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IL PECCATO ORIGINALE DELLA PSICOANALISI

11 Ott 14

A cura di Gianni Guasto

"Nell'estate del 1897 (…) Freud dette inizio alla sua più eroica impresa – un'analisi del proprio inconscio. Oggigiorno per noi è difficile renderci conto dell'importanza di questa conquista, come del resto avviene per la maggior parte delle imprese pionieristiche. Rimane però il fatto che si tratta di un'impresa unica: una volta compiuta, è compiuta per sempre, perché nessuno può essere di nuovo il primo a esplorare quelle profondità".

(E. Jones, Vita e Opere di Freud, Il Saggiatore, Vol. I, cap. XIV)

"Senza dubbio Lei è il solo che possa fare a meno dell'analista. (…) Nonostante tutte le carenze dell'autoanalisi (che sicuramente è più noiosa e ardua dell'essere analizzati) dobbiamo confidare che Lei sia in grado di padroneggiare i suoi sintomi. (…) Se Lei ha avuto la forza di superare dentro di sé senza guida alcuna (per la prima volta nella storia dell'umanità) le resistenze che l'intero genere umano oppone ai risultati analitici, noi dobbiamo confidare che Lei abbia la forza di risolvere anche i sintomi di secondaria importanza. I fatti ne danno decisamente conferma"

(Ferenczi a Freud, 26 dicembre 1912)

 

Il peccato originale della psicoanalisi è stato quello di credere in Dio: un dio barbuto, i cui doni divini furono la Creazione e l'Onniscienza (accanto ad essi ve ne furono altri, molto umani e di vitale importanza).

Questo credo, reso obbligatorio attraverso l'iniziazione sacerdotale cui ogni analista si sottopone, è un lascito che si trasmette di generazione in generazione, in obbedienza a quello che Jurgen Reeder chiama "The Superego Institutional Complex" ("Love and Hate in Psychoanalytical Institutions. The Dilemma of a Profession", Other Press, New York 2004), e che finisce per costituire un fardello la cui sopportazione richiede il sacrificio della creatività e della libertà di pensiero.

Un lascito che è anche una malattia mentale, che può essere affrontata con mezzi umani oppure divini.

Se si ricorre agli strumenti divini, allora non c'è che da proclamare ex cathedra l'infallibilità dell'analista, e assumerne le conseguenze. In questo caso, se la realtà stride con il Verbo, allora la la realtà ha torto: perché essa discende da Dio. Pertanto nessuna scienza né alcuna autocoscienza potranno esistere che non siano fondate sulla Fede.

Nel caso in cui la realtà (interna o esterna) debba essere indagata con mezzi umani, allora non ci sarà che da assumere programmaticamente l'errore dell'analista come uno dei nodi da sciogliere.

Tale impresa può essere esaltante, a patto di essere condotta con la collaborazione dell'analizzando.

Essa ha certamente il difetto di deludere troppo precocemente l'aspettativa magica e onnipotente di quei pazienti che affrontano l'analisi come si affronterebbe un intervento chirurgico, nel quale si mette la propria vita nelle mani di un altro augurandosi (o credendo fortemente) che sia infallibile.

Essa però avrà il supremo vantaggio di impedire che ogni comunicazione dell'analista, sia essa un'interpretazione verbale o un comportamento, venga introiettata passivamente anche quando risulti indigesta al contatto che si percepisce nella relazione reale. Perché tale assunzione sarà resa inelaborabile perché ignorata dall'analista e resa inaccessibile alla coscienza propria e altrui dall'analizzando.

L'altro grande vantaggio costituito da un atteggiamento criticamente vigile e improntato a onesta umiltà da parte dell'analista, sarà quello di rendersi indisponibile come oggetto di culto sul quale si possa o si debba costruire una religione idolatrica fondata sulla sottomissione. Ciò avrà per conseguenza il fatto che i nostri pazienti, al pari dei figli, considereranno non solo possibile ma anche naturale succederci e quindi superarci.

La nostra specie si perpetua attraverso le generazioni, e il nostro desiderio maturo è che esista il progresso. Ciò implica che il superamento dei padri da parte dei figli sia una necessità da favorire più che generosamente, e la considerazione che il complesso di Laio sia una condizione non particolarmente favorevole al progresso dell'Umanità.

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