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Bill Callahan
Clinica di Amleto
Nel corso del suo Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1959-1959), Jacques Lacan dedica sette lezioni all'Amleto di Shakespeare1. Per certi versi si tratta di uno dei vertici del suo insegnamento. In effetti in queste sette lezioni ci sono in gioco molte questioni decisive. Provo qui a estrarne due, delle quali mi limiterò a uno sviluppo sintetico e parziale. Si tratta della faccenda del fallo, cioè del desiderio, e di quella della morte, cioè del lutto. Sullo sfondo una raccomandazione, che è poi quella di Lacan stesso: «Forse alcuni di voi – penso però che non siano in molti – ritengono che siamo lontani dalla clinica. Non è affatto così, ci siamo in pieno» (SVI, p. 297).
Essere e non essere il fallo
Per leggere Lacan, i suoi Seminari, o anche solo sezioni dei suoi Seminari, è fondamentale articolare, anche in minima parte, quello che si sta leggendo con quello che lo ha preceduto e con quello che ne segue. La lezione che precede la prima sull'Amleto, si conclude con questa sentenza: «Ora, come vedrete, il fattore più nevrotizzante non è la paura di perdere il fallo o la paura della castrazione. La leva assolutamente fondamentale della nevrosi è il non volere che l'Altro sia castrato» (SVI, p. 253). Vedremo poi l'importanza di un passaggio successivo alle lezioni sull'Amleto per intendere una delle questioni che queste sette lezioni lasciano in sospeso.
Rimaniamo per ora sul passaggio relativo alla castrazione dell'Altro e notiamo subito che la prima lezione sull'Amleto riparte proprio da qui, dalla questione del fallo: «come da sempre insegna la dottrina, il soggetto vuole sostenere il fallo della madre. Il soggetto rifiuta la castrazione dell'Altro» (SVI, p. 257).
Senza girarci troppo attorno si può senz'altro dire che per Lacan la tragedia dell'Amleto parte e termina su questo problema: «essere e non essere il fallo» (SVI, p. 258).
Fallo è un termine facilmente equivocabile, per varie ragioni, non da ultimo perché evoca immediatamente tutta una serie di significazioni ormai sedimentate nel corso degli anni. Non di meno rimane un temine decisivo per intendere il problema del desiderio e dunque per intendere l'Amleto che da capo a piedi è «la tragedia del desiderio» (SVI, p. 275). Detto altrimenti bisogna tenere presente, oggi più che mai, che della questione del desiderio in psicoanalisi non si può dire niente se non si intende qualcosa del problema del fallo.
Abbiamo dunque un punto di partenza e un filo che attraversa tutta l'opera, il problema del rapporto del soggetto con la castrazione dell'Altro, dunque al problema che ne consegue direttamente, quello dell'essere il fallo. Il punto ora è tentare di spiegare ciò e tentare di farlo chiedendoci perché l'Amleto è così importante per questo problema.
Una morte senza speranza
Prima di tentare delle risposte e di sviluppare dunque quello che Lacan definisce il punto di partenza dell'opera di Shakespeare occorre tener presente che in queste sette lezioni Lacan afferma la presenza di un altro punto di partenza che attraversa tutta l'opera – a dire il vero Lacan compie continui spostamenti su quello che sarebbe il vero punto di partenza del dramma dell'Amleto –, ossia il problema del lutto, di un particolare incontro con la morte: «il dramma dell'Amleto è l'incontro con la morte. […] Amleto va incontro alla morte – è da qui che dobbiamo partire per capire» (SVI, p. 322).
Si sarà notato nella citazione lo slittamento da l'Amleto testo a l'Amleto personaggio. Non è qui possibile sviluppare la cosa, mi limito a dire che l'analisi di Lacan è relativa al testo, dunque anche relativa al suo personaggio principale, che però Lacan non considera un personaggio quanto bensì «un modo del discorso» (SVI, p. 301).
Riprendiamo il punto del “particolare incontro con la morte”. Sappiamo bene che per Amleto si tratta di fare i conti con la morte del proprio padre. Il modo in cui è avvenuta questa morte, cioè il fatto che il padre sia stato assassinato, e il modo in cui è stata accolta, cioè il fatto che la madre si sia subito risposata, rendono certo questa morte particolare. Lacan non manca di ricordarlo, si tratta in effetti di due punti decisivi – ai quali va aggiunta la carenza dei riti funebri: «Nell'Amleto non possiamo non restare colpiti dal fatto che, relativamente a tutti i lutti più importanti di cui è questione, i riti sono stati abbreviati o sono clandestini» (SVI, p. 376). Vorrei però porre l'accento su altri due aspetti, a questi connessi, ma probabilmente più significativi, e più significativi in quanto permettono di intendere il punto essenziale. La particolarità dell'incontro con la morte che caratterizza l'Amleto è quella di essere un incontro senza rimedio e senza speranza.
Le due ragioni del “senza rimedio” e “senza speranza” sono le seguenti: il padre nell'Amleto sa di essere morto e sa di essere morto «nel fior fiore dei suoi peccati» (SVI, p. 271).
Se il padre fosse morto ma non lo sapesse – questa è la morte del padre nella tragedia di Edipo – Amleto avrebbe potuto fare come se fosse vivo, farlo vivere anche se morto, avrebbe potuto fare come se il padre fosse vivo. Con Lacan possiamo dire che la morte di una persona cara, di una persona amata e anche quella di un padre in carne e ossa, – in sostanza ogni lutto – è sempre in fondo la morte del Padre, da intendersi come la morte della funzione paterna, ossia la perdita della possibilità della risposta alla morte – il Padre, in quanto funzione, è ciò, la possibilità di una risposta alla morte. In quest'ottica se il Padre – che sempre muore quanto c'è un lutto – non sa di essere morto si può fare come se ci fosse, e dunque fare come se ci fosse una risposta alla morte.
Ma come può il Padre, se è una funzione, sapere o non sapere di essere morto? Bisogna intendere la cosa in questo modo: “il Padre sa di essere morto”, cioè la sua funzione contiene al suo interno la sentenza della sua inefficacia; “il Padre non sa di esser morto”, cioè la sua funzione non contiene al suo interno la sentenza della sua inefficacia ma “solo” la possibilità della sua inefficacia.
Dunque se il Padre è morto ma non lo sa il soggetto può sempre credere al Padre, credere alla sua funzione e fare credere che esista, può sempre fare come se esistesse e fare in modo che esista – dunque come se esistesse una possibilità di rispondere alla morte e fare in modo che esista la possibilità di rispondere alla morte. Se il Padre sa di essere morto tutto ciò non è possibile. Questa è la condizione in cui si trova Amleto. Amleto non può fare esistere il Padre, non può, di fronte alla morte del Padre, fare come se ci fosse una possibilità di rispondere alla morte.
Ma c'è qualcosa di più radicale nell'Amleto. Come detto, il padre di Amleto non solo sa di essere morto ma anche di essere morto nel fior fiore dei suoi peccati. Tale sapere del padre rimane enigmatico, avvolto da una certa ambiguità – come mai il padre dice ciò ad Amleto? C'è qualcosa di losco in questo sapere del padre, in questo messaggio che il padre lascia ad Amleto. Questa parte del messaggio sentenzia che per la sua morte non c'è redenzione, non verrà fatta alcuna giustizia, che i suoi conti non potranno essere regolati: «Amleto ci ha appena detto che suo padre, a causa del momento in cui è morto, resta per sempre fissato nel fior fiore dei suoi peccati. Il tratto tirato in fondo ai conti della sua vita fa sì che egli resti identico alla somma dei suoi delitti. È anche ciò dinnanzi a cui Amleto si è fermato con il suo To be or not to be. Il suicidio non è così semplice. Non stiamo qui affatto fantasticando con lui su quello che avviene nell'aldilà. Si tratta semplicemente di questo: mettere il punto finale non toglie che l'essere resti identico a quanto ha articolato con il discorso della sua vita. Qui non c'è To be or not to be – comunque sia, il To be resta eterno» (SVI, p. 292).
Il padre sentenzia che la morte di cui si tratta è senza rimedio, dunque che non c'è il Padre come possibile risposta alla morte, o meglio come possibilità di risposta alla morte: «La verità di Amleto è una verità senza speranza. In tutto l'Amleto non c'è traccia di un'elevazione verso qualcosa che si trovi al di là, riscatto o redenzione» (SVI, p. 328).
La sentenza dell'Altro
Siamo così arrivati a uno degli snodi decisivi della nostra riflessione che intreccia il problema del lutto con quello del fallo. Amleto non incontra la morte come una domanda, un problema, una questione, – cosa che accade in Edipo – ma come una risposta, una sentenza: «Amleto ha la risposta. Ha la risposta, e non può esserci che una risposta» (SVI, p. 327).
Questa sentenza nell'algebra lacaniana ha un simbolo SȺ – che si legge S di A barrato. Dunque possiamo dire che Amleto incontra propriamente SȺ – avremmo potuto dire anche che nell'Amleto c'è questo incontro. La morte senza rimedio e senza speranza del Padre è l'incontro con SȺ e obbliga il soggetto coinvolto in questo incontro a fare i conti con SȺ. In quest'ottica possiamo dire che ogni lutto è perdita, una perdita reale, concreta che fa risuonare la perdita strutturale nella quale il soggetto è sempre coinvolto. Il lutto si configura così per Lacan come un «buco nel reale» (SVI, p. 371) che ritorna nel simbolico, un buco nel reale che «offre il posto in cui si proietta precisamente il significante mancante [cioè SȺ]» (SVI, 371). Detto altrimenti: «Il lutto viene a coincidere con una falla beante essenziale, con la principale apertura beante simbolica, la mancanza simbolica» (SVI, p. 376)
Che cosa ci permette di intendere questo simbolo, SȺ, attraverso Amleto? Lacan è convinto di una cosa: «L'Amleto ci dà la possibilità – e sta qui il valore della pièce – di accedere al senso di SȺ» (SVI, p. 328). Al contempo è convinto della portata strutturale dell'Amleto, ossia che indichi qualcosa che concerne sempre il soggetto: «Se l'Amleto ha per noi una portata di primo piano, è perché il suo valore di struttura è equivalente a quello dell'Edipo» (SVI, p. 301).
La sentenza strutturale sancisce che il qualcosa che l'essere umano perde per accedere al simbolico e sorgere come soggetto del desiderio non può, in alcun modo, essere ritrovato all'interno del simbolico nel quale si è dispiegati – né tanto meno fuori di esso. Detto altrimenti, la sentenza sancisce che nessun significante può restituire al soggetto la parte di vita che gli è stata sottratta per accedere al significante.
Ancora diversamente possiamo dire che SȺ indica che l'Altro – il sistema simbolico – nel quale sorge il soggetto determina una perdita di vita nel soggetto e allo stesso tempo questo stesso Altro sancisce e afferma che non c'è alcuna possibilità di trovare quanto perduto. Fondamentale intendere bene il dettaglio indicato dal “l'Altro sancisce e afferma”. Nel sistema simbolico, nell'Altro, non solo manca un simbolo che restituisca in qualche modo quanto perduto, ma nell'Altro c'è l'affermazione di questa mancanza, la presentificazione di questa mancanza: «Il significante nascosto, quello di cui l'Altro non dispone, è precisamente quello che vi concerne» (SVI, p. 330).
Fare il lutto
In quest'ottica fare il lutto significa rispondere alla sentenza dell'Altro. Amleto è la tragedia dell'incontro con questa sentenza, SȺ, e del fallimento della risposta del soggetto a SȺ. Amleto incontra la morte senza speranza, cioè la sentenza SȺ e la sua risposta non riesce a implicare ciò al suo interno ma si caratterizza come un ripiegamento, un indietreggiamento, e dunque un rifiuto di questo stesso incontro e di questa sentenza.
Diverse cose rendono particolarmente difficile la risposta di Amleto. Veniamo così alla ragione – tra le varie – che rende difficile per Amleto fare il lutto, rispondere al “senza speranza” di SȺ, assumere questa posizione. Quel che rende tutto ciò impossibile per Amleto è il suo rapporto con il fallo. Torniamo così al problema del fallo: «Nel messaggio del padre che apre il dramma vediamo l'Altro rivelarsi nella forma più significante come una A barrata. Il padre non è soltanto cancellato dalla faccia della terra ma anche escluso dalla giusta ricompensa. Egli è entrato nel regno degli inferi con il crimine, ovvero ha un debito che non ha potuto pagare, un debito inespiabile, come dice lui stesso, e sta qui il senso più terribile, più angosciante per il figlio, della sua rivelazione. […] Come potete vedere, la nostra indagine, man mano che procede, ci conduce a ciò che si tratta nella ricompensa, nella punizione, nella castrazione, e si dirige verso il rapporto con il significante fallo» (SVI, p. 380).
Il lutto (impossibile) per il fallo
Il lutto con cui si trova alle prese Amleto – il particolare incontro con la morte di cui abbiamo parlato sino ad ora e che trova nel matema SȺ la propria sintesi – entra in effetti in risonanza con un altro grande lutto che secondo Lacan caratterizza quell'essere vivente che chiamiamo umano in quanto essere preso nel significante, nel simbolico. Questo lutto è il lutto del fallo. Questo lutto fa difetto nel dramma dell'Amleto, è un lutto mancato – il che vuol dire che questo lutto fa strutturalmente difetto nel soggetto. Questo lutto è «il lutto per il fallo» (SVI, p. 383).
Per fare un piccolo passo avanti mi sembra ora necessaria una semplificazione estrema. Per prima cosa occorre precisare come per Lacan qui il fallo vada inteso in termini di significante, cioè a livello simbolico. A questo livello, che è il livello decisivo, il fallo è il simbolo di quella parte della vita che si è perduta nell'accedere alla dimensione simbolica, dunque «quel qualcosa di sacrificato dell'organismo, della vita, della spinta vitale, che si trova simbolizzato» (SVI, p. 330). Ma il simbolo dello slancio vitale perduto a causa del simbolo – cioè dell'ingresso nel simbolico – non sarà un simbolo qualsiasi, uno tra i tanti, ma un simbolo capace di indicare questa perdita. Ma quale simbolo può indicare la perdita se non un simbolo che manca, o meglio un simbolo che c'è come mancante, che manca al suo posto? Qui occorrerebbe entrare nei tecnicismi. Mi limito a dire che il fallo in quanto significante, il fallo a livello simbolico, è l'indice di una perdita, e non di una perdita qualsiasi, ma di quella perdita particolare che concerne direttamente ed esclusivamente il soggetto. Questo indice però non consiste tanto nell'assenza di un significante, quanto nella presetificazione ripetuta e improvvisa, nel sistema significante – nel sistema simbolico in cui il soggetto è dispiegato – di una crepa, di una faglia, di una mancanza, di un difetto, e dunque anche di un eccesso, di un troppo, di un di più – ecco che la vita perduta a causa dell'azione del simbolico ritorna nel simbolico come sua perdita e suo di troppo.
Abbiamo dunque due significanti intimamente connessi, il significante SȺ e il significante fallo. Il primo indica al soggetto che non c'è rimedio, che quel che si è perduto non può essere ritrovato. Il secondo presentifica al soggetto la perdita, dunque l'eccesso, che patisce per stare nel simbolico.
Questa coppia significante sentenzia che non c'è rimedio alla perdita e che si è presi in una vita mutilata e strabordante. Questa coppia significante sentenzia che l'Altro è castrato, ossia che l'Altro non può restituire al soggetto quello che perde per essere nell'Altro – SȺ – e che l'Altro non può che presentificare al soggetto la sua stessa perdita e la sua stessa eccedenza.
Questa doppia sentenza obbliga il soggetto, che di questa condizione è effetto, a un doppio lutto. Il primo come detto è quello di rispondere alla sentenza del “senza speranza”, il secondo è relativo al fallo, ed è quello che abbiamo chiamato lutto del fallo. Perché lutto del fallo se abbiamo detto che il fallo è il simbolo – mutilato ed eccedente – della vita mutilata ed eccedente? Questa domanda meriterebbe una risposta molto articolata, anche perché convoca un paradosso decisivo per ogni strutturazione del desiderio. In modo molto semplificato penso si possa rispondere così. Il lutto di cui si tratta è il lutto del desiderio di essere il fallo e della relativa identificazione a essere il fallo che strutturalmente caratterizza il soggetto come sua risposta al significante fallo, cioè alla castrazione dell'Altro. Se il fallo in quanto significante mancante – che, ripeto, non vuol dire che manca ma che è in sé mancante e dunque presentificante la mancanza – presentifica la mancanza, il soggetto trova nel desiderio di essere questo fallo, nell'identificazione ad essere questo fallo, dunque nel prestare se stesso e la propria vita a tale scopo, il modo – l'unico possibile – per rendere non mancante questo significante e dunque rendere non mancante l'Altro, non castrato l'Altro. Questa, per dirla in modo un po' più semplice, è la follia strutturale del soggetto: essere la mancanza per colmare la mancanza, essere ciò che manca per scongiurare che ci sia ciò che manca, essere mancante per evitare che ci sia il mancante.
Dunque il soggetto – in particolare nella sua declinazione nevrotica – risponde alla castrazione dell'Altro – al fallo significante come presentificazione di questa castrazione – identificandosi al fallo, dunque collocandosi come rimedio alla castrazione dell'Altro e dunque alla propria.
In che cosa consista “concretamente” il lutto del fallo è questione complessa. Per il nostro ragionamento possiamo dire che fare il lutto del fallo consiste per il soggetto nella disidentificazione a essere il fallo, cioè nel constatare di non essere quel che rimedia alla castrazione dell'Altro ma di essere semplicemente un effetto superfluo di questa. Ma questo lutto del fallo è per Lacan strutturalmente impossibile da fare, in quanto il soggetto è fatto, è forgiato da e su questa identificazione. In quest'ottica la pratica analitica è per certi versi un tentativo di torcere il collo a questa impossibilità.
Il ripiegamento di Amleto
Amleto ci insegna il legame tra questi due lutti, come entrambi siano marcati da un'impossibilità, e come in ogni lutto ci sia in gioco la morte del Padre e l'identificazione al fallo. Ogni lutto, che come detto chiama in causa SȺ, cioè la morte del Padre, entra in risonanza con il rapporto che il soggetto che ha subito il lutto ha con il fallo. Il rapporto con il fallo, se e come si è fatto il lutto dell'essere il fallo, cioè se e come si è rinunciato a questa follia d'essere, è dunque decisivo in ogni lutto ed è il problema che ogni lutto fa risuonare.
Amleto è paradigmatico di ciò e per questo è così importante. Di fronte alla morte del padre, a quella particolare morte di cui abbiamo parlato – e che abbiamo scritto SȺ – Amleto ripiega nella posizione di fallo della madre – il che ci permette di dire che tale identificazione è ciò che gli rende impossibile fare questo lutto. Fare il lutto significa, come detto, rispondere alla sentenza della morte del Padre implicando nella risposta la sentenza, ma fare ciò, per accettare che l'Altro è castrato e dunque rispondere a ciò, è fondamentale aver fatto il lutto del fallo, cioè assunto di non essere ciò che rimedia alla castrazione dell'Altro.
Le impasse di Amleto di fronte a SȺ, il suo bighellonare, vivacchiare, il suo rifiutare Ofelia, il suo procastinare l'atto – indicano il suo ripiegamento di fronte all'incontro con SȺ, il rifiuto radicale e tormentato di SȺ, rifiuto che evidenzia proprio l'identificazione al fallo della madre e che dunque ci lascia intendere che il rifiuto è causato da questa identificazione – questo è il modo in cui la psicoanalisi fa intendere le cose, dalla declinazione degli effetti emerge la causa. L'identificazione al fallo indica che non è mai avvenuto il lutto del fallo, che non c'è stata esperienza del non essere il fallo della madre, separazione da questa posizione dell'essere.
L'ora della propria perdita
La questione dell'essere il fallo della madre è il problema attorno a cui Lacan fa ruotare tutta la sua lettura. Ci siamo tenuti alla larga da questo problema e continueremo a farlo – affrontarlo ci porterebbe molto lontano. Questa identificazione al fallo della madre, a colui che sostiene il desiderio della madre, il rapporto della madre con il fallo, determina le impasse in cui Amleto è preso, di cui l'impossibilità di compiere l'atto di uccidere colui che ha ucciso il padre è la più evidente e significativa. Non entro nel merito, ma due caratteristiche di questa identificazione mi sembrano particolarmente evidenti e significative nell'Amleto – che ripeto è paradigma strutturale di un certo rapporto con la morte e il fallo, dunque di un certo rapporto con il desiderio.
In effetti Lacan dà molto valore a due aspetti di questa identificazione al fallo di Amleto – al mancato lutto del fallo. La prima. L'identificazione al fallo impedisce in Amleto la costituzione dell'oggetto del desiderio, in quanto l'oggetto del desiderio «prende il posto di ciò di cui il soggetto è privo, vale a dire il fallo» (SVI, p. 344). Se l'oggetto del desiderio prende il posto della perdita del fallo è chiaro che solo il lutto del fallo permette l'istituzione dell'oggetto del desiderio, o meglio dell'«oggetto nel desiderio» (SVI, p. 361), e dunque la costituzione di un desiderio proprio. L'identificazione del fallo rifiutando il lutto del fallo rende di conseguenza impossibile l'istituzione dell'oggetto nel desiderio – che come detto si istituisce solo e soltanto come sostituto del fallo perduto, dunque se il fallo non è perduto, ma vi si è identificati, va da sé che non c'è istituzione dell'oggetto del desiderio.
Se non c'è istituzione dell'oggetto del desiderio non c'è, almeno per questo Lacan, la costituzione di un desiderio proprio del soggetto in risposta all'incontro con la castrazione dell'Altro, non c’è la costituzione di ciò che costringe il soggetto a rimanere al sevizio della castrazione dell'Altro. Questo è un punto decisivo per intendere la logica di ogni nevrosi e questo è anche il punto attraverso cui Lacan intende il rapporto problematico di Amleto con Ofelia.
La seconda. L'identificazione al fallo in Amleto lo costringe a farsi fuori: «per Amleto c'è unicamente la sua ora e c'è anche una sola ora: è l'ora della sua perdita» (SVI, p. 358). L'identificazione al fallo conduce sempre, da ultimo, al sacrificio di se stessi, al farsi fuori, cioè al fare della propria sparizione, della propria perdita, il tentativo estremo di essere il fallo, di rimediare alla castrazione dell'Altro. A questa sparizione del soggetto – sparizione di sé per essere il fallo – si contrappone la sparizione del soggetto disidentifciato dal fallo, cioè del soggetto che può mettere in gioco la propria perdita nel rapporto con l'oggetto del desiderio e ancor più del soggetto che può sparire nel desiderio ritrovandosi come nient'altro che il supporto di tale desiderio. Amleto non può mettere in gioco la propria perdita nel rapporto con l'oggetto del desiderio ma al contrario fa della propria perdita l'oggetto del desiderio. Amleto ancora meno può metter in gioco la propria perdita nel desiderio, farsi prendere dal desiderio sparendo come soggetto e ritrovandosi come semplice supporto di questo. Al contrario Amleto dimostra che per fare ciò, per farsi prendere dal proprio desiderio e costretto a farsi fuori concretamente – il che testimonia che non gli è possibile farsi prendere nel desiderio e che nonostante tutto “vince” il desiderio di essere il fallo. Lacan spiega molto bene come Amleto, in particolare attraverso il lutto di Laerte, riesca a uscire da alcune impasse e mettere in gioco qualcosa del lutto del fallo, ma ha bisogno della propria perdita concreta per staccarsi dalla posizione di fallo della madre e uccidere l'assassino del padre: «E' soltanto quando sarà ferito a morte, e sapendolo, che potrà compiere l'atto di colpire Claudio» (SVI, p. 391). Il fatto che debba arrivare a “ferirsi a morte” per staccarsi dalla posizione di fallo, da un lato indica l'impossibilità di tale operazione – ripeto l'analisi è per Lacan fare i conti con questa impossibilità – dall'altro indica il fallimento di tale separazione, ossia che si tratta di una pseudoseparazione, in quanto il modo in cui Amleto arriva a compiere l'atto – che testimonierebbe la separazione dalla posizione di fallo che era ciò che gli impediva di compierlo – sta più a indicare la realizzazione del sacrifico fallico (fallicizzazione del sacrificio) che del sacrificio dell'essere il fallo (lutto del fallo).
Concludiamo con la citazione, successiva alle lezioni sull'Amleto – annunciata all'inizio del nostro commento – che a mio avviso indica qualcosa di molto significativo su come intendere la sparizione del soggetto disidentificato dal fallo e non la sparizione fallica del soggetto: «All'apice del desiderio c'è afanisi del soggetto. […] L'essere del soggetto si rivela essere fessura, struttura di taglio» (SVI, p. 469). L'essere del soggetto è un taglio. Per questo per il soggetto è così difficile fare il lutto del fallo, il lutto del desiderio di essere qualcosa.
1 Jacques Lacan, Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione, Einaudi, Torino, 2016. Le citazioni di questo Seminario saranno indicate dalla sigla SVI tra parentesi con relativa numerazione di pagina.
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