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IL DETENUTO STRANIERO

7 Feb 17

A cura di chiclana

Mi accingo con una certa commozione a questo intervento[i], perché questo luogo e il tema che mi è stato affidato mi riportano indietro col pensiero a tanti volti, a tante sofferenze, che ho incontrato qui  nel decennio, dal 1999 al 2008, nel quale ho operato nell’ambito del progetto di consulenza del nostro DSM all’interno del carcere di Marassi.
Vorrei cominciare col richiamare il fatto che spesso lo stereotipo dello straniero pazzo inquieta, fa paura e spinge a stare alla larga per una sensazione di duplice incomprensione: utilizza segni diversi, perché è straniero; e dà un diverso significato ai segni, perché è “pazzo”. I versi dell’omonima canzone di un gruppo rock emiliano, i Modena City Ramblers, mi paiono al riguardo emblematici:

«Lo straniero pazzo
Attenti bimbi, attenti bimbi
Correte via
Lo straniero pazzo sta arrivando
Correte via
Ha capelli sporchi
E questo strano odore
Di chissà quali mondi
E chissà quali storie
Ha modi strani e gesti strani
"Al g'à la cera dal furestér"»

 
La duplice alienità dello straniero e del pazzo fa doppiamente paura, dunque. In più, mi è stato chiesto di parlare oggi di un soggetto che, oltre che straniero e pazzo, è anche detenuto; quindi un soggetto che ha fatto – o almeno si pensa abbia fatto – qualcosa di male per cui è in castigo. Straniero, pazzo e avanzo di galera: parrebbe davvero un soggetto poco raccomandabile, insomma, quello del quale andiamo a occuparci.
Non so quanto questo stereotipo corrisponda alla realtà, credo che come sempre debba essere verificato caso per caso. Quello che invece mi sento di dire con certezza è che il detenuto straniero con problemi di salute mentale è un soggetto che vive contemporaneamente almeno tre condizioni difficili, e quindi è una persona piena di problemi e bisognosa di molto aiuto.
Ma quanti sono, tanto per cominciare, gli stranieri con problemi di salute mentale oggi in carcere in Italia? Non mi imbarcherò nel problema di quanti sono i soggetti con problemi di salute mentale in carcere, che è scivoloso e insolubile perché dipende da dove pongo la soglia tra quelli che considero i problemi di salute mentale e quello che considero il rumore di fondo dato dal malessere e dalla sofferenza che l’esperienza detentiva porta implicitamente in se stessa. E’ più facile dire quanti sono gli stranieri, e sono tanti perché lo straniero può avere, forse, più ragioni per infrangere la legge, ma soprattutto ha più probabilità di finire e rimanere in carcere[ii]. Nello scorso decennio, quando ho fatto la mia esperienza di psichiatra in ambiente penitenziario, avrei aggiunto che il carcere rappresentava impropriamente uno dei principali strumenti di gestione del fenomeno migratorio in Italia; oggi non credo sia più vero, perché il fenomeno ha assunto una dimensione tale che tra gli stranieri quelli in carcere sono diventati una percentuale bassa e altri strumenti, in parte più civili e in parte no, sono stati approntati per affrontare la questione migratoria.
Secondo l’ISTAT nel 2015 gli stranieri erano 16.551 su 50.061 detenuti complessivi, il 33% dunque. E la percentuale straniera sui detenuti diventa ancora più significativa se focalizziamo l’attenzione sulla nostra regione, la Liguria, dove nel 2015 erano 690 su 1.289, il 53.5%, un po’ più della metà. E’ una presenza che non può quindi certo essere scotomizzata da chi lavora a qualunque titolo in carcere.
Tanto più che l’identità, e la sofferenza, della persona della quale ci stiamo occupando si presenta subito complessa, perché occorre prenderne in considerazione almeno tre dimensioni, ma il più delle volte anche qualcuna in più. Infatti:
 
1. E’ un detenuto.
2. E’ un soggetto con problemi di salute mentale.
3. E’ uno straniero.
4, 5, 6…. Può essere altro (può avere quindi, soprattutto, anche altri problemi).
 
Cerchiamo di affrontare una per una queste dimensioni, che la persona vive invece intrecciate, a partire dalla prima che accenneremo più brevemente perché è stata affrontata con grande umanità e attenzione dall’intervento che mi ha preceduto, quello di Bianca Masnata. Si tratta dunque di un detenuto, che vive quindi la sofferenza implicita nell’esperienza generale della detenzione; e in particolare:
–          Privazione della libertà.
–          Eteronomia, corrispondente al fatto che si dipende in tutto da norme formali e informali stabilite da altri, l’istituzione, i suoi operatori,  ma anche il gruppo dei detenuti al suo interno
–          Rapporto obbligato con l’istituzione e i suoi vari operatori
–          Promiscuità forzata. Talvolta all’opposto isolamento forzato
–          Deprivazione affettiva e sessuale
–          Rottura degli schemi, delle abitudini e perdita degli oggetti  della vita libera. Noia forzata
–          Interlocuzione «dal basso» con i protagonisti assenti della penalità: l’Amministrazione penitenziaria e la Magistratura, dalle quali è possibile aspettarsi benefici
–          Eventuale attesa della sentenza, o di risposte a istanze varie successive alla sentenza
–          Eventuale sentimento di ingiustizia riferito alla condanna, o alla sua entità
–          Eventuali problemi con gli altri detenuti. L’«infamia», le «biciclette»[iii] ecc.
 
Abbiamo detto poi che si tratta anche di una persona con problemi di salute mentale, tra i quali quelli di riscontro più frequente mi pare che possano essere:
–          Presenta una condizione di generica sofferenza emotiva, per lo più caratterizzata da ansia, insonnia, tristezza
–          Può avere meno strumenti emotivi per affrontare la durezza dell’esperienza criminale, giudiziaria, detentiva
–          Può avere maggiori problemi nelle relazioni interpersonali strette e nella vita in spazi limitati, a volte claustrofobia
–          Può essere per la sua condizione mentale oggetto di stigma da parte delle persone che sono obbligate a conviverci (altre volte può riceverne aiuto)
–          Può avere momenti di agitazione o altri comportamenti che possono essere effettivamente disturbanti per gli altri, maggiori difficoltà nel rispettare regole rigide e quindi incorrere con maggiore frequenza nel rigore del regolamento disciplinare
–          Ha un rischio suicidario statisticamente più elevato perché tanto la malattia mentale che la detenzione rappresentano fattori di rischio, un tema sul quale giustamente Bianca si è già soffermata
–          Talvolta può avere problemi di errata percezione della realtà riferibili a psicosi
 
In terzo luogo, abbiamo detto che si tratta anche di uno straniero, e quindi:
–          Può avere problemi linguistici, a volte di gravità tale da rendere del tutto impossibile la comunicazione
–          Può avere problemi di differenti riferimenti culturali che possono generare malintesi sia con gli altri detenuti che con il personale (gesti ed espressioni analoghi possono assumere diverso significato)
–          Può avere difficoltà nella comprensione del percorso giudiziario e dell’organizzazione del contesto detentivo (minore possibilità di esercizio del diritto di difesa, di accesso alle «domandine» ecc.)
–          La separazione dal contesto affettivo, che è caratteristica della detenzione, è accentuata dalla distanza spaziale e dalle complicazioni determinate dal «confine» (visite, telefonate, pacchi ecc.)
–          Il sentimento della «nostalgia» dal proprio contesto e dai propri luoghi può farsi più intenso per la maggiore distanza e la complessità della comunicazione
–          Anche il sentimento di solitudine può farsi più intenso se il soggetto appartiene a gruppi meno presenti nella popolazione detenuta 
 
Dire straniero, infatti, non significa granché, perché gli stranieri sono anche stranieri tra loro ed è quindi necessario andare oltre i limiti del pregiudizio etnocentrico tanto caro a noi europei. E un immigrato proveniente dall’America latina, ad esempio, avrà in comune con uno proveniente dalla Cina i problemi connessi alla migrazione, ma si farà il nome del Padre come me o le persone intorno a me e parlerà una lingua della quale, senza averla studiata, sono in grado di capire almeno metà delle parole. E allora, in un’ideale categorizzazione di quelle così caratteristiche dell’istituzione totale, tra le due macrocategorie “italiani” e “stranieri” , potrebbero esserci più ragioni per collocarlo nella prima che nella seconda.   
Ma questa persona che è detenuta con problemi di salute mentale e straniera potrà essere anche altro:
–          Può essere tossicodipendente
–          Può essere povero
–          Può essere presente in modo irregolare
–          La detenzione può rappresentare il fallimento di un percorso migratorio, e/o avere per orizzonte l’espulsione
–          Può avere un basso livello d’istruzione
–          Può appartenere più o meno alla cultura «globale» (e questo è un fenomeno interessante tra i giovani tossicodipendenti stranieri, che a volte se ne fregano dalla religione e della tradizione, ascoltano la stessa musica dei giovani italiani e hanno le loro stesse aspirazioni; sono cioè perfettamente integrati, ma integrati spesso, tra i coetanei italiani, con quelli più devianti… integrazione nella devianza, insomma, ed è un fenomeno che andrebbe approfondito)
–          Può appartenere a etnie e culture stigmatizzate (zingari, popolazioni di colore o, in questo periodo, anche islamici) o parteggiare contro l’Italia nell’ambito delle guerre globali nelle quali è coinvolta[iv]. Ricordo che durante la Guerra del Golfo un giovane maghrebino viveva una forte identificazione con la figura di Saddam, per la capacità di tenere testa per alcune settimane alle forze soverchianti di quasi tutto il mondo, vissuta i modo epico come elemento di riscatto dalla propria frustrazione. Il che creò attriti con gli operatori italiani quando questi vissero con speculare partecipazione la vicenda del contractor genovese rapito e ucciso in Iraq nello stesso periodo.
–          Può essere isolato, o emarginato, o perseguitato nella sua stessa comunità (ad esempio soggetti laici appartenenti a contesti nazionali dove la ritualità religiosa è molto importante e diffusa; o appartenenti a minoranze religiose o etniche disprezzate nel Paese d’origine, come gli zingari in Romania, o i berberi nel Maghreb, i curdi in Turchia ecc., o ancora soggetti particolarmente poveri, analfabeti ecc.)
–          Può avere patologie mediche concomitanti (eventualmente dolorose o anche a prognosi infausta)
–          Può essere portatore di malattie contagiose (la scabbia ad esempio, e dovrà in quel caso fare i conti con i problemi dell’isolamento sanitario o con livelli anche molto elevati di stigma, che nelle mie esperienze di lavoro in carcere ho riscontrato incredibilmente più alti di quelli evocati dalle malattie mentali[v])
–          Può avere specificità di identità o di orientamento sessuale (transessuali o soggetti ad orientamento omosessuale)
–          Naturalmente, sebbene qui siamo in un carcere maschile e questa eventualità non venga immediatamente in mente, a vivere la detenzione può essere una donna (sono meno del 5%, ma ci sono e hanno specifici problemi), ed eventualmente può essere una mamma
 
Abbiamo detto della povertà, che è uno dei fattori più potenti nel determinare la qualità di un’esperienza detentiva e il “potere” all’interno della cella[vi], e allora per non rimanere nell’astratto ricordiamoci che c’è straniero e straniero. Certo gli stranieri che sbarcano dai barconi a Lampedusa sono stranieri così come lo sono gli imprenditori cinesi appartenenti alla cordata che è, anch’essa, sbarcata recentemente in Italia, da un aereo però, per acquistare una squadra prestigiosa del nostro campionato…. Ma il detenuto-straniero-tipo su cui ci soffermeremo da questo momento in poi è molto più simile quanto a censo e quindi a potere ai primi, che non ai secondi.
Si caratterizza infatti per essere povero, irregolare, proveniente dalla zona sud del mondo con passato coloniale. Un identikit corrispondente alla maggioranza degli stranieri che incontriamo nel carcere.
E la prima osservazione che lo riguarda è che il detenuto-straniero-tipo è – e può quindi  sentirsi – «più detenuto» degli altri, a parità di reato, per varie ragioni tra le quali:
–          Minore possibilità di accesso ai diritti di difesa e valutazione peritale spesso meno accurata nel corso del processo
–          Minore o nulla possibilità di sostegno, affettivo e materiale, dalla rete famigliare e sociale nel corso della detenzione
–          Minore possibilità di accesso alla detenzione domiciliare e ad altre modalità di espiazione alternativa della pena, banalmente per mancanza di un domicilio e di un posto di lavoro formalizzati e considerati affidabili
–          Talvolta corrispondenza tra liberazione ed espulsione
–          Insorgenza di sentimenti di ingiustizia e frustrazione nel confronto, a parità di condizione giuridica, con i condetenuti italiani e possibili conseguenze sull’assetto emotivo in termini di depressione, disperazione, tendenza alla reattività comportamentale etero e autodiretta
 
L’incontro tra l’operatore – diciamo della salute mentale, ma quanto diremo vale in gran parte credo anche per l’operatore sanitario in generale, e in parte forse anche per l’operatore penitenziario – e il detenuto-straniero-tipo nel microcosmo del carcere può presentare difficoltà di carattere emotivo, tra le quali vorrei sottolineare diversi squilibri di potere tra i due soggetti dell’incontro, ciascuno dei quali affonda le radici in una specifica tradizione ed è oggetto di un’ampia letteratura, che sono:

–          Squilibrio penitenziario: è l’incontro tra un detenuto e un rappresentante dell’istituzione
–          Squilibrio medico: è l’incontro tra un malato e un sano dal quale si aspetta aiuto
–          Squilibrio psichiatrico: è l’incontro tra un soggetto più o meno “matto” e uno “con ragione”
–          Squilibrio economico: è l’incontro tra un povero e un soggetto garantito
–          Squilibrio burocratico:  è l’incontro tra un migrante irregolare e un cittadino
–          Squilibrio geopolitico: è l’incontro tra un appartenente al sud e uno al nord del mondo
–          Squilibrio storico: è l’incontro tra un discendente dei colonizzati e uno dei colonizzatori
 
Nell’incontro risuonano quindi, sull’un polo e sull’altro della relazione, ferite attuali e antiche che possono generare sentimenti complessi (invidia e risentimento piò o meno inconsapevoli in una direzione; sentimenti di colpa eventualmente denegati o ribaltati, inconsapevoli e non elaborati, nell’altra) che originano in gran parte da fuori del carcere e, non avendo una loro composizione, possono inquinare l’incontro e vanno tenuti presenti. Il che non significa che per lavorare in carcere occorra sottoporsi ad anni di psicoanalisi, ma anche solo che bisogna sforzarsi di mantenere aperta e serena la riflessione sul proprio operato e la capacità di esercitare l’autocritica.
Perché in carcere si accentua, tra l’altro, il fenomeno che l’etnopsichiatra Roberto Beneduce descrive in questi termini: “In ogni sguardo, un rifugiato o un immigrato rivelano non solo la complessa dimensione sociale e affettiva della propria condizione, bensì tutta la densità di un passato inenarrabile, represso, che aspetta ancora il suo riscatto”[vii].
Credo che all’operatore italiano, nell’incontro con lo straniero, sarebbe utile infine tenere presente, insieme a tutto questo, l’esperienza umana dei propri antenati che furono migranti e furono costretti a scontrarsi con gli stessi atteggiamenti di rifiuto e le difficoltà materiali e morali che i migranti sperimentano oggi in Italia. La triste immagine tratta dalla copertina de La domenica del Corriere del 15 febbraio 1903 che illustra questo articolo e mostra i "vinti della vita",  gli emigranti italiani "impazziti nella Repubblica Argentina" al loro arrivo al porto di Genova, serve credo più di molte parole a metterci in contatto con questi sentimenti che possono essere preziosi nell'incontro con il detenuto straniero.  
E così, in conclusione, credo allora che alla complessità dell’incontro tra il «detenuto-straniero-tipo» e l’operatore – sanitario ma in parte anche penitenziario –  concorrano fattori molteplici, che  riguardano la detenzione ma in parte la trascendono. Lo sforzo di contribuire a evitare al detenuto ogni sofferenza aggiuntiva rispetto a quella derivante dalla privazione della libertà, che la legge ci impone, diventa più arduo nel caso dello straniero per il quale l’esperienza detentiva è più impervia. E a noi è richiesto quindi un impegno più grande nell’esercizio dell’umile arte dello psicopatologo, che è quella di immedesimarsi per cercare di comprendere. Il che potrà avere, tra l’altro, in questo caso forse anche l’effetto di attenuare nell’altro la percezione di solitudine, ostilità e disperazione nell’affrontare il dolore della reclusione, che si intreccia per lui con quello dell’esilio.
 

[i] Presento qui una trascrizione dell’intervento al convegno Percorsi di cura per la migliore gestione del paziente con Disturbi mentali maggiori svoltosi nell’ambito del ciclo “Insieme. Carcere e salute mentale” presso il Teatro dell’arca, all’interno della Casa circondariale di Marassi a Genova il 25 gennaio 2017.
[ii] Sulla questione cfr.: P. Ciliberti, P.F. Peloso, F. Scapati, L. Ferrannini, Esperienza migratoria, salute mentale e comportamento criminale nella prospettiva della psichiatria di comunità, Rassegna Italiana di Criminologia, VIII, 2, 2014, pp. 90-98 (pp. 96-97). Nonché, della vasta bibliografia disponibile, p. es. il numero monografico La criminalizzazione dei migranti della rivista “Studi sulla questione criminale”, II, 1, 2007.
[iii] Il primo termine si riferisce nel gergo carcerario ai detenuti stigmatizzati dagli altri perché ritenuti confidenti dell’autorità, o perché colpevoli di reati considerati infamanti (contro donne o bambini p. es.). Il secondo a montature ordite attraverso calunnie, per fare sì che un detenuto sia fatto rientrare dagli altri nella categoria dell’«infame». I detenuti che finiscono, sulla base di accuse fondate o di calunnie, in questa categoria scontano, nonostante l’istituzione organizzi spazi loro riservati per proteggerli, una durissima doppia detenzione: imprigionati dallo Stato e disprezzati e isolati, quando non concretamente minacciati, dagli altri detenuti il che li rende psicologicamente più fragili.
[iv] Il riferimento è qui a manifestazioni di risentimento più o meno transitorie comunque interne al mondo delle emozioni e delle fantasie, che ci interessano come operatori “psi”; da questo livello alla progettazione di azioni che implichino nella realtà quella che viene definita “radicalizzazione”, il salto non è credo breve, né così frequente.
[v] Si potrebbero forse qui evocare fantasmi antichi del contagio, dalla lebbra alla peste, la cui persistenza è forse maggiore rispetto alla stessa follia.
[vi] Per questo e altri importanti aspetti della quotidianità del carcere: P. Buffa, I territori della pena. Alla ricerca dei meccanismi di cambiamento delle prassi penitenziarie, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2006.
[vii] R. Beneduce, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità tra Storia, domino, cultura. Roma, Carocci, 2007.

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