[Lezione tenuta all’interno di un progetto formativo della USL di Reggio Emilia sui problemi dei disabili adolescenti gravi e medio – gravi rivolto a educatori della riabilitazione ed altri social worker all’inizio degli anni ‘90]
1) Il modello istituzionale rappresenta l'insieme delle pratiche istituzionali contro le quali abbiamo lottato, quando a partire dal '68, abbiamo deciso di svuotare e di chiudere le istituzioni totali[1] fino ad allora imperanti.
Ognuno di noi sa, però, dalla propria pratica di tutti i giorni, quanto sia facile rischiare di fare quotidianamente quell'insieme di cose da non fare che ora vedremo insieme.
E, meglio di tutti, siete voi che operate nelle strutture intermedie a conoscere questo rischio proprio per le difficoltà particolari che sono insite in uno stile di lavoro col grave che vuole essere di tipo relazionale, ma che molto spesso per motivi oggettivi o per limiti soggettivi, finisce con il non poter essere tale.
Basta a volte l'assenza di un autista o di un pulmino, o la non sostituzione di una collega ammalata per far sprofondare anche la situazione più promettente in una pratica del giorno per giorno, nei cui interstizi il modello istituzionale si annida, pronto a prenderci in maniera subdola.
2) Accingiamoci perciò a studiare il "modello istituzionale" considerandolo come una cartina di tornasole che ci permette di vedere (impietosamente, certo, cioè non ipocritamente) noi stessi ed i nostri pazienti nei rischi che corriamo ogni volta che non possiamo raggiungere i fini che ci eravamo prefissi, attuare i programmi che avevamo stabilito, usare gli strumenti che avevamo approntato.
Lo faremo guidati da un sociologo americano, E. Goffman, che in uno splendido testo ha descritto, proprio intorno al '68, in maniera efficace e non assolutamente "ideologica" la quotidianità istituzionale[2].
Il pregio maggiore di questo testo, ciò che lo rende ancora attualissimo, è la sua adattabilità a qualsiasi luogo istituzionale.
Goffman infatti analizza con la stessa griglia tutte le istituzioni totali, o meglio, potremmo dire oggi (superate ormai le ragioni storiche che vent'anni or sono giustificavano il nostro manicheismo), tutte le istituzioni nel momento in cui rischiano di diventare totali.
Ciò è reso possibile da un taglio analitico che permette di riscontrare delle omogeneità di fondo, delle linee di tendenza comuni in istituzioni le più diverse.
Ciò che attrae Goffman cioè non è una valutazione del tasso di violenza e di manipolazione presente in questo o in quel luogo istituzionale, ma l'insieme delle pratiche e delle strategie tipiche ed invarianti che è possibile riscontrare ovunque ve ne sia una traccia.
Cosicché, ad esempio, luoghi concentrazionari ed istituzioni educative o socio-sanitarie possono essere accomunati da modi di fare e di rapportarsi che possono essere riscontrati al di là del fine istituzionale dichiarato o della quantità di violenza istituzionale effettivamente dispiegata.
3) Un altro pregio, non secondario in sede formativa, dello studio di Goffman è nel fatto che la ricchezza descrittiva del testo permette a chiunque di ritrovare nella propria esperienza personale, prima ancora che professionale, svariate situazioni (che la lettura del testo fa riemergere alla memoria) in cui si è stati coinvolti, in un modo o nell'altro, all'interno di istituzioni totali, o in istituzioni che in certi momenti tendono a diventare totali.
Chi di noi non porta su se stesso una qualche stigma di esperienze in istituti, campeggi, colonie? Chi fra coloro che hanno fatto il servizio militare non è in grado di far emergere dall'oblio ricordi "pesanti", se appena stimolato da qualche occasione?
E chi di noi non è stato, almeno per una volta nei panni opposti di chi ha tutto il potere nelle mani e lo usa a fini manipolatori?
So che questo secondo aspetto del problema è più difficile da riconoscere, ma, per esempio, quante volte la definizione di un semplice orario viene decisa ponendo le esigenze istituzionali prima di quelle effettive del paziente?
4) Goffman usa due termini, "staff" ed "internato", per designare le due possibili posizioni che un qualsiasi soggetto può assumere in una qualsiasi posizione totale.
Col primo termine, "staff", è connotata ogni istituzione di comando, di direzione, di potere, al di là di quello che è il fine istituzionale esplicito che la giustifichi.
Il secondo termine, "internato", invece si riferisce, con altrettanta indiscriminazione, a colui che è l'oggetto su cui si esercita il potere, il comando.
Ora è chiaro che un approccio apparentemente così poco attento a discriminare, a discernere fra istituzione e istituzione e senz'altro così poco propenso a vedere la diversa funzione storica che qualsiasi apparato istituzionale può svolgere nelle varie società che lo producono può prestare il fianco a varie critiche.
Vedremo meglio in seguito, nel capitolo sulla storia delle istituzioni, in base a quali esigenze sociali le istituzioni nascono , si trasformano e muoiono.
L'analisi di Goffman non dice nulla su questi aspetti diacronici del problema ed è tutta sociologicamente incentrata sugli aspetti sincronici, come una specie di analisi delle invarianze che è possibile cogliere, in un momento dato, in qualsiasi luogo istituzionale, al di là del tasso di violenza e manipolazione in esso dispiegato ed al di là dei fini istituzionali conclamati.
Ed il valore della ricerca di Goffman sta proprio nel fatto che questa capacità sintetica non scade mai né in un volgare sociologismo, né in atteggiamenti ideologici finendo anzi per rivelarsi utile come "cartina tornasole" anche sul piano diacronico, proprio grazie alla sua "genericità".
5) Faremo ora una lettura dei capitoli centrali della ricerca di Goffman cercando, di volta in volta, di fare degli esempi – desunti dalla nostra esperienza professionale o personale – che illustrino i rischi che tutti noi corriamo di porci in una posizione manipolativa nei confronti dei pazienti gravi o medio-gravi, al di là dei fini riabilitativi o educativi conclamati che ci guidano nel nostro agire quotidiano.
Vedremo nell'ordine:
1) le procedure dell'ammissione;
2) l'adattamento;
3) le dimissioni;
4) le strategie dello staff.
I primi tre capitoli sono incentrati su ciò che avviene all'internato nelle tre fasi della sua vita istituzionale, l'ultimo su come si muove lo staff.
Fine di qualsiasi istituzione, nel momento in cui si pone come luogo totale per l'individuo è, secondo Goffman, la mortificazione del sé dell'internato per giungere alla costruzione di un falso sé (ridotto, distorto, anchilosato).
L'indagine di Goffman quindi può essere vista come una analisi delle strategie di attacco al sé dei soggetti internati.
L'unica differenza riscontrabile tra istituzione e istituzione è nel grado di scientificità e di autoconsapevolezza istituzionale secondo il quale si articola l'attacco stesso. Per cui, ad esempio, l'attacco al sé della recluta nei primi giorni di servizio militare è condotto dallo staff del C.A.R. con "oculatezza" e scientificità ben maggiori di quello che può essere condotto in un Asilo Nido che funzioni male e che vien meno, per motivi oggettivi o soggettivi, ai fini istituzionali espliciti (educazione, assistenza) che lo informano.
6) L'ammissione: il momento dell'ammissione in una situazione è molto importante. Chiunque ad esempio abbia fatto esperienza di un ricovero in un "Pronto Soccorso" presso qualsiasi Ospedale Civile penso sia in grado di testimoniare come, anche in situazioni di estremo bisogno personale, le procedure di ammissione tendano velocissimamente e con brutalità, fin dall'inizio, a determinare il rapporto su un piano manipolativo ed anzi finiscono con l'essere un concentrato di manipolazione e di violenza affinché l'internato comprenda subito dove è capitato e vi si adatti velocemente.
Vediamo ora analiticamente con Goffman con quali procedure viene condotto l'attacco al sé dell'internato nel momento dell'ammissione cercando di fare degli esempi che illustrino sia gli aspetti di scientificità con cui tale attacco può essere condotto, sia i pericoli che anche in istituzioni non totali sono presenti nel "tran tran" quotidiano.
6-1 Riduzione del sé e barriera verso l'esterno. Ad esempio nel periodo del C.A.R., all'inizio del servizio militare, è molto difficile uscire dalla caserma. Addirittura nei primi giorni non è possibile uscire e con pretesti vari, la data della prima uscita viene procrastinata giorno dopo giorno.
Ma anche in un centro appoggio vi è il pericolo di ridurre, di fatto, l'ambito esperienziale del ragazzo ospitato, qualora infatti non venga fatto il massimo sforzo possibile onde poter uscire con il ragazzo per raggiungere tutte le opportunità che il quartiere, la città, il territorio offrono (piscina, palestre, mense, atelier, ecc.). Ove per "massimo sforzo" si intende da una parte quello dell'amministrazione nel rendere possibile a livello finanziario ed istituzionale l'uscita, dall'altra quello degli operatori e della dirigenza tecnica nel saper sfruttare bene le risorse a disposizione in un momento dato.
6-2 Spoliazione dei ruoli e delle abitudini già acquisite.
Ad esempio trasformare un bambino in alunno in ambiente scolastico implica un impoverimento della complessità del soggetto-bambino non priva di conseguenze sul piano psicologico. Così come attaccare l'uso dell'oggetto transizionale in un Asilo Nido implica la spoliazione da parte dell'insegnante di un cerimoniale che è importantissimo lungo il percorso di individuazione-separazione. Ma anche in un Centro Appoggio la spoliazione di una abitudine acquisita (che può essere, ad esempio, l'uso di un oggetto feticcio) può diventare un attacco che impoverisce il ragazzo, lo pone in una situazione di angoscia, soprattutto se avviene, appunto, sotto la forma di una spoliazione, e non di un progetto riabilitativo-educativo mirante a sostituire il feticcio e le manovre sul feticcio con modalità di vita e di rapporto più equilibrate e mature.
6-3 Procedure di ammissione alienanti.
Ad esempio, spogliare, tagliare i capelli, fotografare, pesare, in una parola oggettivare. Ciò avviene giornalmente in istituzioni totali quali il Servizio Militare di leva, certi ospedali ecc.
Nei Centri Appoggio non mi pare che ci siano molti rischi su questo piano, anche se certi comportamenti quotidiani degli autisti che accompagnano i ragazzi da casa e certe sfasature fra il momento dell'arrivo del ragazzo e quello dell'educatrice possono ingenerare una prassi oggettivante.
6-4 Obbligo al rispetto e alla deferenza nei confronti dello staff.
Anche su questo piano non vi sono molti rischi nei nostri Centri Appoggio. Mi pare però che, oltre a quelle situazioni estreme in cui l'obbligo alla deferenza diviene un insieme di piccoli atti quotidiani di sadismo che lo staff usa per incutere timore nell'internato, vi siano in qualsiasi istituzione pericoli che in una atmosfera eccessivamente formale l'obbligo al rispetto e alla deferenza emerga in maniera subdola. Penso, ad esempio, alla vecchia scuola elementare, quella della mia infanzia. Era facile lì passare dal "Signor Maestro" a situazioni in cui il "signor maestro" abusava di questo titolo.
6-5 Rinuncia ad ogni proprietà, ad ogni segno personale.
E' l'uniforme dei carcerati, i grembiulini dei vecchi Nidi Onmi o aziendali. Ma anche nei Centri Appoggio può accadere che l'assenza di armadi personali, di tovaglioli, di suppellettili vari ingeneri abitudini che, di fatto, si apparentano con la logica che sta alla base dell'uniforme, del grembiulino.
6-6 Costrizioni di carattere fisico.
Lasciamo da parte anche in questo caso le situazioni estreme e cerchiamo di vedere cosa può accadere in luoghi istituzionali contigui al nostro: ad esempio costringere a dormire di pomeriggio un bambino delle ultime sezioni di scuola materna, quando magari il bioritmo dell'uno lo richiede ma quello dell'altro non lo richiede più, può diventare anch'esso un "parente" della costrizione fisica.
La stessa cosa penso si possa dire dell'organizzazione delle routines di un Centro di Appoggio, dove la non attenzione alle esigenze particolari, personali di questo o di quel ragazzo può ingenerare situazioni di oggettiva costrizione.
6-7 Reazioni verbali umilianti.
6-8 Costringere l'internato ad assumere un ruolo in cui non possa identificarsi.
Beh! voglio pensare che queste due procedure, almeno, siano risparmiate ai nostri ragazzi e che la dedizione e la serietà delle nostre educatrici rendano impossibile anche il rischio che ciò accada.
6-9 Profanazione della incorporazione del sé.
Non distinzione cioè fra territori appartenenti al sé e territori appartenenti agli altri. Si tratta prevalentemente dei territori in cui sono espletate funzioni primarie quali il mangiare, il dormire, la "toelette".
Nelle istituzioni totali più violente questi territori sono programmaticamente profanati, sempre al fine di attaccare il sé dell'internato, in questo caso nelle sue esigenze di riservatezza, di privacy, di definizione di uno spazio privato in cui il sé possa dispiegarsi serenamente nella soddisfazione di esigenze personali che non tollerano l'intrusione di estranei, se non a costo di gravi rischi sul piano della propria identità personale.
Ma anche in istituzioni quali gli Asili Nido, i Centri Appoggio, le colonie, i campeggi etc. i rischi di una profanazione di spazi privati o di un non adeguata programmazione degli stessi sono, a mio avviso, molto grandi.
Penso, anzi, che questo possa essere considerato come il rischio maggiore fra quelli finora elencati, accentuato nei C. Appoggio dal fatto che, come avviene negli Asili Nido, "l'ospite" non è in grado di reclamare, almeno verbalmente, le sue esigenze.
7) L'adattamento.
L'insieme, più o meno programmato, più o meno organico, di piccole azioni quotidiane miranti a mortificare il sé dell'internato e a sostituirlo con un "falso sé" determina un insieme di reazioni nell'internato che Goffman definisce "stili di adattamento".
Nel corso della storia istituzionale di qualsiasi intervento vi può essere il passaggio da uno stile ad un altro, a seconda del tempo più o meno grande di permanenza nell'istituzione, del tipo di staff che si ha di fronte, delle opportunità offerte dal gruppo degli internati, etc.
Goffman ha definito vari stili di adattamento. L'elemento costante che si trova però in tutti i tipi di adattamento, non dimentichiamolo, è l'incapsulamento del vero sé dell'internato, la sua messa tra parentesi data l'oscenità di una esperienza autentica in una istituzione totale, e la sua sostituzione con una patina più o meno pesante, con una facciata compiacente che chiamiamo "falso sé".
Vediamo ora, con Goffman i vari stili di adattamento.
7.1 Necessità di sicurezza.
Tutti gli altri sono considerati come "spie", la situazione in generale viene vissuta come troppo pericolosa, per cui l'internato si chiude "a riccio" e rinuncia alla comunicazione, allo scambio.
Ad esempio quante volte è successo anche a noi di trovarci in situazioni istituzionali in cui non si può parlare perché ci sono delle "spie"!.
7.2 Il "ritiro dalla situazione" dove la chiusura "a riccio", cui si accennava sopra, assume tratti di tipo autistico.
7.3 La coppia.
7.4 La fraternizzazione.
Si definisce una alleanza particolare fra due o più internati che circoscrive un'area in cui legami fraterni, assumano valore difensivo, contro l'universo istituzionale.
7.5 Il prendere in giro collettivo.
Consiste nell'uso, sempre in termini difensivi, dell'ironia e del sarcasmo, quasi sempre contro lo staff (invenzione nomignoli, imitazioni, etc.) da parte di un gruppo di internati.
7.6 La solidarietà di reparto.
Cioè l'aiuto che il reparto esprime, in forme più o meno esplicite, nei confronti di chi è più esposto agli attacchi dello staff.
7.7 La linea intransigente è invece contraddistinta dallo scontro aperto con lo staff nel reclamare i propri diritti, nel mantenimento di abitudini, routines, nella risposta agli attacchi svalutanti, etc..
E' spesso la forma di adattamento iniziale in soggetti particolarmente portati a confrontarsi con l'autorità a viso aperto. (Vedi, ad es., l'atteggiamento iniziale del protagonista nel film "Qualcuno volò sul nido del cuculo").
7.8 La colonizzazione, o meglio il lasciarsi colonizzare è un adattamento consistente nel convincersi del fatto che la realtà istituzionale sia l'unica realtà possibile e nell'assumere la quotidianità istituzionale come una routines estendibile a tutto il mondo esperienziale.
7.9 La conversione è l'estensione di un tale convincimento fino al punto di considerare giuste le angherie propinate dall'aggressore e le punizioni subite.
E' l'entusiasmo istituzionale l'identificazione con l'aggressore, la sindrome di Stoccolma.
7.10 Il prenderla "con calma", infine, "la conoscenza dei trucchi del mestiere" è la difesa che solitamente viene assunta dai soggetti più equilibrati.
Per sopravvivere l'internato rinuncia a quello che veramente è, lo mette tra parentesi per non essere eccessivamente ferito dalla violenza istituzionale.
Ma questo "adattamento secondario", che pure è il più maturo e il più redditizio in una situazione di violenza istituzionale non può non risolversi alla lunga in un isterilimento del sé dell'internato, che diventa come una pianta non più irrorata che si secca e deperisce.
Nel nostro caso l'irrorazione che manca è quella dell'autenticità dell'esperienza vissuta.
Ma quando l'internato è un adolescente o un adulto handicappato cosa accade sul piano di adattamento?
Il fatto di essere un soggetto che ha già un sé impoverito, nelle sue potenzialità, dai deficit che sedimentano il ritardo intellettivo fa si che l'handicappato sia particolarmente esposto, a mio parere, ad usare quelle difese, quelli stili di "adattamento secondario" che sono più arcaici ed infantili.
Noi cioè possiamo, si, vedere gli handicappati rifugiarsi nella fraternizzazione e nella coppia (difficilmente, almeno a livelli di gravità notevole nel "prendere in giro collettivo") ma più frequentemente nel ritiro dalla situazione, nella colonizzazione, nella conversione, nella linea intransigente.
Il prendersela con calma, in situazioni quali erano il De Sanctis, (reparto infantile del manicomio di R.E. chiuso all'inizio anni '70) e sono tuttora le istituzioni totali, appariva ed appare non tanto come il frutto di una attiva opera di messa tra parentesi del vero Sé del soggetto, quanto come il risultato di un'opera di "convincimento" proveniente dall'esterno.
8) Le dimissioni.
E' chiaro che nel caso dell'handicappato psicofisico è sempre improprio parlare di dimissioni poiché si tratta sempre, in questo caso, di un passaggio di competenze da un servizio ad un altro data la non guaribilità dei soggetti.
Ma la nostra situazione di sostanziale indimissibilità non ci esime dal dare un'occhiata a quel che accade secondo Goffman dopo le dimissioni dell'ex internato, anche perché qui siamo in sede formativa e non si sa mai, qualcuno di voi potrebbe cambiar mestiere…
La fenomenologia di quel che accade, secondo Goffman, è la seguente:
8.1 Ansia. C'è un bellissimo racconto di Hemingway, intitolato "Il reduce"[3], che narra la situazione di sostanziale difficoltà a ritrovarsi da parte di un reduce della I guerra mondiale, dopo il ritorno a casa. E' una situazione di annichilimento, di vuoto, di ansia derivante dal non sapere ricollocarsi, di non sapere ritrovare l'autenticità del vero sé.
8.2 Ricostruzione del Sé. Non è vero, afferma Goffman, che, dopo una esperienza in una istituzione totale, il vero sé rimanga intatto per il semplice fatto che è stato messo fra parentesi. Occorre ricostruirsi, ed anche qui rimando alle belle sequenze del film "La famiglia" di Scola dove sono descritti con efficacia gli sforzi di ricostruzione del sé da parte di un reduce che ritorna a casa.
8.3 L'oblio. A volte la ricostruzione del sé può avvenire solo se gli attacchi più violenti subiti nell'istituzione sono dimenticati.
8.4 Ma ogni attacco subito lascia uno stigma, una ferita sul sé dell'ex-internato che segnano per sempre la sua psiche. Questa stigmatizzazione, ad esempio, negli ex degenti del De Sanctis riappariva anche dopo la loro territorializzazione e si può dire che il nostro lavoro su questi vecchi casi è consentito in un'opera di lenimento di queste ferite.
8.5 Ed infine la disculturazione che appare sempre come il risultato più evidente dopo la permanenza in qualsiasi istituzione totale.
Per disculturazione si intende la perdita di quei segnali culturali di appartenenza in base ai quali si definisce l'identità di un soggetto.
La perdita di queste radici, frutto del vero e proprio "lavaggio del cervello" cui l'internato è stato sottoposto, lo rendono particolarmente esposto ai pericoli di una alienazione, che nel caso dell'handicappato produce spesso o aggrava situazione di "psicosi d' impianto".
9) Le strategie dello staff.
Ci restano da vedere ora con Goffman, le strategie che lo staff è portato ad usare, in una istituzione totale, nel suo rapporto quotidiano con l'internato.
Deve essere chiaro che per staff non si intende solo l'operatore che lavora in una istituzione che apertamente e programmaticamente si pone come "totale".
Anche gli operatori che, per ragioni oggettive o soggettive, rinunciano alla loro soggettività più piena e si riducono alle loro parti più formali finiscono con l'essere staff, almeno finché tale rinuncia è in essere.
Nella misura in cui l'operatore si riduce a staff e il soggetto da curare, assistere, etc. viene ridotto ad internato sono poste le premesse perché l'istituzione persegua un fine generale di tipo manipolatorio, in base al quale le esigenze dell'istituzione vengono prima di quelle dell'internato.
Per fare questo lo staff, dopo "le cerimonie" dell'accoglienza, utilizza varie strategie.
9.1 Lavorare con degli uomini come si trattasse di oggetti.
Questa oggettivazione dell'altro è la premessa del lavoro non solo in istituzioni quali gli ospedali psichiatrici, gli ospedali civili (hai dato le pastiglie "al fegato"?) etc., ma anche in situazioni più vicine a noi quali gli Asili Nido, le scuole ecc..
Abbiamo fatto prima l'esempio del rapporto fra bioritmo del bambino ed esigenze organizzative del personale nelle scuole materne. Ma quante volte noi stessi non abbiamo definito orari, priorità, obiettivi in base alle nostre esigenze piuttosto che alle "loro"?
E' importante tenere sempre presente l'analisi di Goffman come un "de te fabula narratur", altrimenti si rischia di cadere in posizioni manichee che ci fanno vedere il bruscolino che è negli occhi dell'altro e non la trave che è nel nostro occhio.
9.2 Presentare una facciata ai parenti degli internati, e, potremmo aggiungere, a noi stessi.
Ad esempio permettere delle visite per presentare solo il presentabile. Oppure fare un aggiornamento solo su cose che vanno già bene finendo con l'autoincensarsi.
Questa distinzione fra luoghi solari da esibire e luoghi oscuri da nascondere agli altri e a se stessi è al fondo di molti progetti "narcisistici", anche in istituzioni che non sono affatto totali da un punto di vista programmatico, ma che rischiano di diventarlo qualora una politica di occultamento e di rimozione alberghi a lungo in esse.
9.3 Infine cerimonie istituzionali quali feste, inaugurazioni: le ricorrenze possono diventare manovre di falsa apertura, che servono a perpetuare uno stato di manipolazione e di violenza.
Lascio all'esperienza e ai ricordi di ciascuna di voi le immagini che possano confermare quanto detto in questo ultimo punto.
Di mio dico solo che anche i colloqui o le riunioni dei comitati di gestione possono diventare cerimonie istituzionali, che si configurano come apparati difensivi contro l'ansia e l'angoscia che la riabilitazione e l'educazione pongono soprattutto quando i soggetti da educare o da riabilitare sono inguaribili.
[1] Cfr: AA..VV.., 1977, "Deistituzionalizzazione. L'esperienza del De Sanctis di Reggio E.", Nuova Italia, Firenze.
[2] E. Goffman, 1968, "Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi della esclusione e della violenza", Einaudi, Torino.
[3] in E. Hemingway, 1969, "I quarantanove racconti", Oscar Mondatori, Milano, pag. 203/214.
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