La più importante prova d’amore verso i nostri “padri” (genitori, insegnanti, terapeuti), oltre che verso noi stessi, consiste nel tenere in vita quel patrimonio di valori, d’insegnamenti e di esperienze affettive che ci hanno lasciato in eredità. Questo è l’unico modo per far sì che essi continuino ad esistere anche quando non sono più tra noi. Ciò non significa esserne tirannizzati. Quest’ultima è la scelta del melanconico, che s’identifica con la persona perduta ed amata in modo ambivalente, la mantiene nel suo mondo interno, e trasforma la sua vita interiore in un continuo, irrisolvibile, tormentoso, reciproco “stalking” tra lui e chi oggettivamente non c’è più. In una più sana elaborazione del lutto, non viene trattenuta, nel mondo interno, l’intera persona scomparsa (persona che inevitabilmente possedeva anche difetti che ci avevano fatto soffrire), ma selettivamente quanto di più prezioso ci ha trasmesso ed ha arricchito la nostra vita interiore. Tenere in vita la persona scomparsa non significa continuare a subire nella fantasia il suo egoismo e le sue pretese, ma farla vivere nell’atto in cui ci offriva qualcosa che si è rivelato irrinunciabile. E questo qualcosa, per mantenere il suo carattere prezioso e vitale, non va accettato in modo acritico; l’insegnamento non deve divenire un dogma, una sorta di “verità” definita una volta per tutte, ma va continuamente confrontato con tutte le nuove esperienze: va chiarito, sviluppato, eventualmente corretto. Solo facendo tutto questo insieme a noi, nel nostro mondo interno, la persona scomparsa può continuare a vivere. Al contrario, trasformare la sua eredità in qualcosa di statico (non suscettibile di evoluzione) e di dogmatico, equivale ad “imbalsamare” le spoglie di chi non c’è più; equivale a farlo morire una seconda volta. Trovo che questi concetti siano mirabilmente sintetizzati nei versi di Dante in cui l’anima dell’antico maestro Brunetto Latini si congeda dal Poeta:
“Gente vien con la quale essere non deggio:
sieti raccomandato il mio Tesoro
nel qual io vivo ancora, e più non chieggio”
(Inferno, canto XV, vv 118 – 120)
Il “Tesoro” è il titolo dell’opera scritta dal Latini e lasciata ai posteri. La “gente” che l’ombra di Brunetto non deve (non può) incontrare, se intendiamo letteralmente la frase, è la schiera dei dannati che egli è obbligato ad evitare. Tuttavia, i versi che seguono (e l’intensa risonanza emotiva che queste parole suscitano) suggeriscono che si tratti anche dei sopravvissuti, appartenenti alle generazioni successive alla sua: egli non può più, ovviamente, incontrarli come persona fisica; ma non può neppure confrontarsi con loro come persona autonoma, conservata nella memoria del Poeta. Quest’ultimo, per mantenere in vita l’antico maestro, può farlo solo attraverso il “Tesoro” ricevuto in eredità. E può farlo solo se, nelle parole scritte dal maestro, egli ritrova quanto poco prima gli aveva espresso:
“la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna”
(ibidem, vv 83 – 85)
Non c’è tra il maestro Brunetto e l’allievo Dante, soltanto una trasmissione di nozioni. C’è un intenso e vivo rapporto affettivo. C’è la realtà vivente di Brunetto Latini nel momento in cui offriva a Dante quanto avrebbe contribuito a far crescere, in lui, il grande Poeta. Da notare che Dante incontra l’anima di Latini nel terzo girone del settimo cerchio, ossia tra i sodomiti, giudicati “violenti contro la natura e contro Dio”. Sul carattere “peccaminoso” di tale orientamento sessuale, il Poeta non ha alcun dubbio. Eppure tale caratteristica del maestro non scalfisce neppure in minima misura la stima e la devozione verso Brunetto che Dante esprime in modo così vivo. La sodomia del maestro non ha per nulla influenzato il modo di essere di Dante (egli non si è identificato, in questo, con lui) e neppure il ricordo di tale fatto lo tormenta, come sarebbe avvenuto in un melanconico. Dante, nel canto XV, ci offre l’espressione più alta e più sana dell’amore che un allievo può provare per il maestro, anche quando questi è giudicato imperfetto, anche quando è scomparso; dell’amore che un figlio può serbare per un genitore, che un ex-paziente può mantenere per chi lo ha curato.
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