Il futuro che ci aspetta non è per nulla chiaro, perché la realtà che si profila dopo la pandemia resta quella di prima.
Chi si accontenta della consolazione di pensare che torneremo al mondo “felice” di prima o, se ispirato da ideali alti, è convinto che andremo incontro a un “nuovo mondo” (non si sa in cosa consisterebbe).
Ci sono anche coloro che speculano su qualsiasi disavventura della collettività. Per loro il mondo è sempre pieno di opportunità, qualsiasi cosa accada.
Molti si guarderebbero bene dal riconoscersi apertamente in queste “categorie dello spirito”, ma esse esistono e si diffondono tra di noi. Sono convincenti (a breve/medio termine) proprio perché non sono realistiche: nel loro campo la realtà è solo quello che è accettabile o supposto conveniente vedere. Il realismo, inteso come rapporto rispettoso, costruttivo, non strumentale, con la realtà, è molto più difficile da raggiungere rispetto all’opportunismo e alla costruzione immaginaria di un mondo senza conflitti e problemi. Essere realisti (cosa molto diversa dall’essere dei fatalisti convinti che i fini giustificano i mezzi) richiede la conservazione della memoria, strumento indispensabile per il dialogo con l’inatteso attraverso il quale la realtà si manifesta come scoperta nella sua forma più autentica e significativa.
Tra la lezione del passato (la sua impronta vivente nella nostra materia psicocorporea) e il fare che trasforma e ci trasforma (insieme mezzo e fine) si pone come mediazione necessaria l’elaborazione del lutto. La capacità di elaborare il lutto -l’unica forma di apprendimento vero dal passato- è il fondamento del realismo. Ci consente di prendere atto di un’impossibilità raggiunta mediante una possibilità nuova da costruire.
Scontiamo il fatto di non essere realisti. Abbiamo smarrito la strada del lutto. Il presente come realtà permanente (la fine della storia) invade la nostra memoria, costruendo falsi ricordi, e cancella i nostri sogni (in cui la persistenza del desiderio afferra l’avvenire), sostituendoli con le fantasie ad occhi aperti. La pandemia avrebbe dovuto svegliarci e farci vedere che viviamo in un modo sbagliato e sempre più insostenibile.
Farci capire da una parte che avevamo già perduto garanzie di convivenza irrinunciabili (che non ritroveremo mai nella forma di prima) e dall’altra che molte delle facilitazioni del vivere in cui abbiamo investito con tanta fiducia si sono dimostrate “armi a doppio taglio”.
Invece, la pandemia è stata prevalentemente vissuta come cosa a sé. Come calamità naturale esterna e non come manifestazione del disfunzionamento, assai banale, di una società che vive da tempo pericolosamente.
Continuiamo a combattere i sintomi, inseguendo la loro manifestazione e separandoli, al posto di affrontare la malattia. Se non cambiamo prospettiva di vita, resteremo incastrati nel problema delle pandemie (quella di oggi e quelle che incombono), rassegnandoci all’idea insidiosa di poter convivere passabilmente con le catastrofi del futuro e di conservarci indenni psichicamente.
Apprendere dall’esperienza avuta nel passato (la memoria che ci aiuta a distinguere il giusto dall’ingiusto) e comprendere il limite che un futuro decente pone al nostro agire nel presente, implica oggi, come mai prima, la volontà dolorosa ma riparatrice di riconoscere alcuni processi patologici, tra loro correlati, che ci affliggono. La concentrazione totalitaria dei beni del mondo nelle mani di pochissimi e la loro dissociazione dalla reale soddisfazione del desiderio.
Il dominio del gioco d’azzardo probabilisticamente manipolato sulla politica. La trasformazione dell’arte in spettacolo. Il distacco della scienza dalla poesia e la sua progressiva infiltrazione dal pensiero anaffettivo, algoritmico con conseguente marginalizzazione del pensiero critico.
Questi processi convergono nella repressione feroce del femminile. Un suicidio.
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