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Il padre di Kafka.

23 Giu 16

A cura di Maurizio Montanari

 Le tracce della maturità hanno ripreso uno stralcio della 'Lettera al padre' di Franz Kafka.
Tempo fa ne scrissi, in chiave analitica.
 

‘Dalla tua poltrona dominavi il mondo. Solo il tuo punto di vista era giusto.
Tu eri per me misura delle cose.
Ai miei occhi assumevi l’aspetto enigmatico dei tiranni, la cui
Legge si fonda sulla loro persona, non sul pensiero
F. Kafka
 

‘ In fondo al viale che attraversa l’antico cimitero ebraico di Praga, c’è un cartello che reca scritto ‘dr Franz Kafka’ e indica il percorso che conduce sino alla spoglia e
monolitica pietra che incombe sui suoi resti mortali.
Il monolito, lo stesso monolito del capolavoro di Kubrichk.
Il mio viaggio a Praga, dicevo, è culminato qua. La mia ricerca, nel tempo e nelle pagine, dei percorsi del giovane scrittore, si è arrestato materialmente su quella tomba. Solo dopo quell’incontro mi sono dato il permesso di mettere nero su bianco i mille pensieri che la sua vita e i suoi scritti mi hanno ispirato.
Partirò dunque da qua.
Dalla fine del viaggio.
L’epilogo de ‘Il Verdetto’ è tale da rendere questo racconto un’eccezione nell’opera letteraria kafkiana, che fa dell’angoscia il proprio asse portante. In tutta la sua produzione un elemento compare con regolare costanza, tanto da costituire il tratto distintivo del suo narrare: l’incombere di un destino segnato, una condizione di ostaggio non riscattabile che si traduce, nei romanzi più celebri, in una condanna enigmatica che il protagonista deve subire obtorto collo. L’Altro è sempre un’entità lontana, intangibile, enigmatica. Senza mai manifestarsi direttamente, manda a dire ai protagonisti, tramite emissari, che si vuole qualcosa da loro, senza mai specificare cosa.
L’angoscia dei vari signori K nasce dal non sapere mai cosa l’Altro voglia, dal non capire mai quale maschera si indossi ai suoi occhi. Kafka racconta storie nelle quali i protagonisti non trovano mai un posto definito, condannati ad oscillare in balia degli umori dell’Altro. Mentre il protagonista di ‘America’ accetta un difficile compromesso, Gregor non scampa al ruolo di blatta, il signor K de ‘Il Processo’ soggiace alla condanna inflitta senza che questa venga mai motivata.
Egli sa sin dall’inizio che deve essere processato; gli viene infatti contestato un reato del quale a lui non è dato sapere.
Il racconto procede in maniera angosciante, mai il protagonista saprà quale capo di imputazione penda sopra di lui.
L’enigma opaco del desiderio dell’Altro resiste sino alla fine, finché egli accetta di modellarsi al ruolo per lui ritagliato: colpevole. Decide di non far nulla di ciò che l’Altro ha già fatto di lui. Lo sventurato agrimensore de ‘Il castello’ avanza, e al suo procedere la questione se il castello sia abitato o meno, se il signore del Castello  davvero esista, perde vieppiù di importanza. Egli è costretto di volta in volta a confrontarsi con un emissario, emanazione di chi abita il Castello, che cerca di conferirgli una qualifica ogni volta diversa.
Non ci è dato sapere se l’agrimensore fosse destinato a trovare un posto, essendo l’opera incompiuta. È certo che, come ci lascia scritto Max Brod ( l’amico di sempre) il finale immaginato da Kafka vede il protagonista che : ‘muore. Intorno al suo letto si raccoglie la comunità, e in quel momento giunge dal castello la decisione che concede a K di viverci e lavorarci[1].
Tutti questi personaggi, dopo un percorso segnato dall’angoscia, si consegnano alla volontà dell’Altro e rinunciano a lottare, soggiacendo inermi ad un destino enigmatico che li ha accompagnati sin dalle prime righe.
Solo ne ‘Il Verdetto’ c’è una soluzione possibile ancorché tragica: togliersi la vita, chiamarsi fuori dalla posizione di oggetto bersaglio, rendere nulla la preponderanza dell’Altro che non lascia scampo.
Ma dove nasce nell’autore la certezza di un destino umano non emendabile? La convinzione che, per quanti sforzi si compiano in vita, i giochi sono già irrimediabilmente fatti, essendo l’uomo in balia del capriccio umorale e violento?
Da dove ha origine l’angoscia?
 
Nella ‘Lettera al Padre’ è descritto l’evolversi di quel rapporto doloroso, lacerato, mai del tutto elaborato, compensato dalla scrittura che egli ebbe col padre. È in questo j’accuse che prende corpo l’Altro onnisciente, mutevole e detentore di una verità che vive in tutta la sua opera.
È un Altro che non obbedisce alla legge, ma vive di capriccio. Col quale è pressoché impossibile articolare una relazione dialettica.
In funzione di ciò, a posteriori, possiamo individuare l’origine della gracilità, della debolezza e della incerta condotta del giovane K
In questa breve ma essenziale opera, risultato invidiabile per ogni paziente che decida di far chiarezza sul proprio Edipo, K tratteggia un padre tirannico, inamovibile ed incomprensibile.
Un Altro preesistente, che già era possente in ‘salute, appetito, potenza di voce, capacità oratoria[2]’.
Nella Lettera al padre si trova il paradigma di tutti i canovacci dei suoi racconti, o almeno dei suoi più importanti: il Castello, il Processo, la Metamorfosi, il Verdetto, un’opera che in ultima analisi costituisce una confessione di impotenza, di inadattabilità all’ideale paterno. Un grido verso un Altro che mai si premura di indicare una via definita al figlio, se non con disprezzo, con l’arroganza, con la forza.
Un padre nei confronti del quale K prova ad instaurare un dialogo, al quale chiede spiragli di comprensione e supporto : ‘Avrei avuto bisogno di qualche incoraggiamento, di un po’ di gentilezza[3]’.
Un Altro che non autorizza movimenti di separazione, presenza costante ed ineluttabile che permea di angoscia ogni riga del suo narrare.
Per capire bene tali atmosfere piene di questo affetto, è importante rivolgere lo sguardo all’indietro, esattamente nel punto in cui K ci racconta delle sua infanzia, della sua adolescenza, del suo travagliato passaggio dalla condizione di infans a quella di uomo adulto.
La lettera racconta di tutti gli sforzi fatti da K per trovare la propria strada nella vita. Descrive la sofferenza del crescere all’ombra di un padre assoluto e l’incapacità di operare una separazione, passo vitale ed ineluttabile, ma ipotecato da un’alienazione irrimediabile.
Narra di un ragazzo che ha osato deludere le aspettative dell’Altro paterno, ritagliandosi una zona franca libera dal suo vincolo: la scrittura. Tutta la sua opera romanzesca, i meandri di ogni suo labirintico pensiero non sono altro che la trasposizione di questa vicenda umana e dolorosa: lo scrutamento costante dell’orizzonte paterno e la ricerca di un angolo di mondo nel quale potervi sfuggire. Deciso a costruire una propria identità affrancata da quella figura enigmatica, non accondiscendente, che avrebbe voluto per il figlio un posto già prenotato: commesso nel negozio, anonima comparsa nel teatrino della borghesia Cecoslovacca. K devia a caro prezzo dalla strada già tracciata, coltiva e difende il proprio desiderio in una lunga lotta per la separazione.
Un padre che è tuttavia il costante riferimento al quale K si rivolge, nella rabbia, nel lamento, nell’orgoglio di aver cercato di smarcarsi.
Consapevole di aver operato uno strappo generazionale, e ciononostante impegnato ad interrogarsi sul genitore, il suo vero punto di riferimento, che sino alla fine lo porta a voltarsi indietro, alla ricerca di un approvazione tardiva che non arriverà mai.
Tutta l’infanzia sembra trascorsa a chiedere ‘cosa vuoi da me?’, domanda che rimanda al ‘cosa sono io per te?’. Un tempo utilizzato per scrivere, e scrivendo resitere al diniego, alla disapprovazione.
Questa lettera preannunica la breve vita ipotecata di un uomo malaticcio, che anche in età adulta non ha mai potuto prescindere dal costante, doloroso, ininterrotto rapporto con il proprio genitore.


 
 
 
 
 
 


Inizialmente al padre viene associato un sentimento di paura, e la modalità di stesura di questa opera mostra anche con quale modo egli abbia saputo fronteggiarla: con una lettera. La scrittura dunque, che già dall’incipit si prefigura come unico e solo strumento non intaccato dal significante paterno.
Inizia a descriversi da un luogo altro, marcando la sua distanza dal padre, con una chiamata fuori dai significanti familiari : ‘non ti ho mai accompagnato al tempio, […] non ho mai posseduto il senso della famiglia, non mi sono mai occupato del negozioe dei tuoi affari, […] tu non mi rinfacci atteggiamenti poco dignitosi o malvagi […] ma freddezza, estraneità, ingratitudinefreddezza, estraneità, ingratitudine[4]’.
L’incipit è quello di un ‘fuori discorso’, un albergare altrove per il quale chiede venia, ma grazie al quale questa lettera può essere stesa.
È una sorta di ‘da questo luogo lontano dal tuo ti parlo. E ti posso parlare proprio in quanto occupo un posto lontano dal tuo[5]’.
L’incontro con il padre è un urto troppo violento da reggere ‘come padre sei stato troppo forte per me, […] e io dovetti reggere da solo il primo urto[6]’.
Tra le righe compare un immediato chiamarsi fuori dalle aspettative dell’Altro che ha disatteso. Si avverte il rifiuto di occupare quel posto che gli aveva preparato, ‘anche se fossi cresciuto del tutto libero dalla tua influenza non sarei mai divenuto un uomo rispondente alla tue attese[7]’, per occupare il posto della malattia, della piccolezza, dell’inettitudine: ‘Quasi di certo sarei comunque diventato un essere malaticcio, ansioso, titubante[8]’.
Cosa aspettava K alla nascita? Quali le corsie lungo le quali incanalare la sua vita?
Già erano pronti per lui gli abiti di un vero Kafka: ‘forza, salute, appetito, potenza di voce,capacità oratoria, autosufficienza, senso di superiorità[9]’.
Una serie di significanti nei quali K si trova immerso. Si nasce nel campo dell’Altro, come insegna Lacan, in questo caso pieno di macigni che rendono difficoltoso il processo di separazione.


 
 
 
 
 


Lacan, nel Seminario V ‘Le formazioni dell’inconscio[10]’   ha descritto i tre tempi logici che scandiscono l’entrata del soggetto nel complesso di Edipo e la sua uscita da esso. Il primo tempo è quello della scoperta della castrazione della madre. Scoperta che mette l’infante di fronte alla condizione di dover accettare e simbolizzare questa privazione materna, vale a dire la questione dell’essere o non ‘essere lui il fallo della madre[11].
Nel secondo tempo la funzione paterna interviene con la sua opera di interdizione per impedire alla madre di saturare questa sua mancanza con il bambino immaginariamente identificato al fallo, ponendo fine a questa identificazione e togliendolo da quella posizione. è il tempo del padre dell’interdizione, ‘colui che priva[12]’, che interviene pronunciando un ‘Tu non giacerai con tua madre[13]’ rivolto al bambino, e ‘Tu non reintegrerai il tuo prodotto[14]’ rivolto alla madre. Un’opera di interdizione che in questo caso ha operato, impedendo la fagocitazione e scongiurando possibili sviluppi di tipo psicotico. Il terzo tempo è quello dell’uscita dall’Edipo. Il tempo in cui il padre manifesta che lui ha il fallo e ‘non lo è[15]’, e come tale lo può donare.
Può dare alla madre ciò che desidera, dare al bambino la certezza che, nel tempo, anche lui lo avrà. Il padre appare ‘nell’atto di dono[16]’, e il bambino si serba la promessa che nel tempo potrà averlo. La rivelazione che è il padre colui che ce l’ha determina, tramite l’identificazione, l’uscita dal complesso di Edipo. Identificazione al padre idealizzato, fase che realizza l’Ideale dell’Io e che segna il declino dell’Edipo. A questo punto: ‘l’infante ha in tasca tutti i titoli per servirsene in futuro[17]. È in questo terzo tempo che Franz accusa i maggiori problemi. Questo ‘via libera’ sembra non essere mai arrivato. Il padre non si dimostra capace di prendere la posizione di chi può donare il fallo, e resta attaccato in modo immaginario al volerlo essere.
È la questione del dono che, a mio parere, lo blocca sul limitare della soglia Edipica.
Cosa lamenta K? Si cruccia di una cosa che non trova. Non la trova nel padre, e nessuno dei suoi personaggi la trova mai nelle oscure e lontane figure di riferimento delle sue opere. L’amore. È questa la vera domanda che resta insoddisfatta.
Dice ‘non tutti i bambini hanno la resistenza ed il coraggio di cercare a lungo l’affetto senza trovarlo[18]’. Inizia a delinearsi cosa egli andasse cercando, bussando alla porta del padre che questo more non lo ha mai dato, almeno non quanto ha fornito i significanti per essere un buon K.
La domanda d’amore resta inascoltata, non c’è mancanza nel padre che lui possa colmare. Non esiste quella dissimmetria che permetta a K di instaurare una dialettica con il genitore. Non c’è mai la possibilità di un allineamento che conceda di vedersi da posizioni differenti. Il padre era prima, il padre già sapeva, Il padre aveva già preparato.


 
 
 
 
 


‘Per me bambino, tutto quello che mi ingiungevi era senz’altro un comandamento dal cielo,non l’ho mai dimenticato, diveniva il metro determinante per giudicare il mondo[19]’. ‘Non era permesso rosicchiare le ossa, ma tu lo facevi. Non era permesso assaggiare l’aceto, ma tu potevi[20]’. ‘A tavola si doveva solo mangiare, ma tu ti pulivi e ti tagliavi le unghie, facevi la punta alle matite[21]’; ‘tu, l’uomo che ai miei occhi rappresentava la massima autorità, non ti attenevi alle ingiunzioni che mi avevi imposto[22]’. Ecco l’origine della regola personalizzata, il fondamento del capriccio[23], che come dice JA Miller ‘non si discute[24]’.
La punizione irragionevole ed arbitraria che i vari signori K dei romanzi devono subire, è spiegata anche da un ricordo di infanzia dell’autore. Egli racconta di una serata durante la quale chiese acqua per dissetarsi con una insistenza tale da far scattare l’ira paterna che si tradusse nell’essere chiuso fuori casa, in camicia da notte.
 
‘Quella punizione mi fece tornare obbediente, ma ne riportai un danno interiore. L’assurda insistenza nel chiedere acqua, che trovavo tanto ovvia, e lo spavento smisurato nell’essere chiuso fuori, non sono mai riuscito a porli nella giusta relazione[25]’. Una punizione sproporzionata, inattesa, non decifrabile in rapporto alla colpa commessa. Il giovane si chiuse così in ‘un totale mutismo’, osando muoversi solo quando era ‘talmente lontano da te che il tuo potere non poteva più raggiungermi […]. Ma tu incombevi[26]. Questo è il punto centrale del rapporto di K con l’autorità. Il mondo descritto nei suoi romanzi è permeato di quell’atmosfera per la quale ‘si veniva puniti ancor prima di sapere cosa si fosse fatto di male[27]’, un universo piramidale nel quale l’assenza di legge affligge i protagonisti, certi che un pretesto per scatenare la violenza ‘l’avestri comunque trovato[28]’. È il goffo e triste uomo esposto al capriccio di cui parla Primo Levi: ‘Considerate se questo è un uomo […] che muore per un sì o per un no[29].
 
 
Egli viene punito senza sapere perché, con una pena smisurata, mentre sta chiedendo qualcosa all’Altro, formulando una domanda che è domanda d’amore. E non vuole esser esaudita se non nella forma di ricevere una mancanza, nella forma di un posto che l’Altro ti ritaglia.
Una domanda legittima che suscita punizioni improvvise e fuori misura.
Sin da questo episodio K si sente una piccola cosa alla mercè degli umori del Padre.
È il destino dei personaggi di due dei suoi romanzi: l’agrimensore del castello e il signor K de ‘Il Processo’. E di tutti gli altri K dei racconti minori sottomessi ad un potere assoluto e violento, ad una legge che contiene in nuce già il baco di poter essere violata. Violata in quanto la stessa autorità che la emana è la prima che ne dimostra la vulnerabilità.
Quella che esce non è una legge, una barriera solida, ma elastica, bacata. Una legge col germe della discrezionalità.
Ne consegue che tutto il post – Edipo del giovane Franz ne sia uscito quantomeno inficiato. C’è un dare e non dare. Un consegnare solo l’involucro della legge, il suo simulacro. Una sorta di codice con la sola copertina, ma senza al suo interno le leggi fondamentali.
Quelle rimangono al padre, che detiene i codici, li infrange quando gli aggrada, e punisce chi però non le segue. Quel padre ‘metro e misura del mondo’.
Non è la legge trasmissibile, ma la legge dei sovrani assoluti.
Non siamo quindi, per usare una metafora storica, all’estensione di una carta costituzionale; bensì più vicini agli umori del Re Sole.
Ci sono delle assonanze molto forti tra questa descrizione della legge ‘umorale’ e quella che ne fa Orwell quando parla del Grande Fratello in ‘1984’. Anche il Grande Fratello si comporta in modo simile, ponendo in essere una strepitosa piramide di potere e di controllo, nei meandri della quale ogni soggetto è controllato nella sua adempienza alla regola.
La devianza è definita lo ‘psicoreato’
Ma quando il protagonista si trova faccia a faccia col potere, scopre che i quadri intermedi, e via via a scalare verso l’altro, potevano violarla.
Potevamo tenere spento il televisore con il viso del G.F.
Potevano avere cioccolata e caffè, alimenti proibiti alle masse.
IL grande fratello è, come le entità che sono al vertice delle costruzioni Kafkiane, una realtà non definibile. Una sommatoria delle proiezioni persecutorie degli uomini che si accingono a varcare la sua soglia.
Che esista o non esista il Grande Fratello non è il vero problema.
Che il ‘Castello’ sia abitato o meno non fa differenza. Queste entità esistono in quanto la sottomissione che gli individui mostrano ad un potere presunto, dà al potere stesso uno statuto di realtà, inseriti come sono in una catena di comando che non si basa né sulla democrazia, né sul rispetto, e nemmeno sull’etica della legge: ma sulla violenza.
Un altro esempio di quanto questa sofferenza patita a causa degli umori del padre si sia riversata su carta lo troviamo nel comandante deLa colonia Penale’, (che è) ‘soldato, giudice, costruttore, chimico[30]’.
Questa figura assomma le funzioni di ‘giudice. […] Il principio in base al quale decido è: la colpa è sempre indubbia. Altri tribunali non possono seguire questo principio, perché sono formati da più persone, e hanno sopra di sè tribunali superiori[31]’.
La personalizzazione assoluta delle Legge.
Kafka lo dice bene nella Lettera al padre ‘il mondo si divideva per me in tre parti, e nella prima io, lo schiavo, vivevo sottoposto a leggi concepite solo per me e alle quali, senza saperne il motivo, non riuscivo del tutto ad adeguarmi, poi c’era un secondo mondo infinitamente lontano dal mio in cui vivevi tu, occupato a dirigerlo, a impartire gli ordini e ad arrabbiarti se non venivano eseguiti, e infine un terzo, dove il resto dell’umanità viveva felice e libera da ordini e da obbedienze[32]
 
Piccoli, interpellanti l’Altro, posti di fronte ad una risposta enigmatica. Questi sono i personaggi delle sue opere.
Egli paga il doversi instradare senza obbiettare nulla sui binari tracciati dall’Altro, il non riuscire a dare forma al proprio essere, consapevole di non poter vivere in quel campo che l’Altro ha disseminato dei suoi significanti.
Kafka dice ‘mi incitavi quando facevo bene il saluto e marciavo a tempo […], quando riuscivo a fare delle grandi mangiate bevendoci sopra addirittura birra, o quando cecavo di canticchiare canzoni che non capivo o ripetevo a pappagallo i tuoi modi di dire preferiti, ma niente di questo faceva parte del mio futuro[33]’.
‘Solo il tuo punto di vista era giusto, ogni altro era demenziale[34]’.
La pesantezza di un investitura paterna troppo grande per poter essere sopportata, l’impossibilità di avere la ‘benché minima iniziativa infantile’ sembrano impedire a K di svestire i significanti paterni per reperire i propri.
I tentativi di separarsi venivano costantemente frustrati e derisi, non c’era mai, da parte del padre, un vero incoraggiamento, quanto piuttosto uno scetticismo e una denigrazione di ogni piccolo passo compiuto al di là dell’area paterna: ‘Ho visto di meglio […] i tuoi pensieri sono tutti qui […]. Ho ben altro per la testa, io![35]
Si trattava di una costante ‘delusione che tu infliggevi al bambino sempre e per principio[36]’.[i]
Una delusione ancor più cocente perchè proveniente dall’’ autorità suprema’.


 
 
 
 
 


K sembra arrendersi, ad un certo punto della sua vita, all’incapacità di relazionarsi con questo Altro enigmatico, collerico e giudicante. Rinuncia ad instaurare una dialettica. Si chiama fuori dal tormento del sapere cosa si deve essere per l’Altro, operando un ripiego verso terreni propri, quali la letteratura e la scrittura, zona franca al riparo dall’ingerenza e dal giudizio del pesante cognome che incombeva su di lui. ‘L’impossibilità di avere con te un dialogo pacato portò ad un’altra conseguenza molto ovvia:disimparai a parlare’[37]
‘La tua minaccia ‘non ammetto obiezioni’ e la tua mano alzata mi accompagnano da allora.’ L’Altro assume connotati di incombenza che portano K al mutismo volontario e alla fuga in un altro linguaggio, al di la del padre.
Non meno importante fu il timore della castrazione. Egli dice infatti ‘Ti faccio a pezzettini come un pesce (riferendosi alla minaccia del padre) sebbene sapessi che non ne sarebbe seguito nulla di grave.. Corrispondeva alle mie fantasie sulla tua potenza il credere che saresti stato in grado di mettere in atto la tua minaccia. […] Quando mi pronosticavi un insuccesso, il timore del tuo parere era tale che l’insuccesso,magari qualche tempo dopo, si verificava puntualmente. Diventai incostante, dubbioso. Più crescevo, più aumentava il materiale che eri in grado di esibire a riprova della mia scarsezza’.
Mi sono chiesto come K abbia fatto a sopravvivere, a non rigettare in toto questo padre, a non cancellare se stesso dal mondo se davvero, come dice, non ha mai potuto conoscerne l’amore. Sorge spontaneo domandarsi quale spiraglio, quale mancanza nell’Altro lo abbia tenuto nella dialettica reciproca senza che egli scivolasse sulla sponda del rifiuto assoluto. Un po’ di posto c’era. Questo Altro immenso ed inscalfibile dava, occasionalmente e solo in certi momenti dolorosi, spiragli di accoglienza. K ricorda manifestazioni di amore, di vicinanza, ma si tratta di momenti rari, e legati ad eventi gravissimi, eccezionali: la malattia, ad esempio.
Fortunatamente non mancavano le eccezioni a questa norma […] quando, durante la grave malattia della mamma, ti aggrappasti alla libreria scosso dai singhiozzi […] o quando, durante la mia ultima malattia, ti avvicinasti piano alla stanza in cui io riposavo  […] e non volendo disturbarmi mi facesti solo un cenno con la mano. In quei momenti mi abbandonavo ad un pianto di gioia[38]
C’è quindi un momento in cui l’Altro dà un segno d’amore, mostra una mancanza che può essere occupata. Ma soltanto quando incombe la malattia, solo quando il bambino è infermo sa di poter incontrare un luogo d’amore, anziché ricevere la solita sequela di nozioni, di sapere, di direttive. Questo essere visto solo nel posto dell’infermo, ci dice molto della gracilità e della debolezza dei personaggi dei suoi racconti.
Per contro troviamo un desiderio materno debole, insufficiente forse a garantire un completo processo di individuazione. Dalle righe scritte scorgiamo che Franz anelava ad una madre un po’ più presente, un aiuto maggiore per poter deviare da quella strada già per lui tracciata.’ Certo, la mamma era infinitamente buona con me(..) se per un caso improbabile la tua educazione fosse stata in grado di farmi camminare con le mia gambe […] quella della mamma riequilibrava la situazione con la bontà, ed io venivo nuovamente risucchiato nella tua orbita, alla quale, altrimenti, con reciproco vantaggio, mi sarei forse sottratto[39].
Questo ci allontana dalla psicosi, nel senso lacaniano del termine. Non c’è un troppo di desiderio materno, la madre coccodrillo che non incontra una funzione simbolica del padre adeguata, abbastanza forte da allontanare il bambino dalla sua sfera di influenza. Anzi, l’esatto contrario.
 
Come risolve K questa impasse?
Con la scrittura, oggetto separatore che funge da intercapedine tra lui e il padre.
Non riuscirà mai a fuggire dal padre, tantomeno ad abbandonare Praga ( eccezion fatta per alcuni viaggi ), e non convolerà mai a nozze mandando a monte due matrimoni: dedicherà invece la sua vita alla scrittura. Bataille, nella sua post fazione alla ‘ lettera’, è convinto che ‘( nonostante) K volesse intitolare tutta la sua opera ‘ tentativi di evasione dalla sfera paterna’, egli non volle mai evadere veramente.’ Volendo piuttosto ‘ vivere nella sfera come un escluso[40]‘. La scrittura quindi, strumento irriducibile, non svuotato dal significante paterno. Oggetto al di fuori di tutte le attività che il genitore aveva preparato per lui ( il commercio, il matrimonio), baluardo contro l’angoscia.
Nella sua breve vita egli passerà da una condizione di ‘vacillazione dell’essere[41]ad uno stato in cui, col reperimento della scrittura oggetto separatore, la sua realtà troverà un quadro.
 
Dice K ‘..Più giustificata la tua avversione per quello che scrivevo  […] qui ero riuscito a ritagliarmi uno spazio indipendente da te, anche se ricordavo un po’ il verme che, schiacciato da un piede nella parte posteriore, riesce a liberare la parte anteriore e striscia via di lato.[42]
Si tratta di una separazione faticosa, che si serve di uno strumento, la creazione di racconti, situato al di là del padre, ma che col padre ha sempre a che vedere. Infatti K scrive : (riferendosi alla disapprovazione assoluta per l’amore per lo scrivere e il leggere) ‘quella frase risuonava in me come un adesso sei libero!  […] naturalmente mi sbagliavo, non ero affatto libero  […] nei mie scritti parlavo di te, vi esprimevo quanto non riuscivo a sfogare sul tuo cuore, era un congedo da te volutamente dilazionato, un congedo che avevi messo in moto tu’.[43]
 
Non a caso l’autore afferma che: ‘ Non ero sicuro di nulla (….) avevo bisogno di conferma della mia esistenza.’ Lui, che agli occhi dell’Altro, non riesce che a vedersi come lo schifoso scarafaggio de ‘ La metamorfosi’.
Scrivere, dunque.
Scrivere mentre l’Altro non guarda. Quando i legami sociali e le consuetudini quotidiane della vita regolata sono allentate. Scrivere in una zona riparata, scrivere di notte. Scrivere rompendo anche le coordinate del tempo, ‘(Di getto, spesso di notte (..) in un assoluta apertura del corpo e dell’anima’).[44]
‘L’ho scritta tutta d’un fiato nella notte dal 22 al 2, dalle dieci di sera alle sei del mattino.(….) Come ogni cosa può essere detta, come, per tutte le idee che vengono in mente, per le idee più strane, è già preparato un gran fuoco, in cui esse scompaiono e rinascono’
Le sue parole oscillano tra il rifiuto e la sensazione di indegnità nel portare proprio cognome. Si mette nella posizione del diseredato intenzionale, che volutamente rinuncia a portare un cognome, ma ne accusa poi pesanti contraccolpi, costretto a reperire un mantello che copra la nudità lasciata dall’abito che non ha voluto indossare. Dalle sue parole sembra quasi che nel cognome Kafka funzione e sostanza siano fuse.
Quel nome è una gualdrappa talmente spessa che rinunciarvi significa quasi rifiutare l’esistenza stessa, la vita.
Quello che K opera è infatti un vero cambio di pelle, un radicale viraggio generazionale, imbocca un sentiero che, pur originando dalla strada maestra, ne segna un irrimediabile punto di discontinuità. Più che una distacco, quello che K sembra cercare è un salto generazionale.
Se fosse una lumaca, direi che cerca di fare a meno del guscio col quale la madre lo ha fatto nascere. Se fosse un animale lo accosterei a quelle creature marine che, al tempo preistorico, decisero di camminare sulla terra ferma.
I suoi sforzi tendono a realizzare un salto di più generazioni condensato nella vita di un unico figlio.
Il figlio del notaio che si guadangna da vivere suonando la chitarra classica, provenendo da una stirpe di notabili, paga lo stesso prezzo.
È forse il nipote, o almeno il pronipote, che riesce a costituire un campo di interesse davvero ‘altro’ rispetto al progenitore.
E lo fa senza pagare il prezzo che dovrebbe pagare il figlio, intriso, incollato, ancora legato al S1 paterno come alla propria pelle, tanto da rendere indistinguibile la cute dell’uno da quella dell’altro.
Staccarsi via violentemente quando il significante paterno è ancora così potente, imperante, quando ancora è dominus nella sua epoca, determina molte conseguenze.
Mi vengono in mente tanti esempi tratti dalla clinica. L’ultimo discendente di una stirpe di militari che hanno tutti frequentato l’accademia militare di Modena, ha pagato con una miriade di disturbi di conversione il suo ‘ no’ alla carriera militare.
Nella scansione generazionale: colonnello-
                                                                      colonnello-
                                                                      capitano-
                                                          colonnello- …
 
Lui ha osato introdurre un pittore ( e con quali doti, ritrovandosi con una galleria personale a soli 26 anni), ma lo ha fatto pagando sulla sua pelle un distacco che avrebbe dovuto essere diluito in almeno due generazioni.
E ha pagato, come K, soffrendo psichicamente e faticando nel ritagliarsi un posto. Scontrandosi con le ire paterne, trovandosi ad occupare il posto della blatta nei confronti della famiglia intera. Scrive K: ‘ Poiché non ero sicuro di nulla e ad ogni istante avevo bisogno di una nuova conferma della mia esistenza, e poiché nulla era in mio possesso, un possesso certo, determinato da me solo, anche la realtà a me più vicina, il mio corpo, finì per divenire incerta: crebbi troppo in altezza, (..) apprensioni per la digestione, la caduta dei capelli.(….) le spalle si piegarono  […] e rimasi debole.  […]Finii per sputare sangue dai polmoni.’[45]
 
Nella stessa ottica possiamo inquadrare la sua carriera universitaria.
K iniziò diverse facoltà, senza entusiasmo.
Dal modo col quale ne scrive paiono abbozzi di ricerca di una strada propria, il tentativo di costruire una sua posizione fondata su una qualche competenza. L’aspettativa paterna sembra essere limitata al diploma.
‘Poi si andò avanti sino alla maturità  […] quindi tutto finì. Adesso ero libero.’
‘ Piccoli tentativi diversi, due settimane a chimica, un semestre di tedesco.  […]La scelta più ovvia fu giurisprudenza. MI iscrissi dunque a giurisprudenza. (..)mi nutrivo spiritualmente della segatura già masticata da mille altre bocche’[46]
 Tentativi di dare forma al proprio desiderio, svogliati, ripetuti, privi di una reale spinta, palliativi della scrittura.
 
 Ma il vero banco di prova, segno di una incapacità a ricoprire quel ruolo di uomo, di ‘erede’ del cognome K, fu il matrimonio. O meglio il fallimento dell’esperienza matrimoniale. Sposarsi come prova decisiva di una separazione; avere una famiglia ed essere padre al di la del padre.
‘ Sposarsi, fondare una famiglia, accettare tutti i figli che possano giungere, provvedere a loro in questo mondo così poco sicuro, dar loro anche qualche direttiva, questo è il traguardo più alto, ne sono convinto, cui può arrivare un uomo’[47] ecco quale era il suo pensiero. Pensiero che non troverà mai attuazione.
Una prova che lui non riesce a superare perché sprovvisto di quel dono che dal padre non è mai arrivato. Il ‘ come si fa’ resterà per sempre un enigma nei suoi incontri con le donne, inetto ad affrontare il discorso amoroso e il desiderio femminile. Chi visita il museo praghese a lui dedicato, rimane colpito dalle immagini e dalle lettere delle donne che lui ha lasciato passare nella sua vita, senza mai riuscire a formare un vero legame.
Si tratta di un limite avvertito da K, che sente in sé ‘ la debolezza, la mancanza di fiducia in me stesso, il senso di colpa ( elementi che) hanno innalzato un autentica barriera tra me e il matrimonio[48]  
Una sensazione, quella che avvolge K, di stare per incamminarsi in una strada non sua, per la quale non è attrezzato, un traguardo comune per gli uomini, ma a lui alieno.
Egli, col senno di poi, avverte che il matrimonio, idealizzato come una delle massime realizzazioni aspirazioni alle quali può giungere un uomo, altri non è che un significante comune. Un traguardo non particolare, ma un condiviso attracco al quale si deve arrivare se si nasce e vive in una determinata società. K svuota il matrimonio di ogni particolarità soggettiva.
Egli manca di uno strumento proprio col quale possa davvero ricoprire quella funzione di uomo accanto a una donna, padre dei figli.
K paga in tal modo l’inadeguatezza dell’insegnamento paterno, dispensatore, a suo dire, solo di una parvenza di educazione, di consigli meschini utili solo a evitare contagi o paternità indesiderate, vissuti da K non come lezioni di vita, quanto piuttosto indicazioni fatte dal padre pro domo sua, col fine ultimo di preservare intatto l’onore del suo cognome : ‘ tu mi consigliavi, secondo tua opinione, la cosa più sporca che esistesse. La tua preoccupazione perché io non portassi a casa i segni di questo sporco sul mio corpo, era secondaria, rappresentava solo un tentativo di proteggere te, la tua casa’[49]
Se al mondo ci fossimo stai solo noi due  […], la purezza del mondo sarebbe finita con te, e con me sarebbe cominciata la sporcizia’.
 
 Dice del padre ‘tu avevi sempre represso ( inconsciamente) la mia capacità di decidere. (..) Un’intenzione ( quella di uscire di casa sposandosi) che tu approvi, ma nella realtà accade poi come in quel gioco infantile in cui uno prende la mano dell’altro, la tiene stretta e continua a dire ‘Ma vattene, perché non te ne vai?’  […] senza saperlo mi hai sempre tenuto stretto, o meglio, tenuto soggiogato, solo grazie alla forza del tuo carattere’[50].
‘ Per mantenere una famiglia, occorre necessariamente tutto ciò che io ho individuato in te(..)di tutto ciò, fatti i confronti, non ritrovavo in me niente, o molto poco’[51]
Qua c’è tutto. Il tentativo di allontanarsi dalla sfera paterna, il chiamare a raccolta strumenti che non si possiedono, che appartengono esclusivamente al padre, e la cui mancanza fa franare di colpo il tentativo matrimoniale. Un nulla che viene laddove qualcosa dovrebbe sorgere.
Che lo si voglia o meno, anche quando si cerca di fare una scelta di vita autonoma, si resta vincolati alla sfera d’influenza dell’Altro.
Esiste un ‘ al di là’ del padre che è una chimera. Visibile, ma irrealizzabile. Una sorta di terra promessa non oltrepassabile : ‘ (il matrimonio è ) una meta che tu hai raggiunto, e quindi saremmo alla pari  […]ma proprio qua sta la radice del problema. È una meta troppo alta. Così in alto non si può arrivare’[52] Il matrimonio è un significante che offre una finta realizzazione di indipendenza, in quanto rientra comunque nell’ottica degli oggetti forniti dalla bottega del padre, rappresenta ciò che secondo il modo di essere del padre è una realizzazione. È un finto strumento di indipendenza. Significa uscire dai confini natii, continuando però a spendere oltre confine la moneta stampata dalla madre patria. È un cordone ombelicale. È in tutto simile al governo fantoccio  instaurato dai Sovietici a Praga dopo la deposizione di DubcheK Dava al popolo e al mondo una parvenza di autogoverno, ma era una diretta emanazione del potere di Mosca.
Per differenziarsi ci vuole un significante nuovo, non raccolto dal giardino paterno: ‘Se voglio liberarmi dal rapporto particolarmente infelice che ho con te, devo intraprendere qualcosa che tronchi il più nettamente possibile ogni legame; il matrimonio sarebbe la soluzione ottimale (..) ma al tempo stesso è troppo strettamente legato a te’[53]
‘ Quel legame mi preclude il matrimonio, perché rimane un tuo ambito esclusivo. (..) È come se nella mia vita potessi prendere in considerazione solo le zone che tu non copri o che sono fuori dalla tua portata.’
Ci vuole insoma uno scisma, una rottura alla Dubchek, uno strappo come quello di Martin Lutero, per il quale il giovena K non aveva la forza necessaria.
La vicenda di K ricorda molto le sorti dei paesi ex satelliti dell’Unione Sovietica all’interno del patto di Varsavia.
Il concetto di sovranità limitata gli si addice e gli calza a pennello.
In quel perioso era concesso a quei paesi agire, ma sempre e solo in riferimento all’Altro che forniva le linee guida. Il distacco era reso impossibile, come qualsiasi tentativo di autonomizzazione. Pena, i carri armati.
Quando l’Urss è caduta, molti di questi paesi, che anelavano a distaccarsi, non ce l’hanno fatta. Eccezzion fatta per i paesi Baltici, che preesistevano con storia e cultura proprie all’ inglobamento Sovietico in termini di struttura statale e organizzativa, alcuni sono franati nel tentativo di compiere i primi passi, altri ce l’hanno fatta.
Paesi come la Bieloriussia, la Moldova, non hanno trovato dentro al loro sistema lo strumento per vivere di vita autonoma, e sono franati all’appuntamento con la storia. Non sono riusciti che a riproporre un modello simil – sovietico, mutuato da un Altro talmente grande, incombente, asfissiante, da non aver permesso la creazione di un modello proprio. Altri paesi invece hanno aderito in maniera subitanea e priva di mediazioni ad una logica di sviluppo incentrata sul capitalismo selvaggio.
K avverte in se questa mancanza, avverte di essere sprovvisto, sguarnito di fronte a questa scelta decisiva nella vita : ‘ Perché dunque non mi sono sposato? L’ostacolo di fondo era la mia dichiarata inabilità spirituale al matrimonio. Lo dimostra il fatto ch e dal momento in cui decido di sposarmi non riesco più a dormire, ho la testa in fiamme, non vivo più, giro disperato.
Angoscia dunque, ecco che K ne parla direttamente. E conferma, da parte sua, che si tratta di un affetto frutto di un reale che sfugge al simbolico, un qualcosa che non si riesce a inquadrare, a tenere sotto controllo. Un incombenza di reale che manca del di libretto di istruzioni. L’angoscia scaturisce dal confronto immediato con un elemento, il matrimonio, per il quale K, si trova sprovvisto e spiazzato.
Cosa è questo matrimonio? Come si fa ad accedervi? L’unica cosa certa che K sa, e lo sa bene, e di non esser capace di affrontarlo, di inquadrarlo.
Georges Bataille ribalta la chiave di lettura dell’incapacità a svestire i panni del padre, scorgendo una netta volontà di K stesso di non portare a termine questo affrancamento. Dice infatti : ‘Non soltanto egli doveva essere riconosciuto dall’autorità meno capace di riconoscerlo, ma non ebbe mai l’intenzione di abbattere questa autorità. Egli non volle opporsi a questo padre che gli toglieva la possibilità di vivere. ‘ Quando ero ancora soddisfatto, volevo essere insoddisfatto, e con tutti i mezzi disponibili cercavo di immergermi nella insoffisfazione’  
  
 Tratto da 'Il posto del panico, il tempo dell'angoscia.Frattura e ricomposizone del legame sociale. '. Ed. Del Cerro. Pisa.


[1] F.Kafka, ‘Il Castello’, Oscar Mondadori, Milano 1991, commento in retrocopertina.
[2] F. Kafka, Lettera al padre, p. 12, op. cit.
[3] Ivi, p. 14
[4] Ivi, p. 10
[5] Ivi,
[6] Ivi, p. 11
[7] Ivi, p. 11
[8] Ivi, p. 11
[9] Ivi, p. 12
[10] Il riferimento è al Seminario V. Le formazioni dell’inconscio ( Le séminaire V. Les formations de l’incosicent), nella
 sua traduzione in italiano ad uso didattico interno dell’Antenna del Campo freudiano di Venezia, A.A. 2000- 2001.
[11] Ivi, cap. X.
[12] Ivi, cap. X.
[13] Ivi, cap. X.
[14] Ivi, cap. X.
[15] Ivi, cap. X.
[16] Ivi, cap. X.
[17] Ivi, cap. X.
 
[19] F. Kafka, Lettera al padre, p. 19, op. cit.
[20] Ivi, p. 19
[21] Ivi, p. 20
[22] Ivi, p. 20
[23] ‘Ma che è stato condannato, almeno questo lo sa?’ ‘Neanche questo’ disse l’ufficiale […]. Qui nella colonia penale, io ho le funzioni di giudice […]. Il principio in base al quale decido è:la colpa è sempre indubbia’. F. Kafka, ‘ Nella colonia penale’, in ‘La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita’, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2000, p. 129
[24] J. A. Miller, ‘Teoria del capriccio’, in ‘L’osso di un’analisi’, p. 71, op. cit..
[25] F. Kafka, ‘Lettera al Padre’, p. 14, op. cit.
[26] Ivi, p. 23
[27] Ivi, p. 25
[28] Ivi, p. 26
[29] Primo Levi, ‘Se questo è un uomo’, Einaudi, Torino 1976.
[30] F Kafka ‘Nella colonia penale’, in ‘Franza Kafka. La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, p.  , op. cit
[31] Ivi, p. 129
[32] F Kafka, Lettera al padre, p. 20, op. cit.
[33] Ivi, pp. 14-15
[34] Ivi, p. 16
[35] Ivi, p. 17
[36] Ivi, p. 17
[37] pg 22
 
[38] pg 27
 
[39] pg 29
 
[40] Cfr il commento di Bataille in Franz Kafka, ‘Lettera al Padre’, cit.
[41] Jacques Lacan, Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psiconalisi, Einaudi, Torino
 1999,p. 253
[42] pg 50
 
[43] pg 50
 
[44] Dal diario
[45] pg 52
 
[46] pg 55
 
[47] pg 57
 
[48] pg 56
 
[49] pg 59
 
[50] pg 63
 
[51] pg 67
 
[52] 64
 
[53] pg 64
 


[i] Pg 17

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