Tanto quanto il libro “Il Colibrì” di Veronesi è stato osannato (e premiato con il secondo premio Strega per l’Autore), tanto il film omonimo della Archibugi è stato criticato. Forse è inevitabile che sia difficile rendere in un’opera filmica gli elementi che erano magicamente presenti nell’opera scritta. Io sono andato a vedere il film sull’onda della grande attesa che si è generata per quest’opera. Non ho però letto il libro, e questo può essere un limite alle mie osservazioni. E’ stato già in effetti osservato da molti che seppure fondamentalmente simile al libro nello svolgimento, il film manca di un aspetto essenziale, il perché il protagonista della vicenda sia un “colibrì”. Questo aspetto non emerge in effetti in modo così chiaro sullo schermo, tanto da dovere essere esplicitato e spiegato all’interno di una scena.
Dico subito che a mio parere tutti gli attori (Kasia Smutniak, Laura Morante, così come gli altri) hanno recitato in maniera splendida, anche se ovviamente ognuno ha dovuto ritagliarsi una parte di contorno, sovrastati dalla preponderanza del protagonista Marco, reso come sempre molto bene da Pierfrancesco Savino.
Il film mi ha in effetti per molti versi intrigato, perché ha raccontato la storia di questo Marco Carrera dall’infanzia fino alla sua fine in modo tale da far comprendere la sua evoluzione, o forse dovrei dire la sua mancata evoluzione, nel senso del rimanere sempre uguale a se stesso.
Quali sono le caratteristiche di quest’uomo? Nasce in una famiglia borghese piuttosto benestante, nella quale l’elevata conflittualità dei genitori persiste per tutta la vita, non producendo alcun cambiamento. Nell’analisi dei sistemi familiari la situazione è quella del cosiddetto feedback negativo: la comunicazione patologica non porta ad alcun cambiamento, a differenza del feedback positivo dove il crescere della conflittualità porta a nuovi equilibri oppure alla separazione tra i coniugi. Nell’ottica dei figli però questo persistente e inconcludente conflitto genitoriale ha conseguenze pesanti, con una figlia sensibile e anoressica che chiude presto la sua vita, un figlio che appare stufo, demotivato e in attesa di fuggire da casa e l’altro figlio, il “colibrì” appunto, che cerca di tenere tutti insieme, facendo da collante tra tutti in modo illusorio e ingenuo. Tutti gli si agitano attorno, ma lui cerca di muoversi il meno possibile animato anche da spirito samaritano verso un amico truffaldino e ipersensibile, da cui infine si distacca ma che riconoscerà in seguito in una veste diversa. Ecco, piuttosto che un colibrì, a me sembra una specie di parabola di un Giobbe paziente afflitto da tante disgrazie.
Se da una parte c’è questo essere intrigato dalla storia, dall’altra però non posso tacere il fatto di essere anche irritato dalla scontatezza di citazioni sceniche e personaggi che affollano la sceneggiatura del film.
Il racconto di una borghesia che sotto l’apparenza della stabilità e delle buone maniere attua comportamenti discutibili non è certo una novità, la sensibile sorella di Carlo anoressica che si uccide è reale ma è anche un cliché, la moglie borderline che finisce in una clinica svizzera per essere annientata dai farmaci mi rimanda a “Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi, lo psicoanalista Nanni Moretti che fa la parodia dello psicoanalista che entra-in-crisi-non-si-sa-bene-perché è un già visto, sempre irresistibile e gustosissimo ma inevitabilmente dissonante con il resto del racconto, lo iettatore interpretato (bene) da Massimo Ceccherini è una rivisitazione di Totò in una scena pirandelliana, la scenografia del gioco d’azzardo è presa da “Eyes Wide Shut”, candele incluse, e ci sta pure il tradimento al tavolo da gioco del finto amico, come nell’amarissimo e indimenticabile “Regalo di Natale” di Pupi Avati. Infine, la scena conclusiva è un plagio assoluto di “Le invasioni barbariche”, commovente se si vuole, ma assolutamente non originale.
Tutti questi riferimenti, e il procedere continuamente avanti e indietro non rendono facile l’immersione nella storia del film. Annodando episodi più recenti ad altri del passato lo spettatore rimane piuttosto spaesato, e cerca continuamente riferimenti per capire quali personaggi siano presenti in ogni scena, e in quale momento della loro vita siano rappresentati. Se si vuole è lo stesso spettatore che diventa un colibrì per tenere insieme tutta la trama a dispetto della dispersività del tutto.
Anche se alla fine ci si commuove, si rimane con una perplessità di fondo: qual è il significato di questo personaggio incompiuto, che cosa ha veramente cercato di fare, che cosa ha trovato da solo e che cosa invece gli è capitato addosso. Il pensiero che mi viene in mente è che il Marco Carrera, così come i suoi fratelli, non ha ricevuto alcun insegnamento da parte dei genitori e ha dovuto inventarsi da solo la propria vita, in assenza di quel collante familiare che serve a creare un’alleanza tra i fratelli.
Il sentimento finale è di aver assistito a un bel racconto privo però di magia. Marco-colibrì ha cercato di rimediare a tutti i guai che i suoi compagni di percorso hanno procurato a se stessi e agli altri. Solo quando è rimasto solo con la piccola nipote Marco ha trovato una ragione di vita, e infine con un ultimo frullo d’ali ha deciso di andare in avanti muovendosi verso l’ignoto.
Dico subito che a mio parere tutti gli attori (Kasia Smutniak, Laura Morante, così come gli altri) hanno recitato in maniera splendida, anche se ovviamente ognuno ha dovuto ritagliarsi una parte di contorno, sovrastati dalla preponderanza del protagonista Marco, reso come sempre molto bene da Pierfrancesco Savino.
Il film mi ha in effetti per molti versi intrigato, perché ha raccontato la storia di questo Marco Carrera dall’infanzia fino alla sua fine in modo tale da far comprendere la sua evoluzione, o forse dovrei dire la sua mancata evoluzione, nel senso del rimanere sempre uguale a se stesso.
Quali sono le caratteristiche di quest’uomo? Nasce in una famiglia borghese piuttosto benestante, nella quale l’elevata conflittualità dei genitori persiste per tutta la vita, non producendo alcun cambiamento. Nell’analisi dei sistemi familiari la situazione è quella del cosiddetto feedback negativo: la comunicazione patologica non porta ad alcun cambiamento, a differenza del feedback positivo dove il crescere della conflittualità porta a nuovi equilibri oppure alla separazione tra i coniugi. Nell’ottica dei figli però questo persistente e inconcludente conflitto genitoriale ha conseguenze pesanti, con una figlia sensibile e anoressica che chiude presto la sua vita, un figlio che appare stufo, demotivato e in attesa di fuggire da casa e l’altro figlio, il “colibrì” appunto, che cerca di tenere tutti insieme, facendo da collante tra tutti in modo illusorio e ingenuo. Tutti gli si agitano attorno, ma lui cerca di muoversi il meno possibile animato anche da spirito samaritano verso un amico truffaldino e ipersensibile, da cui infine si distacca ma che riconoscerà in seguito in una veste diversa. Ecco, piuttosto che un colibrì, a me sembra una specie di parabola di un Giobbe paziente afflitto da tante disgrazie.
Se da una parte c’è questo essere intrigato dalla storia, dall’altra però non posso tacere il fatto di essere anche irritato dalla scontatezza di citazioni sceniche e personaggi che affollano la sceneggiatura del film.
Il racconto di una borghesia che sotto l’apparenza della stabilità e delle buone maniere attua comportamenti discutibili non è certo una novità, la sensibile sorella di Carlo anoressica che si uccide è reale ma è anche un cliché, la moglie borderline che finisce in una clinica svizzera per essere annientata dai farmaci mi rimanda a “Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi, lo psicoanalista Nanni Moretti che fa la parodia dello psicoanalista che entra-in-crisi-non-si-sa-bene-perché è un già visto, sempre irresistibile e gustosissimo ma inevitabilmente dissonante con il resto del racconto, lo iettatore interpretato (bene) da Massimo Ceccherini è una rivisitazione di Totò in una scena pirandelliana, la scenografia del gioco d’azzardo è presa da “Eyes Wide Shut”, candele incluse, e ci sta pure il tradimento al tavolo da gioco del finto amico, come nell’amarissimo e indimenticabile “Regalo di Natale” di Pupi Avati. Infine, la scena conclusiva è un plagio assoluto di “Le invasioni barbariche”, commovente se si vuole, ma assolutamente non originale.
Tutti questi riferimenti, e il procedere continuamente avanti e indietro non rendono facile l’immersione nella storia del film. Annodando episodi più recenti ad altri del passato lo spettatore rimane piuttosto spaesato, e cerca continuamente riferimenti per capire quali personaggi siano presenti in ogni scena, e in quale momento della loro vita siano rappresentati. Se si vuole è lo stesso spettatore che diventa un colibrì per tenere insieme tutta la trama a dispetto della dispersività del tutto.
Anche se alla fine ci si commuove, si rimane con una perplessità di fondo: qual è il significato di questo personaggio incompiuto, che cosa ha veramente cercato di fare, che cosa ha trovato da solo e che cosa invece gli è capitato addosso. Il pensiero che mi viene in mente è che il Marco Carrera, così come i suoi fratelli, non ha ricevuto alcun insegnamento da parte dei genitori e ha dovuto inventarsi da solo la propria vita, in assenza di quel collante familiare che serve a creare un’alleanza tra i fratelli.
Il sentimento finale è di aver assistito a un bel racconto privo però di magia. Marco-colibrì ha cercato di rimediare a tutti i guai che i suoi compagni di percorso hanno procurato a se stessi e agli altri. Solo quando è rimasto solo con la piccola nipote Marco ha trovato una ragione di vita, e infine con un ultimo frullo d’ali ha deciso di andare in avanti muovendosi verso l’ignoto.
0 commenti