Perché certa gente (sia individualmente, sia collettivamente) corre verso il baratro, e non c’è verso di fermarla? Perché alcune di queste persone si tappano le orecchie quando si cerca di comunicare loro le informazioni e gli argomenti logici che potrebbero dissuaderle? Perché, se si insiste, rispondono in modo aggressivo e spesso considerano come “nemici” coloro che potrebbero salvarle?
Se non riusciamo ad andare al di là di giudizi superficiali, finiamo per concludere che costoro sono “stupidi”, o “ignoranti”, o “in malafede”. Si tratta di giudizi che, il più delle volte, rispecchiano le nostre reazioni emotive immediate di fronte a persone che ci contrariano e che non riusciamo a capire. Gli stupidi, gli ignoranti, i disonesti esistono, ma se cerchiamo di giudicare più in profondità, scopriamo che i limiti intellettivi, o culturali, o morali di costoro rientrano poco, o non rientrano affatto fra i motivi delle loro condotte auto-distruttive. In profondità c’è ben altro.
Uno dei concetti più controversi della teoria freudiana è quello della “pulsione di morte”. Si può facilmente capire il motivo principale per cui tale idea ha trovato molti oppositori: per persone sufficientemente sane è inaccettabile che, nelle profondità del nostro animo, qualcosa ci spinga verso la fine della nostra vita. C’è un altro motivo: non esiste un’evidenza clinica diretta e immediatamente percepibile della pulsione di morte. Essa, infatti, si presenta di regola “travestita” da pulsione di vita, ed è per questo che è particolarmente insidiosa.
Uno dei “travestimenti” più frequenti della pulsione di morte è l’aggressività. Quest’ultima, in una persona sana, è il più spesso al servizio della pulsione di vita: è la spinta emotiva a difendere interessi vitali (o la vita stessa, propria e/o dei propri cari) di fronte a minacce mortali. Quando la pulsione di morte se ne impadronisce, l’individuo candidato al suicidio si convince di star lottando per motivi “nobili”, ma in realtà vuole più che altro porre fine alla propria esistenza, come la maggior parte dei “kamikaze”. Questi ultimi sono fondamentalmente diversi dagli eroi: l’eroe autentico sfida la morte, ma non la vuole e, se può, la evita.
Un’altra falsa apparenza dell’impulso auto-distruttivo è la paura. Questa è, di solito, il segnale che ci avverte del pericolo; è quindi necessaria allo scopo di preservare la nostra integrità. Quando, però, la pulsione di morte assume le sue sembianze, ecco che la persona presa dal panico non ragiona più, e si rifiuta di ragionare. Come si suol dire, fa “come lo struzzo”, che nasconde la testa di fronte al pericolo.
L’estremo “travestimento” della pulsione di morte è la disperazione, evidente nel grave depresso candidato al suicidio. Motivi di disperazione ne abbiamo tutti: è un sentimento legato alla condizione esistenziale degli esseri umani. Tuttavia, la persona sana cerca attivamente tutti i motivi che possono rappacificarla con la vita o, almeno, è recettiva a chi glieli offre. In questi casi, aver provato disperazione ci aiuta ad approfondire la nostra conoscenza della vita e a riscoprirne il valore più autentico. Al contrario, il grave depresso distrugge attivamente la consapevolezza delle ragioni per cui vale la pena di vivere.
Che cosa, di solito, attiva la pulsione di morte? Credo che questo si colleghi all’altra questione, anch’essa controversa, su ciò che può essere alla base della vecchiaia e della morte. I fautori di una teoria “endogena” parlano di “orologio biologico” su base genetica e/o filogeneticamente trasmesso dai nostri antenati. Ognuno, cioè, avrebbe “la propria ora”, già programmata fin dalla nascita, in cui deve invecchiare e morire. Altri, più propensi a considerare i fattori “esogeni”, ritengono che la senescenza e il decesso dipendano dall’accumularsi dell’effetto nocivo prodotto da agenti esterni di diversa natura: fattori tossici, infettivi. emotivi, relazionali, culturali, sociali. In assenza di tali fattori, in questa prospettiva, saremmo teoricamente immortali! Credo che, in realtà, isolare ciascuno di questi fattori (endogeni o esogeni) sia arbitrario: ognuno si trova sempre strettamente interconnesso con gli altri, ed è prodotto o attivato, rafforzato o indebolito dagli altri. Una fragilità biologica, su base genetica o acquisita, un fallimento dei rapporti interpersonali, pressioni sociali e fattori culturali, il più delle volte entrano in funzione tutti insieme, e la pulsione di morte non incontra più sufficienti resistenze.
Una delle esperienze vissute più frequenti che portano a concludere che la propria fine sia imminente e ineluttabile (e, sotto sotto, portano a desiderarla) è quella di chi, a torto o a ragione, ritiene d’aver esaurito la sua funzione nella vita. Probabilmente Kafka si trovò in questa condizione quando, allontanandosi dalla sua passione per la letteratura, parlò di un “patto segreto” fra il suo cervello ed i polmoni; e, in effetti, poco dopo morì di tisi. Baudelaire fu ancora più esplicito:
« D’où vient, disiez-vous, cette tristesse étrange,
Montant comme la mer sur le roc noir et nu ? »
Quand notre cœur a fait une fois sa vendange,
Vivre est un mal ! C’est un secret de tous connu
Une douleur très simple et non mystérieuse,
Et, comme votre joie, éclatante pour tous.
Cessez donc de chercher, o belle curieuse !
Et, bien que votre voix soit douce, taisez-vous !
(“Da dove viene” dicevi “questa strana tristezza / che sale come il mare sulla roccia nera e nuda?” / Quando il nostro cuore ha fatto la sua vendemmia, / vivere è un male! È un segreto noto a tutti, // un dolore molto semplice, tutt’altro che misterioso / e, come la tua gioia, evidente per tutti. / Cessa, dunque, d’indagare, mia bella curiosa! / E se pure la tua voce è dolce, taci!)
Scrivevo a questo proposito: “Le illusioni, i sogni che vediamo riflessi in tutto ciò per cui si vive (la persona che amiamo, gli ideali, l’Arte, le idee che riflettono la Verità) e che c’ispirano un sentimento di perfezione, proprio nel momento in cui ci hanno guidato alle nostre massime realizzazioni (la “vendemmia” della vita) iniziano ad offuscarsi, a sgretolarsi sotto i colpi delle disillusioni della realtà. Si scopre che, una volta esaurita la propria funzione, sopravvivere è ritenuto da tutti inutile, e diventa un male. Si scopre che le nostre realizzazioni stesse non sono come le si immaginava quando si cercava di conseguirle”. È questa convinzione che “sopravvivere sia inutile e dannoso” che, a mio avviso, va contrastata se vogliamo disarmare la pulsione di morte.
L’attuale degenerazione della nostra cultura non ci aiuta: finiamo per convincerci che ciascuno di noi, una volta invecchiato ed uscito dal mondo del lavoro (o inabile al lavoro ed ai rapporti sociali) è – o è divenuto – “inutile”, “superfluo” “di peso” per gli altri, e dannoso per la comunità o per l’umanità. Temo che la stessa, infausta convinzione non riguardi soltanto l’esistenza individuale, ma anche quella della civiltà cui apparteniamo. Urge riscoprire in noi stessi, nella nostra creatività, nella cultura e nella saggezza dei nostri antenati, tutti i motivi che ci possono legare alla vita. La morte non si combatte evitandola, o illudendosi di evitarla, ma contribuendo al riaffermarsi della vita, al “prodigio” (cui dobbiamo credere sia che abbiamo, sia che non abbiamo fede) per cui noi esseri umani siamo comparsi nell’universo.
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