A Procida, approdo di decadente bellezza
La bella estate, Agosto 2019
La bella estate, Agosto 2019
Non verremo alla mèta ad uno ad uno ma a due a due.
Se ci conosceremo a due a due,
noi ci conosceremo tutti, noi ci ameremo tutti
e i figli un giorno rideranno
della leggenda nera dove un uomo lacrima in solitudine.
Traduzione di Franco Fortini, poesia di Paul Éluard
contenuta nella raccolta “Il duro desiderio di durare”.
Stanotte fianco a me una voce ha gridato: Aiuto!
Era una giovane donna che stava accusando un giovane uomo.
Nel buio sui tetti la voce ha rimbalzato : lasciami andare!
Nessuno ha acceso una luce.
La coppia " malata" si disintegra sotto gli occhi di tutti.
Meglio un funerale che una separazione.
La cortina di salvataggio che garantisce vite prive di vita ha funzionato.
Occhio non vede, cuore non duole.
La giovane abbandona la casa ma presto ritornerà, come in preda ad un disturbo della memoria a breve termine. Dimenticherà l'esasperazione che la conduce sempre alla stessa domanda di senso e di comprensione.
Non capirà , lei.
Lui non è quello a cui deve rivolgere quella disperata richiesta d'amore.
I due,
burattini appesi.
Il regista sa prima dell'attore e porta con se il peso della scena.
Ad un primo sguardo la donna è vittima, lei grida aiuto.
Ma se ascolti attentamente scopri che cerca di innescare un'azione che le permetta di scaricare a terra un dolore enorme, sproporzionato per la sua acerba età.
Si sente che c'è un troppo di troppo.
Il giovane uomo casca nella parte e si muove di conseguenza, si azzittisce e la lascia andare.
Lei desidera colpire e per farlo accumula prove per la sua distruzione: sei fango d' uomo.
Il giorno dopo ritornerà in quella casa e tutto svanirà.
Fino alla prossima scarica.
Alcune patologie sono come prurito : impossibile non compiere il gesto che non si esaurirà in un solo movimento.
Il dolore dei due amanti ha bussato alla mia porta che è rimasta aperta tutta la notte.
Non ho acceso la luce ma ho vegliato .
Non si dorme quando qualcuno agonizza.
Non si dorme quando c'è pericolo di vita.
Non si dorme quando cogli la disperazione che il passato mette in scena.
La capitale del dolore è macchia ceca, territorio inospitale in cui nessuno vuole abitare.
Tutti sentono, i cani abbaiano.
Quanti stanotte hanno dormito?
Quanti dormono nella propria storia.
Il silenzio è colpevole di viltà.
Abbiamo perso la capacità neuronale di sentire il dolore dell'altro semplicemente perché non vogliamo sentire il nostro.
Neghiamo l'altro per negare noi stessi.
Il capitale del dolore appartiene ai sopravvissuti, a quelli che nonostante le atrocità subite hanno mantenuto forma di umano.
Ricordano. Non possono dimenticare.
Il capitale del dolore è la qualità del pensiero che si sviluppa dall'attraversamento delle innumerevoli sottrazioni che la vita ci impone.
Pensiero acuto, rapido, ripido, vertiginoso, spesso.
Il capitale accumulato è misurabile in unità emotive discrezionali che lo rendono complesso,multistrato.
Come foglietto embrionale che contiene migliaia di informazioni che svilupperanno la forma evoluta .
Il giorno dopo le persone a fianco si muovono come se non avessero sentito il grido.
Non una parola.
La vita continua per chi non sente.
La prima regola di una buona cura, la più difficile, è l'ascolto del dolore.
Ascoltare è prestar attenzione fluttuante.
Flottante, struttura sospesa su cui poggiare l'altro che parla.
Sospenderlo per coglierne possibili forme e trasformazioni.
Che forma potrà prendere il tuo dolore?
Come renderlo praticabile?
Come trasformare la capitale in un capitale?
Curare la parola fino al suo più intimo sentire.
La parola nel dolore è contrazione di significati.
Curare la parola significa dilatarla tra una contrazione e l'altra.
Il capitale è dentro.
La capitale è memoria non espandibile, cancellata.
La cura permette il ricongiungimento con la parola dotata di senso.
La libertà di circolare di essere pronunciata senza paura di uscire dai binari assegnati è la grande arma della cura.
Io mi permetto di parlare, per la prima volta.
Aiuto ! grida la donna giovane .
Stai zitta! Pensava muta la bambina.
La scena immagino si sia svolta con lei piccola che assiste alla stessa lite tra adulti.
Un uomo e una donna .
L'unica a non poter urlare la sua esistenza, la bambina.
L'atto, tapparsi le orecchie.
La parola, muta, si riduce a sillaba.
Il dolore ingravida il corpo ed è sintomo.
Il dolore è la prima esperienza di essere al confine. Relegati in un perimetro. Distanza marcata.
Separati, lontani.
La giovane urla a chi può sentire .
Ma Il dolore può essere solo distribuito, posso sentirne il peso non la qualità particolare della sofferenza che segna inevitabilmente una separazione tra me e l'altro.
Posso restare nelle vicinanze senza tapparmi le orecchie .
Darti la voce senza morire, darti la possibilità umana di ritrovarti in quel momento terribile della coscienza di ciò che è solo tuo.
E allora nella cura la memoria si espande.
Ricordiamo, un luogo un tempo un ora.
La cura è luogo di ritorno.
Non scappo dal mio e dal tuo dolore.
Io non ho paura.
Attendo che passi, attendo che lo passi con me.
Aspetto sapientemente la parola non contratta dagli spasmi della memoria.
La cura è testimonianza di durata oltre il confine.
La parola nuova nasce da continue e ripetute apnee nei ricordi.
Lavare, spurgare candeggiare.
Le macchie si sciolgono dopo dolorose centrifughe ed ammolli.
È lingua che non parla ma ti mastica.
Il capitale del dolore è lingua di prossimità, uguaglianza e appartenenza.
È l'apprendimento del perimetro che siamo.
Arrestarsi sulla parola è l'unico mezzo di salvataggio.
Rispetto e dignità sono I grandi naufraghi nel grande blu del dolore.
Si perde la propria umanità se non si apprende l'arte di ascoltarsi, il piacere di capirsi.
Chi cura sa della decadente bellezza del dolore alla fine del suo viaggio.
Aspettami ed io tornerò
ad onta di tutte le morti.
E colui che ormai non mi aspettava,
dica che ho avuto fortuna.
Chi non aspettò non può capire
come tu mi abbia salvato
in mezzo al fuoco
con la tua attesa.
Solo noi due conosceremo
come io sia sopravvissuto:
tu hai saputo aspettare semplicemente
come nessun altro.
(Aspettami ed io tornerò; Konstantin Simonov)
Era una giovane donna che stava accusando un giovane uomo.
Nel buio sui tetti la voce ha rimbalzato : lasciami andare!
Nessuno ha acceso una luce.
La coppia " malata" si disintegra sotto gli occhi di tutti.
Meglio un funerale che una separazione.
La cortina di salvataggio che garantisce vite prive di vita ha funzionato.
Occhio non vede, cuore non duole.
La giovane abbandona la casa ma presto ritornerà, come in preda ad un disturbo della memoria a breve termine. Dimenticherà l'esasperazione che la conduce sempre alla stessa domanda di senso e di comprensione.
Non capirà , lei.
Lui non è quello a cui deve rivolgere quella disperata richiesta d'amore.
I due,
burattini appesi.
Il regista sa prima dell'attore e porta con se il peso della scena.
Ad un primo sguardo la donna è vittima, lei grida aiuto.
Ma se ascolti attentamente scopri che cerca di innescare un'azione che le permetta di scaricare a terra un dolore enorme, sproporzionato per la sua acerba età.
Si sente che c'è un troppo di troppo.
Il giovane uomo casca nella parte e si muove di conseguenza, si azzittisce e la lascia andare.
Lei desidera colpire e per farlo accumula prove per la sua distruzione: sei fango d' uomo.
Il giorno dopo ritornerà in quella casa e tutto svanirà.
Fino alla prossima scarica.
Alcune patologie sono come prurito : impossibile non compiere il gesto che non si esaurirà in un solo movimento.
Il dolore dei due amanti ha bussato alla mia porta che è rimasta aperta tutta la notte.
Non ho acceso la luce ma ho vegliato .
Non si dorme quando qualcuno agonizza.
Non si dorme quando c'è pericolo di vita.
Non si dorme quando cogli la disperazione che il passato mette in scena.
La capitale del dolore è macchia ceca, territorio inospitale in cui nessuno vuole abitare.
Tutti sentono, i cani abbaiano.
Quanti stanotte hanno dormito?
Quanti dormono nella propria storia.
Il silenzio è colpevole di viltà.
Abbiamo perso la capacità neuronale di sentire il dolore dell'altro semplicemente perché non vogliamo sentire il nostro.
Neghiamo l'altro per negare noi stessi.
Il capitale del dolore appartiene ai sopravvissuti, a quelli che nonostante le atrocità subite hanno mantenuto forma di umano.
Ricordano. Non possono dimenticare.
Il capitale del dolore è la qualità del pensiero che si sviluppa dall'attraversamento delle innumerevoli sottrazioni che la vita ci impone.
Pensiero acuto, rapido, ripido, vertiginoso, spesso.
Il capitale accumulato è misurabile in unità emotive discrezionali che lo rendono complesso,multistrato.
Come foglietto embrionale che contiene migliaia di informazioni che svilupperanno la forma evoluta .
Il giorno dopo le persone a fianco si muovono come se non avessero sentito il grido.
Non una parola.
La vita continua per chi non sente.
La prima regola di una buona cura, la più difficile, è l'ascolto del dolore.
Ascoltare è prestar attenzione fluttuante.
Flottante, struttura sospesa su cui poggiare l'altro che parla.
Sospenderlo per coglierne possibili forme e trasformazioni.
Che forma potrà prendere il tuo dolore?
Come renderlo praticabile?
Come trasformare la capitale in un capitale?
Curare la parola fino al suo più intimo sentire.
La parola nel dolore è contrazione di significati.
Curare la parola significa dilatarla tra una contrazione e l'altra.
Il capitale è dentro.
La capitale è memoria non espandibile, cancellata.
La cura permette il ricongiungimento con la parola dotata di senso.
La libertà di circolare di essere pronunciata senza paura di uscire dai binari assegnati è la grande arma della cura.
Io mi permetto di parlare, per la prima volta.
Aiuto ! grida la donna giovane .
Stai zitta! Pensava muta la bambina.
La scena immagino si sia svolta con lei piccola che assiste alla stessa lite tra adulti.
Un uomo e una donna .
L'unica a non poter urlare la sua esistenza, la bambina.
L'atto, tapparsi le orecchie.
La parola, muta, si riduce a sillaba.
Il dolore ingravida il corpo ed è sintomo.
Il dolore è la prima esperienza di essere al confine. Relegati in un perimetro. Distanza marcata.
Separati, lontani.
La giovane urla a chi può sentire .
Ma Il dolore può essere solo distribuito, posso sentirne il peso non la qualità particolare della sofferenza che segna inevitabilmente una separazione tra me e l'altro.
Posso restare nelle vicinanze senza tapparmi le orecchie .
Darti la voce senza morire, darti la possibilità umana di ritrovarti in quel momento terribile della coscienza di ciò che è solo tuo.
E allora nella cura la memoria si espande.
Ricordiamo, un luogo un tempo un ora.
La cura è luogo di ritorno.
Non scappo dal mio e dal tuo dolore.
Io non ho paura.
Attendo che passi, attendo che lo passi con me.
Aspetto sapientemente la parola non contratta dagli spasmi della memoria.
La cura è testimonianza di durata oltre il confine.
La parola nuova nasce da continue e ripetute apnee nei ricordi.
Lavare, spurgare candeggiare.
Le macchie si sciolgono dopo dolorose centrifughe ed ammolli.
È lingua che non parla ma ti mastica.
Il capitale del dolore è lingua di prossimità, uguaglianza e appartenenza.
È l'apprendimento del perimetro che siamo.
Arrestarsi sulla parola è l'unico mezzo di salvataggio.
Rispetto e dignità sono I grandi naufraghi nel grande blu del dolore.
Si perde la propria umanità se non si apprende l'arte di ascoltarsi, il piacere di capirsi.
Chi cura sa della decadente bellezza del dolore alla fine del suo viaggio.
Aspettami ed io tornerò
ad onta di tutte le morti.
E colui che ormai non mi aspettava,
dica che ho avuto fortuna.
Chi non aspettò non può capire
come tu mi abbia salvato
in mezzo al fuoco
con la tua attesa.
Solo noi due conosceremo
come io sia sopravvissuto:
tu hai saputo aspettare semplicemente
come nessun altro.
(Aspettami ed io tornerò; Konstantin Simonov)
Nostra la paura di essersi
Nostra la paura di essersi impicciati in qualcosa di sconosciuto che ci spaventa come quando la mamma veniva a spegnerci la luce alla sera e restava solo il buio.La giovane donna se ne va, e domani? Ritornera’perche’ è’ meglio essere torturati che restare nella solitudine.
Non vogliamo sentire più’ il dolore dell’altro ma nemmeno il nostro.
Il capitale del dolore, come lo nomini tu, si accumula e servirà’ solo a chi ha il coraggio di ascoltarsi e di lasciarsi ascoltare. E si arriva alla cura.
È’ come camminare nel deserto e bisogna saper patire la sete, la fame, le tempeste di sabbia che ti fanno perdere il cammino.
Si la cura è’ il luogo del ritorno dove ci siamo smarriti e dove il rispetto ci soggettivira’