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Il colore delle parole: sinestesia tra retorica e psicologia

23 Giu 14

A cura di Monia Papa

Un mio amico medico qualche giorno mi ha parlato piano con la sua voce blu e mi ha spiegato che forse c’è un’anomalia sul mio cromosoma X. Così ho pensato che probabilmente sulle calze delle belle gambe rosse e scattanti, da ballerina di can can, della mia lettera X deve esserci uno strappo.

Tutti abbiamo nel nostro cervello tanti appartamenti, interi palazzi, immensi condomini in cui però, generalmente, gli inquilini che li abitano sanno bene con chi parlare e con chi no. Ma nella mia testa devono esserci alcuni abitanti che sono cresciuti insieme da bambini e che non vogliono proprio saperne di smettere di interagire solo perché il tempo è passato e le loro radici dicono che vivono in due posti differenti e che è lì, separati da un muro di incomunicabilità, che devono stare.

È come se il mio cervello fosse rimasto una scuola materna anche se i suoi ospiti sono cresciuti. Così ogni stanza della mia mente resta aperte e in aperta comunicazione con tutte le altre stanze. Come se dentro la mia scatola cranica non esistessero pareti ma solo finestre e tutte le sensazioni dormissero per terra, su materassi accostati gli uni agli altri, sempre pronte a sfiorarsi, invece di andarsi a rinchiudere ognuna nella propria stanza.

Sono certo di avere appena sotto la foresta ispida dei miei capelli di giallo cannella e appena sopra l’azzurro squillante dei miei occhi, chilometri di fili che uniscono telefoni infantili fatti di lattine vuote. La voce blu, del resto, me lo ha proprio detto: “è come se il tuo cervello, Vladimir, fosse eccessivamente interconnesso”.

Io ho pensato che è affascinante avere un difetto che è in fondo un eccesso. Dei sensi esuberanti che producono frutti ibridi. Come il frutto che ho mangiato stamattina. Oggi è stato un giorno nero che più nero non si può. Ma non perché è stato un giorno triste, anzi. È stato un giorno nero perché il tre è un numero assolutamente nero e oggi è il tre marzo. Nero su nero insomma. Io però l’ho trascorso sdraiato su un prato di un verde dolcissimo. Ho riflettuto sul fatto che se nella mia testa c’è un albero sulla sua corteccia tutte le foglie, invece di stare ognuna nel proprio ramo, preferiscono danzare lungo le linee disegnate sul fusto e ho assaggiato un mapo dal sapore aspro e bianco.

Il mio amico Stefano, che ha un nome dello stesso colore e della stessa consistenza del bronzo, quindi non riesco mai a capire bene come faccia ad avere quella voce blu, mi ha anche spiegato che nella sinestesia c’è uno stimolo induttore e una risposta sensoriale concorrente. E che questi due elementi  possono appartenere alla stessa modalità sensoriale o a modalità sensoriali differenti.

Immagino che lo stimolo induttore sia come un interruttore. Mi succede con i numeri, per esempio. Un certo numero preme nella mia testa un certo pulsante e mi si accende in mente una lampada di un determinato colore. E quel numero è quel colore. Indiscutibilmente.

Mi capita anche quando leggo su un libro una parola specifica. Allora quella parola corre, corre forte lungo le strade intricate del mio cervello, penso voglia aprire la porta giusta, quella che cela il giusto senso, ma la risposta sensoriale concorrente corre più forte, evidentemente. Così la parola “casa” ha sempre il sapore della zucca per le papille gustative della mia mente.  

Stefano è forse il migliore dei miei amici ma ci sono tante persone nella mia vita che mi reputano un amico. Dicono che sono estremamente empatico, che si vede proprio che mi impegno a mettermi nei panni degli altri. Io in realtà spesso mi impegno a sentire meno. Perché se a qualcuno qualcun altro tocca una spalla e io sono lì e vedo questo gesto allora quella spalla diventa anche la mia e io quelle mani me le sento addosso.

Mi sento sempre addosso tutte le mani del mondo. Soprattutto quelle degli scrittori che hanno le sinestesie solo nell’inchiostro ma non nel sangue.

Chissà com’è prendere due termini che abitano su piani sensoriali diversi e farli accoppiare a forza. Per me la sinestesia, come figura poetica, è questo: un matrimonio combinato costruito ad arte e celebrato davanti all’altare della retorica. Ma forse non dovrei essere così duro con chi fa della sinestesia soltanto un esercizio di stile: è anche grazie a coppie di parole ardite, unioni che solo menti audaci potrebbero concepire, che la mia bizzarria può farsi poesia. In fondo non è quello che succede ogni volta che il male di vivere si fa bello scrivere?

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