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Il battesimo dei bimbi morti tra storia e credenze. L’epopea di una donna narrata in un film

5 Ago 22

A cura di Matteo Balestrieri

Il Friuli è una terra ricca di storie magiche. La regione è stata per secoli estremamente povera e suoi abitanti, che vivevano di sussistenza, avevano bisogno di immaginare mondi più gratificanti di quelli della quotidianità. Queste storie si sono intrecciate e a volte scontrate con le indicazioni della Chiesa ufficiale, che mal sopportava la presenza di idee originali e credenze in odore di paganesimo (per chi è interessato è suggestiva la storia dei benandanti, a cui alcuni credono tuttora: https://it.wikipedia.org/wiki/Benandanti).
A volte però era la Chiesa stessa che creava storie di incerta origine, alle quali le persone dovevano a malincuore adattarsi. Tra queste vi era il precetto che i bimbi nati morti non potevano essere battezzati poiché portatori del peccato originale, e quindi dovevano trascorrere nel limbo la loro esistenza ultraterrena. Si deve notare che tale precetto, che ha origini nel Medioevo ed era sostenuto ad esempio anche da sant’Agostino, non è tuttora mai stato apertamente abolito dalla Chiesa, ma solamente messo talora in discussione (per esempio dal cardinale Ratzinger, futuro papa).
Il bimbo nato morto veniva perciò seppellito in qualche modo nella terra senza il beneficio di alcun sacramento, provocando molto dolore ai genitori che non solo avevano perso un figlio o una figlia ma che dovevano anche accettare l’idea che la loro creatura fosse condannata per sempre al limbo. Per risolvere questo problema sono perciò nate in diversi territori di fede cattolica le pratiche di rivolgersi a determinati santuari dove miracolosamente i bimbi venivano resuscitati per brevi attimi, il tempo di permettere il battesimo.
Questi santuari si erano diffusi all’inizio soprattutto in Francia (con la Chiesa che chiudeva talvolta un occhio), ma poi si sono espansi anche verso est. In Austria ad esempio c’era un santuario poco vicino al confine con l’Italia che aveva acquisito molta fama sotto questo profilo, quello di Santa Maria di Luggau. Qui portavano i propri bimbi anche le genti del Friuli e del Veneto, fino a quando più vicino alla pianura un altro piccolo santuario dedicato alla Madonna acquisì la notorietà di poter battezzare i bimbi morti. Questo santuario si trovava nell’abitato di Trava, nella Carnia, la regione montagnosa del Friuli.
Queste sono le premesse del film “Piccolo corpo” (della regista Laura Samani), che racconta la storia di Agata, che vive all’inizio del ‘900 in riva al mare, lontano dalle montagne. Agata appartiene ad una comunità di pescatori che abitano i tipici casoni di paglia della laguna veneta. Agata è incinta ed aspetta con trepidazione il parto assieme a tutta la sua gente. La bimba però nasce morta e quindi non può essere battezzata. Agata chiede al prete cosa si può fare e quegli le risponde che non si può fare niente, perché la bimba andrà nel limbo dove resterà per sempre. Agata chiede anche conforto al marito, che rassegnato le può solo rispondere che loro due faranno altri figli.
Allora Agata disseppellisce di nascosto la bimba, la mette in una cassetta di legno che si carica sulle spalle e parte all’avventura, in cerca di un santuario sulle montagne dove le è stato detto che la bimba può essere restituita alla vita per brevi istanti, quelli sufficienti ad essere battezzata. Arrivando nell’immediata terraferma prospicente la laguna, Agata incontra Lince, uno strano e vivace ragazzo, quasi una specie di folletto, che le parla in lingua friulana (la lingua della terra ferma) al quale lei risponde nel suo dialetto veneto. Benché sospettosa, Agata segue il ragazzo perché è bisognosa di aiuto dato che non ha niente con sé. Lince la porta in una comunità di povera gente, segnalando peraltro alle donne che Agata perde latte dalle mammelle. Queste allora decidono che Agata può essere utilizzata come balia, e contro la sua volontà la caricano su un carro diretto a nord insieme a Lince e ad altri uomini. Da qui in poi vi sono altre avventure e sventure, a cominciare dall’assalto da parte di briganti che rubano tutto quello che trovano nel carro. La brigantessa a capo del gruppo toglie con la forza ad Agata la cassetta di legno, si rende però conto che contiene solo una bimba morta e a quel punto la lascia andare impietosita. Con Agata fugge via anche Lince, a cui Agata promette che gli darà metà del contenuto della cassetta.
Proseguendo il cammino a piedi, Agata e Lince giungono all’imbocco di gallerie dove lavorano minatori di lingua slovena, che la mettono in guardia affermando che nessuna donna è mai uscita viva da quelle gallerie. Agata non si arrende e si inoltra seguita da Lince, sempre più impaurito, all’interno del ventre della montagna fino a sbucare dall’altra parte. Qui si trovano ad affrontare un paesaggio montano sempre più aspro fino a un villaggio dove vivono i genitori di Lince, il quale viene però da loro cacciato per motivi che qui non rivelo. Nel villaggio comunque la comunità di donne si prende cura di Agata, ormai esausta, chiedendole in cambio i suoi capelli. Agata si rimette poi in viaggio giungendo ad un lago situato in una vallata montana, in un freddo paesaggio nordico. Qui incontra un barcaiolo, una sorta di Caronte, che inizia a traghettarla verso l’altra riva del lago. Il racconto a questo punto assume tonalità oniriche. Agata lascia affondare la cassetta nel lago ma poi si tuffa per raggiungerla. In seguito la cassetta giunge al santuario dove una sacerdotessa, che vive in un territorio punteggiato da tombe di bimbi lì battezzati, rianima e battezza la bimba prima di vederla poi morire nuovamente. Il finale lo lascio ovviamente allo spettatore interessato.
Il racconto cinematografico ha volutamente cercato nella seconda parte del film una scenografia grandiosa e suggestiva, slegandosi dagli elementi geografici reali. Conosco la chiesetta della Madonna di Trava e posso assicurare che il luogo è molto bello e suggestivo, ma nulla ha a che fare con il santuario raffigurato nel film.
Si deve notare che tutti i personaggi principali del film sono figure femminili, e l’opera è quindi un inno alla forza delle donne attraverso il racconto di una madre che non può accettare il destino che è stato scritto e che lotta strenuamente per salvare l’anima di sua figlia. La vicenda riprende tematiche storiche, ma è disseminato di rimandi simbolici che possiamo cogliere anche facilmente: il cammino religioso da un mondo storicamente reale ad uno mistico attraverso una ascesa verso l’alto, l’attraversamento delle gallerie rievocante quello del canale del parto (durante il quale non a caso molte donne morivano), il traghettatore verso l’aldilà, l’immersione nel lago come nel liquido amniotico.
In sintesi, dietro una storia che si tinge progressivamente di tonalità quasi fantasy, vi è il dolore di una madre che vive in povertà di mezzi all’interno di una comunità sottomessa a credenze contrarie alla compassione umana. Agata non ci sta, mentre tutti gli altri sono disposti ad accettare il precetto del limbo con grande rassegnazione.
Io raccomando la visione di questo film, anche se forse di non facile reperimento fuori dal Friuli (anche se presentato a Cannes, premiato con un David di Donatello alla migliore regista esordiente e finanziato con contributi francesi e sloveni), perché racconta una vicenda pregnante con valenze molto più ampie di quelle di una singola storia avvenuta in questa piccola regione pur così significativa.

 

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