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IL MALE, RAMBO e IL FEMMINICIDIO…

26 Ago 14

A cura di FRANCESCO BOLLORINO

La lunga striscia di sangue che ha colorato di rosso questa estate non deve stupirci: il Male, l’aggressività esistono e sono connaturati alla natura umana al pari di altri sentimenti e pulsioni.
Il Male l’aggressività hanno tante facce: come psichiatra, ed essere umano, sono portato a provare empatia per chi non è riuscito ad evitare il cortocircuito della violenza, ma ci sono odiose forme di aggressione verso le quali è difficile provare empatia: gli scafisti che gettano in mare i migranti,  i poliziotti che sparano ad un ragazzo disarmato, gli omicidi compiuti in nome dell’odio razziale o religioso.
Il Male, l’aggressività esistono e provocano appetizione e fascino proprio perché radicati profondamente nell’animo dell’uomo.
Freud diceva che l’odio nasce prima dell’amore, perché nasciamo dipendendo in tutto e per tutto da altro.
 Non è un caso e non ci deve stupire che il video più visto tra quelli ospitati sui server dei  giornali sia l’agghiacciante sequenza della decapitazione del povero James Foley per mano di un assassino jihadista mascherato.
Poco sappiamo dell’ultimo delitto consumatosi a Roma a fine agosto e poco sapremo per la morte dell’assassino (che porterà per sempre il suo segreto dentro di sé), in un tranquillo quartiere di VIP, a riprova che la violenza non ha correlazioni sociologiche, ma semmai ragioni profonde personali: non esiste mai un delitto senza un perché basta avere la pazienza e la perizia di cercarlo nel profondo dei vissuti e delle storie di vita dei tragici protagonisti e noi sappiamo che la realtà interiore è importante tanto se non di più di quella esterna.
In un memoriale, che custodisco gelosamente tra i miei documenti, scritto negli anni venti da un ricoverato dell’OPP di Cogoleto, lì rinchiuso dopo un delitto apparentemente senza un perché si legge: “quella mattina presi la pistola e mi recai in centro, arrivato in Piazza De Ferrari vidi un prete, che mai avevo incontrato prima, sicuramente dal suo sguardo in collegamento coi Signori che mi perseguitavano, estrassi la rivoltella e quel che doveva essere fatto, fu fatto…”.
Lungi dal voler considerare la follia “pericolosa”, non si può non immaginare un qualche squilibrio in un  giovane di 35 anni vestito simbolicamente da Rambo (Rambo era un reduce, uno sconfitto, un escluso e l’assassino era figlio di un ufficiale dell’esercito in pensione), armato di mannaia che decapita la colf di casa nel seminterrato della villa dove era ospite: la differenza con noi “sani” sta nella perdita del controllo e nel passaggio all’atto senza la faticosa mediazione della mente, uso il termine faticoso volutamente per indicare come la sanità mentale l’equilibrio siano non un “dono” ma un lavoro incessante e difficile per ognuno e a volte impossibile per i più fragili o i più feriti dal destino dalle vicende personali e relazionali.
La follia è democratica ed è angoscia senza fine, dolore, scissione che può a volte portare alla violenza, anche se non mi stancherò mai di ripetere che la violenza dei “sani” è molto più frequente e pericolosa della violenza dei “matti”.
Esistono per altro i riti e gli omicidi rituali: quello di Foley lo è sicuramente stato nella sua barbarie senza dolore e pietà e pure  questo di Roma sembra essere un delitto “rituale” in una società come direbbe Massimo Recalcati senza più Padri e senza più riti di passaggio essenziali nella loro valenza simbolica per la costruzione di una identità matura, che non necessita di travestimenti per reificarsi nel vivere e nel crescere superando per l’uomo l’ansia di castrazione.
Ognuno di noi, infatti, si porta dentro quel fantasma inconscio che chiamiamo angoscia di castrazione: la paura, cioè, di essere privati di qualcosa di prezioso a causa del nostro desiderio.
Decapitare l’oggetto irraggiungibile del desiderio, la donna, la Madre, il femminile terrorizzante da cui si è attratti e da cui ci si sente respinti, può essere stata una modalità purtroppo non simbolizzata, ma tragicamente agita, di questa angoscia.

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3 Commenti

  1. sansoni.riccardo

    Vorrei dire “curioso” mentre
    Vorrei dire “curioso” mentre il termine più appropriato è “logico” per definire il filo che intravedo tra questo editoriale ed il penultimo “cuori ed interruttori”. Sembrano capitoli di un discorso a puntate.
    Abbiamo parlato (io più che altro posso limitarmi a leggere, data la mia inesperienza) di come può accadere che la lampadina si fulmini; di cosa può accadere nel buio e della violenza se non si riesce a sostituirla correttamente.
    Mi piacerebbe leggere qualcosa, e cosi vi esorto davvero a farlo perché a mio avviso sarebbe davvero interessante, su come si possa e si debba lavorare per cambiare la lampadina fulminata. È vero che si tratta di un ambito estremamente soggettivo, ma qualcosa si può pur dire. Come si deve esortare qualcuno che è a terra a fare di una cicatrice una poesia? A dirgli tieni la vela alzata che prima o poi il vento tira? Persone che perdono il lavoro gli affetti che soffrono per la perdita dei propri compagni che cambiano strada senza vedere in loro una minima sofferenza. In un mondo in cui si cerca di fuggire dai problemi e rifugiarsi nelle soluzioni facili. Cosa dire a chi non riesce ad alzarsi e non si accontenta di situazioni di comodo? Non pensarci, passerà? Come allentare il pensiero ossessivo del trauma? Questo è una violenza continua che prima o poi scoppia e si scatena verso se o gli altri…..

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    • simonetta.putti

      Grazie Francesco Bollorino
      Grazie Francesco Bollorino per l’articolo che in gran parte condivido.
      Mi ha stimolato la domanda di Riccardo Sansoni, su come si possa lavorare per cambiare la lampadina fulminata. Già la metafora della lampadina è densa e intrigante.. subito potrei dire che dovremmo lavorare affinchè la lampadina non si fulmini… imparando a cogliere rapidamente i pericolosi sbalzi di tensione.
      Poi posso rispondere che forse dovremmo meglio capire che dobbiamo lavorare con la paura che sottende la violenza.
      Riporto, sperando di non essere noiosa, un piccolo brano tratto da un mio scritto sul femminicidio.
      “Dall’osservatorio che il temenos costituisce, ho visto negli anni cambiare e spesso invertirsi le posizioni ed il potere degli uomini e delle donne: il motore di fondo, la paura, mi è parsa restare costante.
      Considerando che ogni persona costituisce una irripetibile miscela somato-psichico-culturale e partendo proprio dal soma, dalla biologia, ritrovo nella memoria la tesi avanzata dalla Sherfey, che, a partire da ricerche embriologiche, proponeva una chiave di volta alla questione della femminilità. La Sherfey evidenziava che l’embrione non è né bisessuale né tantomeno indifferenziato: è femmina; lo sviluppo del maschio “può essere considerato come una deviazione del modello femminile di base ”. Evidenziava altresì, spostando l’attenzione alla sessualità, che a partire da alcune specie di primati e via via sino alla donna primitiva si riscontra una marcatissima potenza sessuale; caratteristica che sommandosi nella femmina umana alla mancanza di periodi di estro e all’assenza di anestro durante l’allattamento avrebbe drasticamente ostacolato le responsabilità e le cure materne nelle donne primitive, creando forti difficoltà nel contesto sociale che si andava organizzando in strutture centrate sulla famiglia biologica. Fu quindi inevitabile per i maschi reprimere violentemente le sfrenate esigenze sessuali femminili per consentire una economia basata sui diritti di proprietà e sulle leggi della consanguineità.
      C’è questo scenario all’origine della repressione e della violenza esercitate sulla donna?
      Da qui si origina quella paura ancestrale che l’uomo nutre nei confronti della donna?
      Credo che potremmo ammettere l’ipotesi e ri-considerare tutta la copiosa messe di teorizzazioni susseguitesi nelle diverse epoche, a sostegno o contro l’asserita inferiorità della donna, nonché a spiegazione delle relazioni uomo-donna.”

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  2. brunocavallaro@libero.it

    Grazie. Anche io mi interrogo
    Grazie. Anche io mi interrogo da tempo sul problema della violenza (che io chiamo: violenza nonostante-tutto). La violenza che insiste nonostante i progressi scientifico-tecnici e di condizioni di vita. Mi ha sempre aiutato il Lacan del “reale, estimo a ogni significanza”, ma in ciò non ho mai trovato se non un motivo di auto-rassicurante compiacimento. Mentre il discorso dell’angoscia di castrazione connessa al desiderio mobilita il senso anche operativo – aperto alla speranza – dell’empatia. Empatia “per chi non è riuscito ad evitare il cortocircuito della violenza” (magistralmente detto!).

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