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Il caso Alfie Evans

6 Mag 18

A cura di Sarantis Thanopulos

Alfie Evans è nato a Liverpool il 9 Maggio 2016. All’età di sette mesi è stato ricoverato in un ospedale della sua città in seguito a un attacco di convulsioni. Il Dicembre scorso è iniziato un conflitto legale tra i suoi genitori e i medici dell’ospedale i quali volevano interrompere la respirazione artificiale che teneva  Alfie in vita, in uno stato semi-vegetativo. Consideravano il prolungamento del trattamento crudele e inumano.
La corte d’Appello e la Suprema Corte hanno dato ragione ai medici, sposando la loro tesi: il prosieguo del trattamento non era nel “miglior interesse” del bambino. La Corte Europea dei Diritti Umani non ha ritenuto ammissibile il ricorso dei genitori. I medici hanno interrotto la respirazione artificiale e le autorità legali hanno impedito il trasporto del bambino in Italia. La morte ha messo fine alle sofferenze di Alfie e al suo desiderio di vita di cui non sappiamo molto (le nostre inferenze scientifiche non sono sufficienti a dircelo). Ha lasciato alle sua spalle il dolore dei genitori e le questioni etiche che non le risolvono i tribunali né, men che mai, i medici.
Si è parlato di nuovo di oscurantismo antiscientifico. Dimenticando che non ci sono soluzioni scientifiche alle questioni etiche, che la scienza è stata spesso usata, e tuttora si usa, in modo non etico. Basterebbe pensare agli esperimenti dei medici nazisti nei campi di concentramento (spesso molto accurati dal punto di vista scientifico), alla bomba atomica e agli algoritmi di manipolazione di massa che gradualmente sostituiscono il potere politico. Accanto a un pregiudizio allarmante nei confronti della scienza, esiste una volontà di istituirla come giudice infallibile di ogni aspetto della nostra vita. Queste due opposte tendenze, che si combattono senza sosta, di fatto si riflettono l’una nell’altra, rappresentano il dominio dell’idea sulla vita, la paura di vivere.
Ci sono persone che avendo vissuto a lungo la loro vita, si trovano nella condizione di non poterne più godere, di sentirsi ridotti, senza speranza di recupero, a relitti di se stessi. Possono decidere di andarsene e devono essere rispettati. Ci sono poi coloro per i quali dobbiamo decidere noi perché essi non sono in grado di farlo. Il caso di Eluana Englaro, una ragazza che, dopo aver veramente vissuto, giaceva da tantissimi anni in un’esistenza puramente biologica, così rinsecchita da non poter più supportare una vita psichica, non è lo stesso di un bambino che non può esprimersi, ma, nato alla vita, vive la sua esperienza seppure semi-vegetativa, e lotta, in modo oscuro per le nostre conoscenze, per mantenersi aggrappato al proprio respiro. Chi può stabilire per conto suo qual’è il suo “miglior interesse”, la soglia invisibile della sofferenza che supera la spinta alla vita, rendendo la morte preferibile?
Non è facile per i genitori accettare un decreto di cessazione di vita nei confronti di un figlio che complica il loro lutto. Soprattutto quando essi vivono la sua malattia come propria sconfitta e alla loro difficoltà personale corrisponde un’ipocrisia delle istituzioni politiche. Esse si nascondono dietro l’inutilità (e a volte l’inumanità) dell’ “accanimento terapeutico” e impongono un’“eutanasia” dettata dai costi. Una condanna a morte che prende forma in mille modi, in barba al “diritto alla vita”, e sta diventando in molti paesi il destino degli indigenti (e il rischio dei non ricchi) quando si ammalano seriamente. Rende violente le decisioni dei tribunali, pure quando sono giuridicamente corrette, e anche quelle dei medici, indipendentemente dal loro valore scientifico.

 
 

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