Una ricerca del “Guardian” condotta sui pubblici registri statunitensi ha fornito dati inoppugnabili sulla stretta correlazione tra la discriminazione razziale e l’uccisione di persone disarmate dalle forze della polizia.
Negli Stati Uniti dal 1 gennaio al 31 Maggio del 2015 sono state uccise dai poliziotti 464 persone, per metà bianchi e per metà neri, latini, asiatici. In un paese in cui i bianchi rappresentano il 63% della popolazione, già questo dato rivela una loro miglior fortuna nella cattiva sorte.
Si potrebbe ipotizzare che, per motivi socioculturali, i bianchi delinquono in modo violento meno degli altri, ma guardando il dato relativo all’uccisione di persone disarmate l’importanza del fattore razziale diventa innegabile. Il 15% degli uccisi sono bianchi, il 25%latini e il 32% neri.
La probabilità che un nero disarmato possa essere ucciso dalla polizia, è di circa 10 volte maggiore di quella di un bianco (tenendo conto del fatto che la percentuale dei neri negli Stati Uniti è del 13%, cinque volte inferiore a quella dei bianchi).
Nella probabilità di essere uccisi dai poliziotti, la differenza tra bianchi e neri aumenta in modo esponenziale nel passare alla condizione di essere disarmati. Questo dato, di per sé molto allarmante, rivela un aspetto fondamentale del razzismo: la xenofobia è rivolta non tanto all’estraneo armato e minaccioso, ma, piuttosto, al diverso da sé inerme.
Il razzismo è legato alla relazione di potere con l’altro. Non il potere come lo intendeva Hegel: lo scontro che non arriva alla morte di uno dei contendenti, perché il meno coraggioso si sottomette, diventando servo. Nel razzismo è in gioco il potere di morte sull’altro indifeso: eliminarlo (simbolicamente o concretamente) è l’affermazione, vista come necessaria, di un controllo perverso sulla vita.
All’epoca dello sterminio gli Ebrei erano un popolo disarmato (per lo più in via di assimilazione alle popolazioni dei vari paesi ospitanti) e la loro egemonia economica un’invenzione. Sono stati massacrati come profeti, non del tutto consapevoli e inermi, dell’esilio nella terra dell’altro come premessa dello scambio, della circolazione di idee, costumi, beni.
Il diverso privo di armi, oggetto di un rigetto tanto gratuito quanto radicale, rappresenta la parte di noi che più ama la vita. Nel razzismo, questa parte -necessariamente esposta e vulnerabile nel suo schiudersi al nuovo, alla scoperta- è proiettata sull’altro perché le presti l’involucro della sua diversità, in modo da farla apparire estranea e irriconoscibile, cancellando la sua provenienza. L’altro deve essere eliminato nel punto in cui maggiormente può rivelarsi nella sua affinità e vicinanza, dove la sua pretesa alienità può restituire al mittente la parte di sé che ha rifiutato.
La vicinanza con il reietto è perturbante: crea confusione tra ciò che si è deciso di essere, espellendo una parte di sé, e quello che si scopre di essere, quando la parte espulsa ritorna, irrompendo improvvisamente sulla scena, a reclamare il posto che le spetta. Nell’agire contro l’altro che perturba, il nemico non è lui in se stesso, ma l’effetto perturbante della confusione dentro di sé.
L’altro dalla pelle nera è garante di una distanza rassicurante tra sé e ciò che si è deciso di gettare fuori di sé. Lo si immagina come un nemico potenziale e trovarselo di fronte armato non sorprende: combatterlo è il miglior modo per mantenere il fossato scavato per distanziarlo. Vederlo, invece, disarmato e vulnerabile, destabilizzante nella sua umanità coinvolgente, rende inconsciamente impellente l’esigenza di ucciderlo a freddo.
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