Nessuno, neppure l’ateo, può ignorare l’importanza delle dottrine religiose: esse riflettono (o corrispondono a) una parte della realtà osservabile con adeguati strumenti d’indagine, ossia il mondo interno umano cui si può accedere tramite l’introspezione e l’empatia. In questo senso, anche il diavolo e l’inferno corrispondono a realtà osservabili. Il diavolo è la personificazione delle istanze distruttive e autodistruttive che esistono in tutti noi. In termini psicodinamici, egli corrisponde ad un nucleo arcaico di Superio, un oggetto interno persecutorio che spinge attivamente verso peccati che saranno poi severamente e inesorabilmente puniti. Nel far questo, egli usa l’inganno e l’auto-inganno, celati dalla mistificazione e dalla comunicazione paradossale.
Ne abbiamo un chiaro esempio nelle vicende di Guido da Montefeltro, descritte da Dante nel XXVII canto dell’Inferno. Uomo di guerra più astuto che forte, Guido, varcata la soglia della vecchiaia, si fece frate francescano per espiare le sue colpe e salvare l’anima. Avrebbe raggiunto il suo scopo se il papa Bonifacio VIII (o, meglio, il diavolo, parlandogli per voce del pontefice) non lo avesse risospinto nelle medesime colpe. La fama di Guido come combattente astuto si era diffusa nel mondo; motivo per cui Bonifacio VIII, in guerra coi Colonna, si rivolse a lui per averne un consiglio su come abbattere la rocca di Palestrina, tenuta dagli avversari. Poiché Guido taceva, Bonifacio lo indusse a parlare promettendo di assolverlo prima di commettere la colpa, poiché era nel potere del pontefice aprire e chiudere le porte del Cielo con le chiavi apostoliche:
E poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e disserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ‘l mio antecessor non ebbe care”
Guido, vittima dell’inganno del pontefice, gli suggerì a sua volta la forma principale d’inganno usata nella lotta per il potere politico, ossia promettere molto e mantenere poco:
“lunga promessa con l’attender corto
ti farà triunfar nell’alto seggio.”
Quando Guido morì, venne San Francesco per portarne l’anima in Cielo; ma sopraggiunse il diavolo che, con rigore di logica, dimostrò che quell’anima gli apparteneva: in virtù del principio di non contraddizione, infatti, non è concepibile che si possa assolvere chi non si pente, né che si possa nel medesimo tempo pentirsi e voler commettere il peccato:
“ch’assolver non si può chi non si pente
né pentére e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”
Oh me dolente! Come mi riscossi
Quando mi prese dicendomi: “Forse
Tu non pensavi ch’io loico fossi!”
Come destandosi da un sogno, Guido s’accorge di colpo che il diavolo, maestro dell’inganno e della mistificazione (dell’arte di far apparire come logiche e accettabili affermazioni, in realtà, contraddittorie) è anche, al momento della resa dei conti, logico e aderente alla realtà.
Esattamente corrispondente alla descrizione dantesca è il comportamento del “diavolo” (l’oggetto interno persecutorio, distruttivo e auto-distruttivo) che fa parte del mondo interno di ciascuno di noi: c’inganna distogliendoci dalla coerenza logica nell’ambito dei princîpi morali; insinua in noi una concezione “relativistica” per cui è vero e giusto tutto e il contrario di tutto. Tuttavia, al momento della resa dei conti (quando la nostra esistenza volge al termine), ci condanna inesorabilmente, con rigore di logica allo “inferno”.
Ne abbiamo un chiaro esempio nelle vicende di Guido da Montefeltro, descritte da Dante nel XXVII canto dell’Inferno. Uomo di guerra più astuto che forte, Guido, varcata la soglia della vecchiaia, si fece frate francescano per espiare le sue colpe e salvare l’anima. Avrebbe raggiunto il suo scopo se il papa Bonifacio VIII (o, meglio, il diavolo, parlandogli per voce del pontefice) non lo avesse risospinto nelle medesime colpe. La fama di Guido come combattente astuto si era diffusa nel mondo; motivo per cui Bonifacio VIII, in guerra coi Colonna, si rivolse a lui per averne un consiglio su come abbattere la rocca di Palestrina, tenuta dagli avversari. Poiché Guido taceva, Bonifacio lo indusse a parlare promettendo di assolverlo prima di commettere la colpa, poiché era nel potere del pontefice aprire e chiudere le porte del Cielo con le chiavi apostoliche:
E poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e disserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ‘l mio antecessor non ebbe care”
Guido, vittima dell’inganno del pontefice, gli suggerì a sua volta la forma principale d’inganno usata nella lotta per il potere politico, ossia promettere molto e mantenere poco:
“lunga promessa con l’attender corto
ti farà triunfar nell’alto seggio.”
Quando Guido morì, venne San Francesco per portarne l’anima in Cielo; ma sopraggiunse il diavolo che, con rigore di logica, dimostrò che quell’anima gli apparteneva: in virtù del principio di non contraddizione, infatti, non è concepibile che si possa assolvere chi non si pente, né che si possa nel medesimo tempo pentirsi e voler commettere il peccato:
“ch’assolver non si può chi non si pente
né pentére e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”
Oh me dolente! Come mi riscossi
Quando mi prese dicendomi: “Forse
Tu non pensavi ch’io loico fossi!”
Come destandosi da un sogno, Guido s’accorge di colpo che il diavolo, maestro dell’inganno e della mistificazione (dell’arte di far apparire come logiche e accettabili affermazioni, in realtà, contraddittorie) è anche, al momento della resa dei conti, logico e aderente alla realtà.
Esattamente corrispondente alla descrizione dantesca è il comportamento del “diavolo” (l’oggetto interno persecutorio, distruttivo e auto-distruttivo) che fa parte del mondo interno di ciascuno di noi: c’inganna distogliendoci dalla coerenza logica nell’ambito dei princîpi morali; insinua in noi una concezione “relativistica” per cui è vero e giusto tutto e il contrario di tutto. Tuttavia, al momento della resa dei conti (quando la nostra esistenza volge al termine), ci condanna inesorabilmente, con rigore di logica allo “inferno”.
E veniamo a quest’ultimo concetto religioso: esiste l’inferno? Non posseggo alcun titolo per esprimere, in proposito, un giudizio teologico. Tuttavia, in quanto clinico abituato ad entrare nel mondo interno degli esseri umani, posso assicurare che esiste, nelle profondità della vita interiore, un’esperienza assimilabile a quella dell’inferno. È il momento della verità, cui nessuno può sfuggire: quello in cui ci si rende conto di essersi esiliati dai propri simili e dagli oggetti idealizzati (quelle entità interiori, come dotate di esistenza autonome, capaci di offrire protezione e conforto) che fanno parte del mondo interno. È il momento in cui si scopre di non avere alcuna “eredità d’affetti” da lasciare a chi rimane: una verità inconfutabile, che nessuna mistificazione, nessuna concezione “relativistica” può corrompere. È un momento in cui un solo istante equivale all’eternità. Sappiamo, infatti, che il tempo soggettivo può sganciarsi completamente da quello cronologico, come è evidente nel “delirio di eternità” delle forme cotardiane di depressione; come è evidente, anche, nel fenomeno della “ecmnesia” per il quale le persone in punto di morte (o convinte di esserlo) ripercorrono, in tutti i dettagli ed in un solo istante, la loro intera esistenza. Questo, nei termini della psicologia del profondo, è ciò che corrisponde alla “dannazione eterna”.
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