Come curare il male “immaginario”?
Esistono realtà umane paradossali, potremmo dire “per definizione indefinibili”.
Ad esempio, le cenestopatie (o sintomi “immaginari”) rappresentano spesso un rompicapo insolubile per medici e analisti: il più delle volte non si riesce a spiegarle in termini biologici, e neppure psicodinamici.
Quasi di regola, il paziente, anche quello che possiede abitualmente proprietà di linguaggio, quando deve descrivere il suo sintomo lo fa in termini imprecisi, vaghi, astratti: termini che risultano incomprensibili a chi ascolta e che lasciano insoddisfatto il paziente stesso.
Bion spiegò alcuni sintomi di questo genere come risultato di un attacco, più o meno esteso, del paziente alla sua capacità di pensare; egli scinde dal resto della propria psiche una parte delle facoltà mentali, e le proietta su di un oggetto esterno che per lui diventa, così, semi-animato (un “oggetto bizzarro”): ne può risultare il delirio di un televisore che “lo osserva”, oppure quello di una parte del suo corpo che “gli vuol male” e si ribella alle cure. Tuttavia, ciò che descrive Bion è quanto può capire un osservatore esterno, capace di pensare, e non ciò che il paziente sta vivendo.
L’esperienza vissuta di un “oggetto bizzarro” ce la offre Kafka ne “Il cruccio del padre di famiglia”. Qui si parla dello “Odradék”, un oggetto misterioso che diviene sempre più misterioso man mano che la sua descrizione procede: si riesce sempre meno a capire se si sta parlando di un oggetto animato o inanimato, immaginario o reale, di un fatto mentale o di una realtà concreta. Il sintomo fondato su di un “oggetto bizzarro” sconvolge il paziente, monopolizza sempre più l’attenzione di lui e, quel che è più grave, quella dei curanti.
A giudizio di chi scrive, si tratta di uno sbaglio da cui si rischia di non uscirne più.
L’oggetto bizzarro (coi sintomi con cui si manifesta) è frutto di un parziale fallimento evolutivo, di antichi rapporti andati molto male; si tratta di parti della mente ormai irrecuperabili (mai commettere l’errore di dire che il sintomo “non è niente”!).
Conviene, piuttosto, indirizzare l’attenzione del paziente a parti di lui più evolute, ed i cui problemi si possono più facilmente risolvere, in particolare le sue relazioni interpersonali.
Si possono, così, consolidare compensi (“strutture compensative” che Kohut distingue da quelle difensive) che permettono al paziente di riprendere una vita abbastanza sana.
Esistono realtà umane paradossali, potremmo dire “per definizione indefinibili”.
Ad esempio, le cenestopatie (o sintomi “immaginari”) rappresentano spesso un rompicapo insolubile per medici e analisti: il più delle volte non si riesce a spiegarle in termini biologici, e neppure psicodinamici.
Quasi di regola, il paziente, anche quello che possiede abitualmente proprietà di linguaggio, quando deve descrivere il suo sintomo lo fa in termini imprecisi, vaghi, astratti: termini che risultano incomprensibili a chi ascolta e che lasciano insoddisfatto il paziente stesso.
Bion spiegò alcuni sintomi di questo genere come risultato di un attacco, più o meno esteso, del paziente alla sua capacità di pensare; egli scinde dal resto della propria psiche una parte delle facoltà mentali, e le proietta su di un oggetto esterno che per lui diventa, così, semi-animato (un “oggetto bizzarro”): ne può risultare il delirio di un televisore che “lo osserva”, oppure quello di una parte del suo corpo che “gli vuol male” e si ribella alle cure. Tuttavia, ciò che descrive Bion è quanto può capire un osservatore esterno, capace di pensare, e non ciò che il paziente sta vivendo.
L’esperienza vissuta di un “oggetto bizzarro” ce la offre Kafka ne “Il cruccio del padre di famiglia”. Qui si parla dello “Odradék”, un oggetto misterioso che diviene sempre più misterioso man mano che la sua descrizione procede: si riesce sempre meno a capire se si sta parlando di un oggetto animato o inanimato, immaginario o reale, di un fatto mentale o di una realtà concreta. Il sintomo fondato su di un “oggetto bizzarro” sconvolge il paziente, monopolizza sempre più l’attenzione di lui e, quel che è più grave, quella dei curanti.
A giudizio di chi scrive, si tratta di uno sbaglio da cui si rischia di non uscirne più.
L’oggetto bizzarro (coi sintomi con cui si manifesta) è frutto di un parziale fallimento evolutivo, di antichi rapporti andati molto male; si tratta di parti della mente ormai irrecuperabili (mai commettere l’errore di dire che il sintomo “non è niente”!).
Conviene, piuttosto, indirizzare l’attenzione del paziente a parti di lui più evolute, ed i cui problemi si possono più facilmente risolvere, in particolare le sue relazioni interpersonali.
Si possono, così, consolidare compensi (“strutture compensative” che Kohut distingue da quelle difensive) che permettono al paziente di riprendere una vita abbastanza sana.
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