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Il lato oscuro del manicomio e la linea d’ombra della psichiatria di comunità

16 Gen 16

A cura di Gerardo Favaretto

Cose dette e stradette , ma ripeterle non fa male. Come le storie che si narrano e non finiscono ma che da qualche parte si sostengono a un senso che è poi quello che ci aiuta a capire cosa fare. E da fare ne abbiamo molto.
Se c'era una sfida da vincere negli anni settanta era di dimostrare che ci si poteva occupare della salute mentale delle persone facendole, in primo luogo, uscire dal manicomio. Bisognava rendere evidente che l'epoca della custodia era finita. Anzi che la stessa assenza di custodia era il migliore dei presupposti a una buona cura e che , in ogni caso , la custodia apparteneva a lontani e oscuri periodi della psichiatria, schiava del mandato sociale alla emarginazione.
Negli anni ottanta e novanta la sfida è stata quella di dimostrare alle persone che soffrono, alle loro famiglie ma anche a tutta la comunità che, senza il manicomio, le persone non solo erano curate meglio ma potevano essere di nuovo parte attiva di una comunità.
Le buone cure dovevano dimostrare che , quando ben curate, le persone avrebbero superato i legami della malattia e sarebbero state guarite e di nuovo protagoniste del loro destino. Forse non tutte le persone , ma molte, si pensava, una volta curate e riabilitate nei modi e luoghi adatti non ne avrebbero più' avuto la necessità si avere a che fare con la psichiatria.
L'alba degli anni 2000 ha visto la chiusura fisica dei manicomi tramite la applicazione, a molti dei padiglioni rimasti aperti e abitati, di cartelli che indicavano che il posto si chiama da quel momento RSA psichiatrica.
L'epoca dei manicomi è davvero finita si dice. Ma nessuno lo pensa davvero.
Poi le sfide si sono evolute ancora. Le neuroscienze , l' affinarsi di sofisticati strumenti farmacologici per la cura , sofisticati almeno quanto il loro marketing, la definizione di importanti sistemi diagnostici e dei ragionamenti sulla natura del disturbo mentale che inevitabilmente questi hanno comportato , hanno portato ad affermazioni di nuova speranza su un futuro in cui sia oramai vicina la possibilità di possedere la chiave di volta per curare la malattia mentale . Anche se la psichiatria non è ancora così scientifica come lo sono altre discipline mediche lo diventerà , dicono alcuni. Abbiamo fiducia e pazienza ma succederà, si annuncia dal palco di importanti riviste internazionali , mentre la ricerca continua ad accumulare conoscenze, talvolta poi smentite a distanza di qualche anno.
Sull'altro versante la comunità si interrogata sul proprio ruolo anche rispetto a tante fragilità e marginalità. Dal 2000 in poi fioriscono, in tutti i contesti, i piani per la salute mentale. Si declinano in modo raffinato i progetti e gli obbiettivi . Ci si convince che le politiche sulla salute mentale , quando corrette saranno alla base di modelli davvero efficaci ed efficienti per la cura delle persone; si stimolano i soggetti interessati a partecipare, a essere protagonisti . L'obbiettivo è la recovery termine che nel nostro paese non vien tradotto per lasciare quel senso di indicibilità che si crede renda potenti e “più veri “ tanti concetti.
Si dice ancora, e giustamente , integriamo , mettiamo insieme le nostre conoscenze . Occupiamoci in modo scientifico del sociale. Combattiamo lo stigma. Superiamo i pregiudizi che stanno alla base della marginalizzazione di chi ha una malattia mentale e di tutto ciò che ad essa è collegato. La malattia mentale è come un altra malattia si legge sui manifesti che combattono i pregiudizi.
La risposta però dei governi nazionali e locali non si fa attendere e purtroppo , è drammaticamente deludente sul piano delle risorse e della lucidità. Al punto , talvolta di non fare le stesse cose che sono state decise nei piani assunti a normativa . Che in ogni occasione si ribadisce la alterità della follia.
Si raggiunge il massimo quando si usano principi eticamente inattaccabili per realizzare poi operazioni con modalità, a dir poco, eticamente poco rispettose dei destini delle persone . Mi riferisco alla questione della chiusura degli OPG .
Ha ragione chi dice che la psichiatria è ancora e sempre collegata al binomio della custodia e della cura. Anche se gli operatori della salute mentale non lo pensano , invece tutta la comunità , i governi , le istituzioni , gli stessi operatori dell'ambito sanitario continuano ad esserne profondamente convinti. Omaggiano, quando va bene , la psichiatria di preziose ed esoteriche conoscenze solo per dire che preferiscono non averci nulla a che fare. Poi , in sostanza non ne condividono nessuna delle conclusioni e delle proposte
Le sfide appassionate di questi anni hanno fatto storia e sicuramente andranno rilette con attenzione per capirne movimenti idee , aspirazioni. Queste sfide peraltro non hanno riguardato solo il nostro paese , non hanno visto confini ma si sono propagate in modo diverso , a seconda delle geografie e dei luoghi id resistenza in tutta Europa e “ in altri siti” . Ora pensare che perché vi sono state delle sfide queste siano vinte , davvero è peccare perlomeno di ingenuità. Pensare che siano state inutili e che siano andate perse, sull'altro versante significa nascondersi dietro una lettura nichilista e pessimistica del mondo. Le cose, si sa, come sempre sono più' complesse di quel che non appaia. E per fortuna la complessità stimola il pensiero critico e l'uso dell'intelligenza. Si potrebbe cominciare proprio da qui . Dal riconoscere il lato oscuro e sopravvivente del manicomio sempre presente in molte delle articolazioni dei servizi e delle culture operative della salute mentale , dalla complessità del rapporto fra cura e custodia che non possono essere semplicemente dissociati con un atto unilaterale da parte di chi lavora nella salute mentale e , infine dal fatto che il modello della psichiatria di comunità nelle sue linee d'ombra ha nascosto la data di scadenza . Probabilmente non l'abbiamo vista ma potrebbe essere già passata. E noi, oggi , dobbiamo ricominciare a dire che cosa è importante.
Che la forza sia con noi.

 

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3 Commenti

  1. chiclana

    Come c’era da aspettarsi
    Come c’era da aspettarsi leggendo che Gerardo Favaretto ha deciso di ritornare su Pol. it e aprirvi una rubrica, il suo “romanzo della psichiatria” si annuncia ricco e avvincente, e sono contento perché credo che così avremo anche l’opportunità di proseguire, in qualche caso, in forma pubblica un dialogo privato tante volte iniziato, interrotto, ripreso sui sentieri del Camino e non solo. La questione che Gerardo qui pone – affrontandola con la profondità che credo sarebbe sempre necessaria e ripercorrendone da par suo le improvvise epifanie e la periodiche eclissi nella storia recente della psichiatria di comunità – costituisce credo uno degli enigmi (forse l’enigma) imprescindibili della nostra identità, che mi piacerebbe provare a sintetizzarla in questi termini: cura e custodia in psichiatria come attività diverse, separabili, e allora quale rapporto tra loro, quali attori, e luoghi. O non piuttosto: cura è custodia in psichiatria (anche custodia, certo) come due facce di un’unica pratica umana, il fare psichiatrico, la relazione d’aiuto in psichiatria. Un doppio modo di porre la questione forse destinato a rimanere aperto, a non trovare mai composizione. La complessità non consente semplificazioni, né risposte affrettate; può essere difficile da affrontare come certi tratti più impervi del sentiero: può essere necessario ragionare, e ritornare a ragionarci ancora e ancora. Ogni sforzo in più arricchisce in consapevolezza e conoscenza, non è detto che avvicini alla soluzione E allora, Gerardo, boh che dirti… non stanchiamoci mai e: ultreia! Paolo

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    • gerfavaretto

      grazie Paolo per il tuo
      grazie Paolo per il tuo commento e soprattuto per il tuo contributo , anche sul pol it , a un pensiero critico sulla psichiatria. Sono d’accordo con te che il binomio cura – custodia è uno degli aspetti più interpretati in modo riduzionista di tutta la psichiatria. Come tu dici c’è una “buona ” cura che comporta anche il custodire nel senso umanamente più delicato l’altro nella sua integrità e nella sua sicurezza mentre al contario c’è chi interpreta il conceto di custodia come attività di attiva e costante marginalizzazione. ovvero un ” tenere fuori” il diverso proprio perchè tale. Ecco a questa seconda concezione riduzionistica e inacettabile è necessario ocntrapporre la prima visione eticamente inspirata alla piena inclusione dell’altro nel mondo . Ultreia !

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  2. gerfavaretto

    qualcuno , leggendo questo
    qualcuno , leggendo questo intervento mi ha fatto la solita osservazione … ma le proposte ? Credo che qui si trattano i presupposti. Il riferimento al pensiero critico non è casuale . Un pensiero che si interroga sui suoi presupposti riesce poi anche essere operativo senza essere riduttivo. Dobbiamo , certamente cominciare da quello che si fa. Questo è il motivo che sta alla base del bisogno di ascoltare i racconti . Più storie significa più idee..

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