Percorso: Home 9 LA VOCE DELL'INDICIBILE 9 Il dilemma dello spazio, del tempo, delle persone: “Incontrarsi e dirsi addio” di Ferenç Körmendi (1938)

Il dilemma dello spazio, del tempo, delle persone: “Incontrarsi e dirsi addio” di Ferenç Körmendi (1938)

8 Set 21

A cura di Sabino Nanni

        Lo confesso: ho un attaccamento morboso ai miei libri. In genere, non li presto; e quando sono costretto ad affidarne uno ad una persona cui non posso dire di no, per tutto il tempo in cui è nelle sue mani io non sto bene, come se mi fossi privato temporaneamente di un mio bambino, o di una parte di me.
        Mi capitò qualcosa del genere anni fa, quando il mio ex-analista, il Prof. Romolo Rossi, avendo saputo che avevo ereditato molti volumi di proprietà della mia famiglia, mi chiese se per caso, fra essi, c’era un libro ormai introvabile: “Incontrarsi e dirsi addio” dello scrittore ungherese Ferenç Körmendi, pubblicato nel 1938 per l’edizione Bompiani. Glielo prestai, ed il Prof. Rossi, conoscendomi, ebbe la delicatezza di leggerlo in tutta fretta e di restituirmelo dopo pochi giorni, avendo persino evitato di fotocopiarlo per non guastarlo. A quell’epoca io non l’avevo ancora letto. Mi restò insoddisfatto, perciò, il desiderio di capire che cosa aveva colpito il Prof. Rossi in quelle pagine. Non ebbi neppure la possibilità di discuterne con lui, come si faceva spesso. Le righe che seguono riassumono quanto gli avrei detto e quel che immagino m’avrebbe detto lui, se ne avessimo parlato.
        Una premessa. Nelle cartelle cliniche psichiatriche, si è soliti valutare lo stato di coscienza di ciascun paziente considerandone l’orientamento nello spazio, nel tempo e riguardo alle persone. Un’immersione empatica approfondita nel mondo interno di ciascun individuo consente di capire che tutto ciò non riguarda esclusivamente la sfera cognitiva. Lo spazio, il tempo e le persone sono legati alla vita affettiva di ciascuno, alla sua storia e alla sua particolare personalità. All’inizio della vita, spazio, tempo e rapporti con altre persone che possano separarci dall’unico essere che amiamo sono ancora pressoché inesistenti. Gustav Mahler affermava di attingere, per le sue creazioni musicali, da quel che rimaneva in lui di quell’antichissima esperienza pre-verbale: da “quell’altro mondo dove le cose non sono distrutte dallo spazio e dal tempo”. Infatti, per un Io ancora fragile e immaturo, quando spazio, o tempo, o rapporti con altri s’interpongono fra il soggetto e l’oggetto d’amore, ciò rappresenta una catastrofe totale, un completo annientamento di tutto. Solo attraverso un graduale processo di maturazione, l’individuo arriva a comprendere che, oltre un certo spazio e un certo tempo, l’oggetto d’amore esiste ancora, e che il rapporto con altri può fare da tramite per raggiungerlo. Questi elementi dell’orientamento nel mondo esterno possono anche unirci nuovamente con chi amiamo, e non solo separarcene: occorre percorrere un certo spazio, far trascorrere un certo tempo, riconoscere come propri simili anche altri individui.
        Tuttavia, tutto finisce, anche il rapporto con la prima persona che amammo: ci si allontana, si archivia come appartenente al passato l’attaccamento al primo essere umano che conoscemmo e che, a un certo punto, scompare; s’instaurano rapporti con altre persone che lo sostituiscono. Spazio, tempo e persone tornano a separarci dall’antico oggetto d’amore, e questa volta definitivamente. A questo punto, i percorsi dei singoli individui divergono. C’è chi, avendo rinunciato a tutto il resto, conserva della più antica esperienza della vita il sentimento della Bellezza; un sentimento avvertito, per la prima volta, in rapporto al carattere soave della voce, del volto e delle carezze materne. Chi, invece, è più sensibile al sentimento della Verità trae la certezza che, da qualche parte, essa deve esistere dalla prima esperienza di questo genere: la verità di noi stessi che fu offerta dall’empatia materna. Ciò rappresenta il patrimonio interiore di chi s’appassiona all’Arte, alla Scienza o a qualsiasi altra forma di Bellezza e di Verità. C’è infine chi, ostinatamente legato all’antico oggetto d’amore, conserva la segreta speranza che, oltre un certo spazio, un certo tempo, o individuandolo tra diverse persone, potrà ritrovarlo; e questo a dispetto del fatto che l’esame di realtà dica chiaramente che ciò non è possibile. E qui arriviamo finalmente al libro di Körmendi.
        Stupisce che, in un’epoca in cui le differenze di razza, di nazionalità, di religione stavano creando barriere invalicabili fra gli esseri umani (siamo nel 1938), per il protagonista Daniel esse siano del tutto irrilevanti. Per lui è indifferente avere a che fare con Russi, o Inglesi, o Italiani, Cristiani o Ebrei; a lui, in quanto scrittore, interessa soprattutto la vita interiore degli individui, soprattutto in quanto riconoscibili o comprensibili come propri simili. Oltre al suo talento artistico, tuttavia, c’è qualcosa in lui che lo spinge a conoscere sempre nuove persone, in luoghi diversi; qualcosa che lui stesso non capisce.
        Spinto da questa forza misteriosa, continuamente tormentato da un’insoddisfazione che non riesce a definire, viaggia in diverse parti del mondo, ed approda infine in un’isola dell’Italia meridionale. Qui conosce la famiglia che gestisce la pensione in cui alloggia; si tratta dei signori Cotta: un uomo anziano, la moglie di lui Anna, giovanissima, e la figlia di primo letto di lui. Qualcosa lo colpisce di queste persone. Il signor Cotta si definisce esperto in “scienza dei segreti”, e Daniel, pur essendo scettico in proposito, non riesce a sottrarsi al fascino dell’uomo e finisce per partecipare regolarmente alle riunioni serali, organizzate da costui, cui partecipano tutti gli ospiti della pensione, anche se non gli pare di ricavarne granché. Della giovane signora Cotta lo colpiscono i suoi occhi, nel primo momento in cui i loro sguardi s’incontrano: Daniel vi legge un fuggevole sentimento d’infelicità e di terrore.
        Queste persone rimangono costantemente presenti nel corso di tutta la narrazione. Daniel apprende, su di loro, una storia velata di mistero. La signora Cotta era stata la fidanzata del figlio dell’attuale marito. Durante una gita in barca, cui loro tre avevano partecipato, il fidanzato era caduto in mare e, nonostante fosse un bravo nuotatore, era annegato. Dalla gita, il signor Cotta era tornato con un braccio paralizzato (per uno psichiatra, come il sottoscritto, viene da pensare ad una paralisi isterica, tramite la quale l’arto con cui era stato compiuto il gesto colpevole e innominabile era stato punito: un omicidio? Un’omissione di soccorso?). Poco tempo dopo, suocero e nuora si erano sposati.
        Daniel si sente attratto dalla giovane signora Anna; in più riprese, cerca d’avvicinarla, ma lei si mostra apparentemente fredda e scostante. Nel frattempo, il protagonista conosce altre persone. Incontra Joan, una giovane che aveva conosciuto in passato, ma di cui si era dimenticato. Joan, dopo essere riuscita a far partire il fidanzato, gli rivela il suo amore. È un sentimento di vecchia data, cui la donna sentiva d’essere destinata, e per questo aveva rincorso Daniel in diverse parti del mondo. Inebriato dalla bellezza, dalla sensualità, dalla vivacità interiore di Joan, il protagonista si convince di amarla. Tuttavia una voce, dal suo mondo interno, gli dice insistentemente che Joan non è la donna cui egli è destinato. Separatosi dolorosamente da lei, Daniel vive alcuni giorni d’intensa inquietudine, in cui gli pare di cercare affannosamente qualcosa o qualcuno, pur non riuscendo a capire di cosa si tratti.
        Una sera i suoi passi lo portano, come casualmente, alla pensione dei signori Cotta. Egli si era allontanato da quel luogo per seguire Joan. Nel frattempo, la struttura era decaduta, gli ospiti l’avevano abbandonata e il signor Cotta si era ammalato. Vincendo le resistenze dell’inserviente, Daniel penetra in quello che fu il suo albergo e raggiunge Anna, la persona che, ora se ne rende conto, era l’unica che egli, da sempre, aveva amato. Il loro incontro è privo di stupore, come se entrambi lo aspettassero da tempo. Entrambi nutrivano segretamente la speranza d’incontrare l’unica persona che avrebbero veramente amato. Ciascuno dei due attendeva una persona che, per un prodigio del caso, combaciava perfettamente, nelle sue caratteristiche, con quelle dell’altro. Il loro incontro, tuttavia, non avviene per puro caso: in entrambi il desiderio è talmente intenso da avvertire inconsapevolmente, in via subliminale, anche il minimo indizio che li avrebbe portati sulle tracce dell’altro. La distanza dell’uno dall’altra, il tempo occorrente per la ricerca, la necessità d’individuare l’essere amato fra miliardi di persone non li avevano mai scoraggiati.  
        L’incontro finalmente avviene, ma è anche il momento di dirsi addio: la vita di ciascuno si è organizzata in luoghi troppo distanti, ci si è ritrovati troppo tardi, ognuno è legato in modo inscindibile ad altri affetti che non si possono tradire. Anche per questi individui ostinatamente innamorati, lo spazio, il tempo e le altre persone finiscono per separare definitivamente, sia pure tardivamente.
        A giudizio di chi scrive. “Incontrarsi e dirsi addio” non parla principalmente del rapporto sentimentale fra uomo e donna. C’è, dietro queste vicende, l’illustrazione di un percorso esistenziale che, sia pure con innumerevoli variabili, accomuna tutti gli esseri umani. Freud, ne “Il motivo della scelta degli scrigni” sostenne che la nostra vita è caratterizzata dalla comparsa di tre donne (in realtà, di tre madri e, al di sotto di esse, della nostra unica madre). La prima è la donna che ci mise al mondo. La seconda è la donna (che incontriamo o diveniamo) che ci dona i nostri figli. La terza è la terra madre che accoglie le nostre spoglie. L’incontro finale è con quest’ultima, da cui non possono più separarci spazio, tempo o altre persone. È un incontro che coincide con un addio, perché subito non ci saremo più noi per poterlo rendere soggettivamente duraturo. Non è casuale che vesta sempre di bianco e sia sempre avvolta da un alone di luminosità la figura di Joan, personificazione di una gioia di vivere fondata sugli stimoli sensoriali e sul presente; è la seconda donna che incontriamo nella nostra vita. Il rapporto con lei non può durare. Viceversa veste sempre di nero Anna, la donna costantemente pervasa da un sentimento di tristezza, di lutto, e sospesa fra le inquietudini del passato e le tenebre del futuro. L’incontro con lei, ed il simultaneo addio da lei, rappresentano il compimento e, nello stesso tempo, la fine del rapporto fra uomo e donna. Rappresentano anche il compimento della nostra esistenza e l’estremo addio alla vita.

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