (testimonianza di una vita umana che si manifesta fin dove lo sguardo può arrivare) evocano, nel Poeta, la presenza di un’invisibile “madre-ambiente” che lo avvolge e veglia sul suo sonno. Gli stimoli sensoriali del presente rendono concreta e attuale l’esistenza dell’antico oggetto d’amore, in realtà “morto da infiniti anni oramai”.

 
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Da quando – pag. 461

Da quando la mia bocca è quasi muta
amo le vite che quasi non parlano.
Un albero; ed appena – sosta dove
io sosto, la mia via riprende lieto –
il docile animale che mi segue.
 
Al giogo che gli è imposto si rassegna.
Una supplice occhiata, al più, mi manda.
Eterne verità, tacendo, insegna.
 

Se le parole hanno il potere di far rivivere il passato, trasformando in ricordi le percezioni del presente e le sensazioni che esse suscitano, troppo spesso vengono anche usate per soffocare tali spontanee sensazioni. Divengono, perciò (come Saba dirà più sotto, in “Spettacolo”) “menzogne inutili, che annoiano”: si conformano ai luoghi comuni ed all’arida realtà oggettiva, escludendo la vita interiore. Lo stare in silenzio, pertanto, è un modo per ritrovare sé stessi, la propria realtà. Il Poeta si rispecchia negli esseri viventi che non parlano: nell’albero, che manifesta la propria vitalità immobile e silenziosa con le sue foglie rigogliose, e nel cane al guinzaglio che lo segue. Nella “supplice occhiata” di quest’ultimo (costretto dal “giogo che gli è imposto” a conformarsi alla volontà del padrone) Saba coglie “eterne verità”: l’inevitabile rassegnazione a tutto ciò che, impotenti, dobbiamo subire passivamente nella vita.

 
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Piazza – pag. 463

Chi va in caccia d’amori, chi di svaghi,
chi solo di ricordi.
                                Baracconi
non hanno mani a vendere la sera
le indigeste castagne ai ragazzoni
della libera uscita.
                                In alto regna
la gloria ancora sull’antica piazza.
 
Personaggio a cavallo che si annoia
nel marmo che lo adùla goffamente.
 

Scrive Saba parlando in terza persona di sé stesso: “Egli non è mai stato un poeta ‘cerebrale’… così concede poco agli spaccatori di un capello in quattro; a quei ‘giochi d’intelligenza’ oltre i quali raramente si elevano quelli che fanno, in Italia almeno, professione di critici” (ibidem, pag. 308). Saba rifugge da tutto ciò che non si lega in modo chiaro ad autentici sentimenti: non solo quanto è puramente “cerebrale”, ma anche quel che è oggetto di vuota retorica; come, ad esempio, il monumento equestre della piazza. Qui il freddo marmo tenta invano di celebrare il personaggio che i più ignorano; riesce soltanto ad “adularlo goffamente”, perché effige che, alla maggior parte delle persone, non evoca ricordi e sensazioni e perciò annoia. In netto contrasto, un fervore di vita domina la popolazione della piazza: amori, svaghi, ricordi (anche qui evocati da realtà concrete e da stimoli sensoriali), esuberante vitalità dei “ragazzoni” di leva.

 
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Alberi – pag. 467

La colomba che preda la festuca
e la porta nel nido invidio, e voi
alberi silenziosi, a cui le foglie,
ben disegnate, indora il sole, belli
come bei giovanetti o vecchi ai quali
la vecchiezza è un aumento. Chi vi guarda
– verdi sotto una nera ascella frondi
spuntano; alcuni rami sono morti –
le vostre dure sotterranee lotte
non ignora; la vostra pace ammira,
anche più vasta.
                            E a voi ritorna, amico;
laghi d’ombra nel cuore dell’estate.
 

Esseri la cui bellezza riflette armonia, equilibrio, ed una stabilità che è frutto della capacità di sapersi rinnovare (mentre alcuni rami sono morti, altri nuovi spuntano): tali sono gli alberi, metafora di quegli esseri umani il cui modo di esistere e di apparire non è turbato da tormenti interiori, da conflitti non risolti, da carenze, da lutti non elaborati. Belli e sereni da giovani, con la vecchiaia acquistano nuove, buone qualità nell’aspetto e nella vita interiore. Alla base del loro modo di essere, apparentemente semplice e naturale, vi sono radici solide, divenute tali attraverso una difficile lotta contro tutti gli ostacoli opposti dall’ambiente al loro sviluppo, contro le avversità della vita. Sono “laghi d’ombra nel cuore dell’estate”: stare accanto a loro porta refrigerio, trasmette qualcosa della loro freschezza e della loro calma a chi rischia d’essere come bruciato dalle passioni della vita.

 
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Fumo – pag. 469

Conforto delle lunghe insonni notti
d’inverno
                 – allora in labirinti oscuri
errò, di angoscia, il pensiero; la mano
corse affannosa al tuo richiamo –
il filo
tenue che sale, poi si rompe, il cielo,
dall’aperta finestra, di un suo raggio
colora;
 
e mi ricorda una casetta, sola
fra i campi, che fumava per la cena.
 

Freud, nei periodi di più intensa attività creativa, sentiva la necessità d’accendere i suoi sigari. Kohut interpretò questo fatto come bisogno di appoggiarsi alla forma più antica e familiare di dipendenza, quella legata all’oralità, nel momento in cui si addentrava con la mente, da solo, in territori finora sconosciuti, in cui nessun essere umano aveva ancora messo piede. Saba c’illustra, qui, un analogo ricorso al fumo. La sua mente “erra in labirinti oscuri” ed angosciosi, e ciò gl’impedisce di riposare: qualche stimolo esterno, o qualche evento recente, gli ha risvegliato una sensazione vaga ed insistente. Come Poeta, egli non può reprimerla, e rientrare nel terreno rassicurante ed arido delle abitudini condivise da tutti e dei luoghi comuni: anche se è notte, egli non può dormire. È, per lui, inevitabile riflettere, entrare in contatto con la matrice oscura del pensiero e della creatività. Il primo raggio di sole, all’alba, colora il fumo che emana dal sigaro, e subito la sua immaginazione vi coglie la luce di un ricordo: gli ricompare il caminetto acceso per la cena nella casetta della balia che ospitava lui bambino. Ritrova quel calore e quel conforto che, allora, avevano dissipato la sua angoscia dell’abbandono materno. Ora, a dargli sollievo, non c’è soltanto la realtà concreta e presente del suo sigaro, ma un’antica immagine che può tradurre in parole e in Poesia.  

    
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Quando il pensiero – pag. 470

Quando il pensiero di te mi accompagna
nel buio, dove a volte dagli orrori
mi rifugio del giorno, per dolcezza
immobile mi tiene come statua.
 
Poi mi levo, riprendo la mia vita.
Tutto è lontano da me, giovanezza,
gloria; altra cura dagli altri mi strana.
Ma quel pensiero di te, che tu vivi,
mi consola di tutto. Oh tenerezza
immensa, quasi disumana!
 

Le persone capaci di mantenere un contatto col proprio mondo interno, ritrovano in esso le risorse necessarie per tollerare gli orrori che è inevitabile incontrare nella vita. Il Poeta trova, nel raccoglimento reso possibile dal buio di una stanza, un rifugio che gli consente di concentrarsi sul pensiero della persona che ama. La dolcezza di tale immagine lo assorbe, e gli produce un completo rilassamento: dissolvendo ogni tensione, rende non più necessaria la scarica motoria. Questa particolare esperienza di “emotional refueling” lascia il suo segno anche quando il Poeta riprende la propria vita attiva: la gloria, la giovinezza (fonti spesso illusorie della gioia di vivere) possono, ormai, essere lontane da lui, ma il pensiero della persona amata lo consola di tutto e gli consente di mantenere l’equilibrio interiore. L’amore è l’antidoto delle velenose istanze distruttive e autodistruttive risvegliate dagli orrori e dalle delusioni della vita. Per tale motivo, Freud identificava l’Eros con la pulsione di vita, la risorsa che ha consentito alla nostra specie di sopravvivere.     

 
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Sera di febbraio – pag. 471

Spunta la luna.
                          Nel viale è ancora
giorno, una sera che rapida cala.
Indifferente gioventù s’allaccia;
sbanda a povere mete.
                                      Ed è il pensiero
della morte che, in fine, aiuta a vivere.
 

I giovani difficilmente riescono a cogliere il significato simbolico del tramonto: per loro, la vita ha una durata illimitata. Disperdono, perciò, il loro tempo e le loro energie in “povere mete” perché non si pongono il problema dello scopo più importante cui dedicare quella breve parentesi fra il nulla e il nulla che è la vita umana. Solo il “pensiero della morte” (la scadenza oltre la quale non si potrà più perseguire nulla) spinge a concentrarsi sul progetto, specifico per ogni individuo, per cui la sua esistenza ha avuto un senso; e la vita può, così, essere vissuta pienamente, essere vera vita.

 
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Il vetro rotto – pag. 473

Tutto si muove contro te. Il maltempo,
le luci che si spengono, la vecchia
casa scossa a una raffica e a te cara
per il male sofferto, le speranze
deluse, qualche bene in lei goduto.
Ti pare il sopravvivere un rifiuto
d’obbedienza alle cose.
                                       E nello schianto
del vetro alla finestra è la condanna.
 

 La casa e la Natura che la circonda sono la metafora di una madre-ambiente che ci avvolge e ci accompagna nel corso della nostra esistenza. È il ricettacolo (in qualche misura protettivo) di tutto ciò che incontriamo nella vita: di qualche bene di cui possiamo godere, del male di cui soffriamo, delle speranze che ci aiutano a tollerarlo e che troppo spesso vengono deluse. Talora, scossa da tempeste, perde il suo carattere accogliente, diviene come ostile. Ci rifiutiamo, allora, di farci condizionare fino in fondo: vogliamo sopravvivere, resistere alle sue minacce, disobbedirle. Tuttavia lo schianto del vetro alla finestra segna la definitiva rottura del “guscio” protettivo, e questo è una condanna.

 
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Ultimi versi a Lina – pag. 474

La banda militare che affollava
vie più il Corso la sera, i fanaletti
oscillanti alla marcia – il battistrada
tronfio alzava e abbassava il suo bastone – ;
le tue compagne: la buona, la scaltra,
l’infedele in amore; il verde fuori
e dentro la città; le laceranti
sirene dei vapori che partivano;
le osterie di campagna;
                                        queste cose
furono un giorno – ricordi – cui venne,
una a una, una fine.
                                   La memoria,
amica come l’edera alle tombe,
cari frammenti ne riporta in dono.

 

Un’atmosfera di festa, le cui componenti – cose, persone, suoni, ambienti – appaiono come parti di un tutto inscindibile e destinato a durare tutta la vita: così l’esistenza, nei momenti migliori, può apparire quando siamo giovani. È un insieme in cui tutto e tutti sembrano trarre la loro ragione di esistere e il loro scopo dal renderci felici. Poi, man mano che il tempo passa, si scopre che ciascuno di questi elementi ha una sua esistenza autonoma, che anche la durata della sua vita non dipende da noi: il “tutto”, gradualmente, si disgrega, si dissolve nel “nulla”. Non restano che i ricordi che, così come l’edera che cresce sulle tombe, prestano un po’ della loro vita a frammenti di quel “tutto” che è scomparso per sempre.

 
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C’era – pag. 475

C’era, un po’ in ombra, il focolaio; aveva
arnesi, intorno, di rame. Su quello
si chinava la madre col soffietto,
e uscivano faville.
 
C’era nel mezzo una tavola dove
versava antica donna le provviste.
Il mattarello vi allungava a tondo
la pasta molle.
 
C’era, dipinta di verde, una stia,
e la gallina in libertà raspava.
Due mastelli, là sopra, riflettevano,
colmi, gli oggetti.
 
C’era, mal visto nel luogo, un fanciullo.
Le sue speranze, assieme alle faville
del focolaio si alzavano. Alcuna
– guarda! – è rimasta.

 

Un ambiente semplice, fatto di oggetti, persone e attività che rappresentavano, nell’infanzia del Poeta, la scena di ogni giorno e, perciò, sfondo quasi invisibile della vita di allora: questo è ciò che la memoria e la nostalgia di Saba ricostruiscono nei minimi dettagli, quasi che solo ora egli ne divenga pienamente cosciente. Fu lo sfondo dell’importante esperienza affettiva che offrì a Saba il conforto per l’abbandono materno: essa risvegliò, in lui, la fiducia e la speranza riguardo alla possibilità d’essere amato. Parte di tale speranza fu in grado di resistere all’azione deteriorante del tempo e rappresentò, per il Poeta, una potente risorsa. Lo sfondo che dà rilievo alla figura, pur essendo quasi invisibile, possiede un notevole valore affettivo in situazioni di questo genere: esso rappresenta simbolicamente la “madre ambiente” altrettanto invisibile; una presenza costante, tangibile (anche se non percepita) che, col suo affetto, la sua comprensione ed il suo appoggio, conferisce all’esistenza soggettiva (la figura) una sua consistenza ed un suo carattere definito. Ciò, se risvegliato nella memoria, è quanto può preservarci dalla sensazione d’essere “perduti”, ossia non più tenuti e accolti da nulla e da nessuno.

 
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Spettacolo – pag. 476

Tu non lasci deluso lo spettacolo
dove amori t’incantano e venture
e senti in quelle truccate figure
tutti i tuoi giovani sogni irritarsi.
 
Altre, quand’ero come te, ho versate
dolci usurpate lacrime.
 
Ora è tardi. Si spogliano le cose,
se ne tocca lo scheletro. Una veste
ancora piace, se bella. Più spesso
è la menzogna inutile che annoia.

 

In gioventù si è troppo immersi nello “spettacolo” della vita (se ne è attori, oltre che spettatori) per accorgersi che si tratta, per lo più, di una finzione. Quel che i nostri simili ci fanno credere di essere e di fare (e che noi stessi ci convinciamo di essere e di fare) c’incanta, ci suscita una commozione fatta di lacrime “usurpate”, perché frutto di manipolazione e (auto)suggestione. Lo sguardo dell’anziano Poeta, al contrario, è disincantato, sa “spogliare le cose”, ossia va al di là delle false apparenze e ne coglie l’effettiva realtà. Tuttavia, se una parte è recitata bene, ne avverte ancora la bellezza, anche se è consapevole che si tratta solo di una “veste” che nasconde la nuda realtà della persona. Se, viceversa, l’aspirante attore non sa recitare in modo artisticamente pregevole (se le sue menzogne sono “inutili” perché troppo facilmente smascherabili), egli non può suscitare altro che noia nella persona sensibile, perché questa avverte l’inconsistenza, il vuoto affettivo del rapporto che costui cerca d’instaurare.

 
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Luciana – pag. 478

Che diresti di me, dopo tanti anni,
anima cara, se tornassi al mondo?
 
Anche il luogo natio mutato è tanto!
Ti riconosceresti, io credo, appena.
 
Rancor mi serbi come a uno spergiuro
d’aver protratta senza te la vita?
M’hai perdonata quella che t’infersi
 – oh giovanezza! – amorosa ferita?

 

L’unico modo per far continuare a vivere una persona che non c’è più è ricostruire con l’immaginazione, oltre che il suo aspetto, il suo modo tutto particolare di pensare e di sentire. Tuttavia, più passano gli anni dopo la sua scomparsa, più diventa difficile tale ricostruzione. Il luogo natio, la cornice entro la quale si svolge l’esistenza di ogni essere vivente (oltre che le persone che lo popolano, le situazioni, gli avvenimenti) cambia continuamente, e così pure cambia parallelamente, in un modo tutto suo, ciascuno di noi; e il cambiamento, in una certa misura, è imprevedibile. Della persona scomparsa finiamo per conservare un’immagine statica, una sorta di fotografia immutabile, scattata nel momento in cui ha cessato di esistere e di evolversi; e diviene impossibile immaginare con certezza come sarebbe vissuta nel presente, che cosa ci avrebbe detto, come avrebbe agito e reagito. Diviene, perciò, impossibile porre rimedio ai nostri torti, far rimarginare con l’immaginazione le ferite che le abbiamo inferto quando viveva. Se si tratta di una persona che abbiamo amato, il torto irrimediabile è quello d’aver continuato a vivere senza di lei; d’aver tradito il tacito giuramento di non lasciarsi mai.

 
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In treno – pag. 479

Guardo gli alberi spogli, la campagna
deserta, a tinte invernali. A te penso
che ti allontani, che lasciai da poco.
Mette la sera come un roseo fuoco
sulle casette, sugli armenti; il treno
in fuga volge nella corsa folle
qualche animale giovane e galline
versicolori.
 
Straziato è il mio cuore come sente
che più non vive nel tuo petto. Tace
ogni altra angoscia per questa. Ed appena
la dura vita a tanti mali regge.
 
Ma tu muti conforme la tua legge,
e il mio rimpianto è vano.

 

Il “treno”, ossia la vita, prosegue nella sua corsa; una corsa che avviene nel freddo dell’inverno e “folle” perché ora priva del senso e del calore che le conferiva la vicinanza della persona amata. Fra questa ed il Poeta s’interpongono sempre più cose, ambienti, esperienze: l’esistenza del Poeta e quella del suo amore stanno diventando due vite separate, governate da “leggi” differenti. Il cuore di Saba vorrebbe ancora vivere nel petto dell’altra (essere unito a lei in una sola esistenza), però sente che non vi trova più il suo posto: la vita di lei prosegue anche senza di lui, così come la sua, sebbene a stento, “regge” alla separazione. Essa prosegue la sua corsa, pur tormentata da un’angoscia (quella evocativa dell’antico distacco) di fronte alla quale ogni altro male dell’esistenza scompare, perché ne è figlio.

 
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alberto – pag. 480

uno morendo m’hai lasciato in dono
fiasco di vecchio vino e la tua pipa
 
da quella fumerò nell’ore dense
di memorie pensando la dolcezza
che si sparse da te come la vita
ti si fece impossibile
                                  quel vino
inebbrierà una lacrima negli occhi
di tuo fratello straniero in America
 
quando ritornerà.

 

Colpisce, in questa poesia, innanzi tutto il titolo: “alberto”, con l’iniziale minuscola, quasi che non si trattasse più di una persona, ma di cose: una pipa ed un fiasco di vino che hanno preso il suo nome. Cose che, però, hanno il potere di riportare in vita Alberto nella persona del Poeta. Questi, infatti, s’identifica con l’amico scomparso facendo uso dei suoi oggetti personali lasciati in dono, compiendo i suoi gesti abituali. Colpisce, inoltre, la totale assenza di punteggiatura: come se non si trattasse di frasi ben definite, ma di sensazioni che non hanno ancora assunto (o non possono assumere) la forma di pensieri compiuti. Il pensiero, infatti, presuppone un soggetto che lo concepisce ed un oggetto che ne è il contenuto; tuttavia, qui, la distinzione fra soggetto e oggetto pare attenuarsi, tendendo quasi a scomparire. Il Poeta, avendo assorbito la dolcezza che l’amico, prima di morire, lasciò in dono insieme ai suoi oggetti personali, ed essendosi identificato con lui, pare assistere come osservatore esterno al dolore del fratello di Alberto per la sua scomparsa. Egli, infatti, sentendosi tutt’uno col defunto, non si è mai veramente separato da lui.

 
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Foglia morta – pag. 481

La rossa foglia morta
che il vento porta via,
il vento e lo spazzino,
– sotto il fulgido cielo cadde, insanguina
con le altre la via –
imiterei. Per nausea
delle parole vane,
dei volti senza luce.
 
Ma la tua voce, o gentile, mi parla;
fa’ che non cada ancora.

 

Le parole “vane” (quelle che servono soltanto a nascondere i reali pensieri e gli autentici sentimenti), e i volti cui manca la luce di affetti che si possano comunicare, privano il Poeta dell’alimento necessario alla sua vitalità interiore; gli suscitano “nausea”, come di fronte a cibi disgustosi che non nutrono. Egli si sente come la foglia, il cui verde è svanito perché, con l’autunno, le viene a mancare il nutrimento vitale della linfa. Tuttavia, Saba possiede una risorsa: una “voce” (probabilmente interiorizzata quale eredità di un rapporto autentico) parla alle sue orecchie ed al suo animo, trasmettendogli la sua gentilezza, e può ancora tenerlo legato all’albero della vita.

 
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Una notte – pag. 482

Verrebbe il sonno come l’altre notti,
s’insinua già tra i miei pensieri.
                                                      Allora,
come una lavandaia un panno, torce
la nuova angoscia il mio cuore. Vorrei
gridare, ma non posso. La tortura,
che si soffre una volta, soffro muto.
 
Ahi, quello che ho perduto so io solo.

 

Il pensiero cosciente, comunicabile, governato dalle leggi della logica e dalle forme a priori di spazio e tempo, tenta qui di cogliere un livello d’esperienza in cui tali caratteristiche non esistono. Il risultato è una serie di paradossi. Ripercorrendo a ritroso la sua storia, il Poeta cerca di ritrovare, nel sonno, quella dimensione atemporale, priva di tormenti, che caratterizzò l’inizio della nostra esistenza prima della nascita. Tuttavia, proprio perché si tratta di un cammino a ritroso, egli rivive quella catastrofe che, dando inizio alla vita extra-uterina, pose fine a tale condizione brutalmente, irrimediabilmente, tutta in “una volta”; eppure la rivive un’altra volta e, forse, tante altre volte. È una catastrofe che ci coglie nel momento in cui non siamo ancora in grado d’esprimere e comunicare quel che proviamo (il primo vagito non compare immediatamente), si soffre “muti”; eppure è con le sue parole che il Poeta ci fa capire che si tratta di un’angoscia rivissuta, ogni volta come “nuova” (come fu quella di allora), e si tratta di una “perdita”. È un’esperienza in cui, non essendo ancora possibile giovarsi della comprensione empatica di qualcuno, ci si sente “soli” nell’universo; eppure, con la sua Poesia, Saba rende questo vissuto condivisibile, comprensibile a tutti coloro che hanno conservato la propria sensibilità.                             

 
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Porto – pag. 484

Qui dove imberbi scritturali il peso
registravano, e curvi sotto il carico
in fila indiana sudati braccianti
salivano scendevano oscillanti
scale dai moli agli alti bordi, preso
fra bestemmie e muggiti, della vita
solo un pensiero a me era nocente.
 
Cercavo a quello un angolo ridente.
Molti, all’ombra di pergole, ne aveva
la mia città inquieta. Mi premeva
isolarmi con lui, mettere insieme
versi, cavare dal suo male un bene.
 
Spero ancora un rifugio allo stratempo.
Ecco: è stato miracolo trovarlo.
Tutto, se chiedo, posso avere, fuori
quel mio cuore, quell’aria mia e quel tempo.

 

Saba, accanto al titolo di questa poesia, pone questi versi, tratti da “Trieste e una donna”: “A scordarla ancor m’aggiro / io per il porto, come un levantino.” Il pensiero “nocente” da cui le chiassose volgarità dei braccianti del porto non riesce a distoglierlo, è, quindi, una pena d’amore. Non gli serve cercare di distrarsi immergendosi in questa folla indaffarata e irritata. Al contrario, ha bisogno di un rifugio allo “stratempo” (alle tempeste della vita): un luogo “ridente”, sereno, silenzioso, in cui gli sia possibile isolarsi, concentrarsi sul suo dolore e, tramite le sue capacità di Poeta, “cavare dal suo male” il bene dei suoi versi. Le sue capacità creative gli permettono di ricostruire il tempo in cui ogni sua richiesta sarebbe stata soddisfatta, in cui avrebbe potuto ottenere “tutto”. E quel “tutto”, allora come in questo momento d’ispirazione, è l’intimo contatto col suo “cuore”: il nucleo più elevato e più autentico di lui stesso, ossia il suo amore e l’antico oggetto del suo amore. È questa l’unica, vera consolazione dalle pene della vita. Il Poeta la trova, e ce la propone.

 
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Campionessa di nuoto – pag. 485

Chi t’ha veduta nel mare ti dice
Sirena.
 
Trionfatrice di gare allo schermo
della mia vita umiliata appari
dispari.
A te mi lega un filo, tenue cosa
infrangibile, mentre tu sorridi,
e passi avanti, e non mi vedi. Intorno
ti vanno amiche numerose, amici
giovani come te; fate gran chiasso
tra voi nel bar che vi raccoglie. E un giorno
un’ombra mesta ti scendeva – oh, un attimo! –
dalle ciglia, materna ombra che gli angoli
t’incurvò della bella bocca altera,
 
che sposò la tua aurora alla mia sera.

 

La ragazza appare al Poeta come “Sirena”: come avvenne ad Odisseo con esseri simili a lei, incanta ed attrae in modo irresistibile ma, al tempo stesso, mortifica con altrettanta intensità, minaccia di uccidere. Troppo grande, infatti, è la distanza che lo separa da lei: la giovane possiede qualità atletiche che Saba, nella sua tarda età, ha perduto, e le possiede in misura eccezionale, è campionessa. Possiede una bellezza non ancora contaminata dal tempo, e la vivacità chiassosa dei giovani; a lei ed ai suoi amici festosi l’anziano Poeta non può unirsi. Tuttavia, c’è un “filo”, tenue ma infrangibile che lega due persone così diverse: una fuggevole espressione di mestizia compare nel viso della ragazza. È la testimonianza della capacità della giovane, pur nel pieno della sua felicità, di comprendere e condividere la tristezza del Poeta. È la riedizione, in vecchiaia, di una situazione antica: l’essere amato rivela tutto il suo fascino di persona adulta; possiede, agli occhi del bambino, qualità che gli sembrano ancora irraggiungibili e non condivisibili. Tuttavia, anche una semplice espressione del volto rivela al piccolo che questa persona sa ancora mettersi nei suoi panni e gli è vicina. La donna affascinante continua ad essergli mamma: il filo che li lega, benché tenue, è infrangibile.  

 
 
 

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