di Leonardo Angelini e Deliana Bertani
(da: "L'adolescenza nell'epoca della globalizzazione", Unicopli, Mi., 2005)
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Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
quale allor ci apparia
la vita umana e il fato
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Premessa
Secondo Propp nelle fiabe l’eroe o l’eroina sono coloro che, a partire da una situazione di penuria, volenti o nolenti (eroe cercatore o vittima), si muovono per compiere un’impresa; ed alla fine, dopo avere superato mille ostacoli, vengono ricompensati o attraverso lo sposalizio con ‘il personaggio cercato’ (la principessa o il principe) oppure attraverso il riconoscimento del valore della loro impresa e l’assunzione di nuove sembianze. Bettelheim, in base ad una analisi simile in termini strutturali a quella di Propp, distingue fra fiabe a sfondo transferale e fiabe volte alla integrazione e all’arricchimento del Sè e ci esorta a considerare la duplice funzione terapeutica che ha per noi l’illustrazione della figura dell’eroe, il racconto delle sue gesta, il fatto che ogni cultura senta il bisogno di tramandare alla generazione successiva il canovaccio di ogni racconto fiabesco: – sul piano individuale attraverso l’identificazione dell’udienza con l’eroe; – sul piano culturale attraverso un opera di adattamento di questi canovacci universali alle esigenze particolari e storiche di una determinata società.
Insomma la fiaba, questa parente povera del mito – come il più nobile cugino portatrice di esigenze universali e come il mito capace di flessibili adattamenti alle più particolari esigenze delle proprie mutevoli udienze – ci suggerisce che l’introiezione della figura dell’eroe, l’istituzione dell’eroe dentro ogni individuo è importante sia dal punto di vista ontogenetico che filogenetico. Ed è al mondo delle fiabe, più che all’universo interpretativo junghiano, che abbiamo pensato allorché abbiamo formulato il titolo di questa nostra relazione: al mondo delle fiabe che ci suggerisce che non solo il figlio di un re, ma ciascuno di noi ha bisogno di farsi eroe e di compiere delle imprese se alla fine vuol sentirsi adulto, ciascuno di noi deve essere posto nella condizione di vedere nascere e crescere dentro di sè un personaggio eroico, un Ideale dell’Io capace di infondere in noi speranza e senso della misura nella definizione del progetto, impeto e moderazione nella realizzazione di noi stessi.
L’adolescenza è il momento della vita in cui l’Ideale dell’Io, il personaggio eroico che è dentro di noi si espande, riempie i nostri cuori ‘di pensieri soavi e di speranze’ e, per un insieme di cause che cercheremo di spiegare in itinere, non trova eccessivi ostacoli sul cammino dell’illusione, che può espandersi in progetti megalomanici che solo in un secondo tempo, una volta raggiunta l’età adulta, saranno temperati e messi con i piedi per terra dalla gravosità e dalla materialità della responsabilità.
Fine della nostra relazione è quello di compiere una specie di viaggio che si articolerà in quattro tappe. Le prime tre ci permetteranno di vedere come nasce e si trasforma dentro di noi il personaggio eroico prima, durante e dopo l’adolescenza; la quarta consisterà in un tentativo di analisi di ciò che accade oggi al giovane adulto precario, e perciò ancora figlio, al di là di ogni attestazione di stato adulto, ‘per sempre’ studente, al di là do ogni traguardo formativo raggiunto.
Dal narcisismo primario agli esordi dell’Ideale dell’Io
La vita intrauterina è caratterizzata dalla permanenza del neonato in uno stato di perfetta autosufficienza narcisistica in base alla quale i suoi bisogni sono soddisfatti immediatamente e pienamente dal corpo materno, che esercita un’opera altrettanto onnipotente nei confronti delle sue esigenze di contenimento e di tutela. Nelle prime settimane dopo la nascita la tendenza, come sottolinea la Mahler, è quella a mantenere un equilibrio omeostatico che si apparenta molto da vicino a quel perfetto stato di equilibrio e di assenza di qualsiasi tensione presente nella vita intrauterina. E’ l’ambiente, l’oggetto primario, la madre o chi ne fa le veci che si preoccupa all’inizio di lasciare il bambino in questo stato di illusione che è anche stato di perfetta unione con il ‘mondo’, riassunto ai suoi occhi nel corpo e nelle cure materne.
Ben presto però questa tendenza regressiva a conservare lo stato di perfezione narcisistica, caratteristico della vita intrauterina, è contraddetta e viene messa in crisi da un insieme di eventi ineludibili: i risvegli e i pianti provocati dalla fame, dai rumori, dalla luce, dal freddo, dal suo essere bagnato, etc., ingenerano infatti ben presto un ‘dialogo tonico’ con la madre che non può che rimandargli indietro la sua ormai relativa capacità di rispondere ai suoi bisogni dato che essa, per quanto sollecita, non può più soddisfare immediatamente e onnipotentemente i suoi bisogni come accadeva allorché egli era nel suo ventre. Da ciò discende per il bambino l’esperienza della frustrazione che, se le cose vanno sufficientemente bene, lungi dal risolversi nella sua rovina, è all’origine di quella tendenza progressiva, in base alla quale il neonato esce dallo stato di omeostasi e di autismo normale e di simbiosi per entrare in un rapporto nuovo, più attivo col mondo.
Attraverso questo percorso e con un piede sul pedale del freno dell’illusione e l’altro su quello dell’acceleratore della disillusione, il neonato, sotto la scuola guida di una madre sufficientemente buona, capace di insegnargli a pigiare (ma non troppo) ora l’uno ora l’altro pedale, sarà in grado di andare per il mondo imparando ad integrare dentro di sè, o a riporre nel pozzo profondo delle sue rimozioni tutto ciò che va integrato e rimosso.
Le cose sarebbero più semplici se l’uomo fosse un animale nidifugo (Bernfeld) e se non ci fosse il problema della cosiddetta “prematurazione umana” (Chasseguet Smirgel) in base alla quale il cucciolo dell’uomo, prima di poter raggiungere la maturità, l’indipendenza e l’autonomia ha bisogno di un nido[1] in cui per un lungo periodo di tempo possa sentirsi protetto e di entità genitoriali che, per tutto il tempo necessario, lo sostengano, gli insegnino con l’esempio ad andare da solo per il mondo, lo autorizzino a sperimentarsi nell’affrontare con coraggio le esigenze connesse con le varie tappe del suo processo maturativo.
Laufer ha descritto con efficacia lo specifico percorso fatto di proiezioni, di introiezioni e di integrazione dentro di sè attraverso il quale si forma e si trasforma l’Ideale dell’Io nel bambino, da lui visto essenzialmente come l’intersecarsi di tre grandi flussi di idealizzazione: quella che va dai genitori verso il bambino, quella che va dal bambino stesso verso di loro ed infine quella che dal bambino va verso il suo stesso Sè.
L’Ideale dell’Io, che così si va strutturando dentro al bambino, prende dinamicamente posto nel suo mondo interno, nel suo teatro rappresentazionale (Sandler, Rosenblatt) che – come sappiamo – a sua volta è frutto delle più ampie proiezioni che su di lui fanno tutte le entità parziali e totali, a partire da quelle genitoriali, con le quali egli entra in contatto mano a mano che cresce ed esperisce il mondo, nonché della natura e della qualità dei suoi propri introietti. Ed è qui, in questa foresta degli introietti, che diventa via via più intricata man mano che il bambino cresce, che l’Ideale dell’Io prende a rimodellarsi insieme ed in rapporto alle altre istanze interne.
Nasce quindi come erede del narcisismo primario, e si rimodella in continuazione in base ad una duplice spinta: da una parte quella regressivamente derivante dalla nostalgia per lo stato di perfezione assoluta che c’era ai tempi della simbiosi (e ancora di più dell’omeostasi, e ancora di più della vita intrauterina); dall’altra quella che proviene progressivamente dalle conquiste, e dalle ricompense che, in base al raggiungimento di quelle conquiste, vengono dai genitori e dall’ambiente. Laddove un indulgere troppo sulle vecchie conquiste o la presenza di entità genitoriali che autorizzano una tale indulgenza significherebbe una rinuncia alla crescita ed il permanere uno stato di fissazione; ed al contrario un procedere in una situazione di carenza di investimenti provenienti dalle entità genitoriali implicherebbe il rischio di non riuscire ad elaborare il nuovo ed alla fine soccombere.
A ben vedere, come diceva lo stesso Freud e come sottolineano tutti gli studiosi di questa istanza psichica, nelle varie figure che assume l’Ideale dell’Io lungo il suo processo di crescita e di modellamento è sempre implicita quella che fu la sua prima immagine: quella della perfetta fusione con la madre arcaica. Per cui, forzando l’immagine freudiana, potremmo dire con la Chasseguet Smirgel che ogni volta, per l’uomo, trovare l’oggetto ideale “in realtà significa ritrovarlo” e riscoprire sempre in quello attuale le vestigia di quello originario.
Ciò non ci esime da una disamina del suo processo evolutivo che faremo sulle tracce delle riflessioni della Chasseguet che postula per ogni tappa dello sviluppo una rinuncia cui corrisponde, se le cose vanno sufficientemente bene, una conquista che modifica l’Ideale dell’Io e lo attrezza a fare la sua parte nell’affrontare i problemi fasespecifici.
La perdita, nella fase orale, è quella del seno cui corrisponde la valorizzazione dell’autonomia orale, nella fase anale e fallica rispettivamente quella della passività e della bisessualità cui corrispondono da una parte la padronanza attiva e la fierezza, dall’altra l’esaltazione del proprio sesso e la valorizzazione della curiosità e della conoscenza. E sul finire della seconda infanzia nella scena edipica la perdita, per il maschietto, sarà quella della propria madre edipica, la compensazione quella della assunzione del padre come suo ideale che – non oggi ma domani (in base alla prematurazione) – gli permetterà di conquistare la madre, o una sua sostituta, e realizzare il sogno di riunione simbiotica con lei. Per la femminuccia, invece, secondo la Chasseguet, le fantasie edipiche incestuose non realizzano, ipso facto, un ritorno alla fusione originaria che viene raggiunta piuttosto attraverso il desiderio di maternità che permette alla bambina, nello stesso tempo, la realizzazione del desiderio di possedere anche lei ciò che possiede la madre onnipotente, e la ricostruzione dell’unità originaria madre – bambino in termini rovesciati.
In latenza le pulsioni sublimate in precedenza sulla base dell’esempio derivante dagli aspetti ideali genitoriali introiettati, e cioè l’epistemofilia, la tendenza a costruire, a sperimentare autonomamente il mondo etc., insomma tutto quanto è stato capitalizzato in prima e seconda infanzia nell’Ideale dell’Io in base al rapporto con i genitori trova nella scuola e nell’ambiente secondario una possibilità di vedersi confermato, solidificato, esteso o disconfermato, impoverito, rinsecchito dai sostituti genitoriali.
Naturalmente quei bambini che, per l’assenza o la scarsa consistenza delle imago genitoriali, non hanno potuto introiettare finora un Ideale dell’Io sufficientemente stabile dentro di sè non hanno la possibilità in latenza di fare alcun tipo di confrontazione e di espansione. Ed anzi, di fronte al compito che l’appartenenza al gruppo secondario impone (ad es.: la condizione di alunno), ed in rapporto ad imago ideali quali i maestri che presiedono alla valutazione di ciò che nel gruppo secondario si produce, questo tipo di bambini si troverà fortemente in difficoltà, e non per un ritardo sul piano intellettivo, ma perché i problemi emozionali, in assenza o in carenza di introietti che spingono verso la sublimazione, non possono che essere affrontati sotto il segno dell’impulsività che prenderà, a seconda dei casi, i colori delle istanze pre-edipiche sulle quali ci si è dovuti fissare.
Molteplici funzioni degli ideali megalomanici adolescenziali
La crisi puberale, con le sue eruzioni di materiale lavico incandescente sia sul versante libidico che su quello aggressivo, porta il preadolescente, sulle tracce mnestiche dei vecchi legami di amore e di odio, ad un riavvicinamento emozionale alle figure genitoriali che però non possono essere direttamente investite dal magma poiché il tabù dell’incesto preclude opportunamente la via endogamica e mostra al preadolescente il cammino che lo condurrà ben presto, anche se spesso a fatica, verso la scelta esogamica.
Nelle società semplici, come è stato fatto notare da più parti, la riduzione dell’adolescenza alle cerimonie rituali che immettono il giovane velocemente nell’età adulta provocano l’emergere di un modello di maturità molto diverso dal nostro. A proposito delle diverse modalità culturali attraverso le quali venire a capo dei problemi innescati dai mutamenti puberali afferma Winnicott:
“Tra i popoli primitivi questi mutamenti vengono celati sotto dei tabù oppure l’adolescente viene fatto adulto nello spazio di poche settimane o mesi dopo essere passato attraverso determinati riti e aver superato certe prove. Nella società attuale il passaggio dall’adolescenza alla maturità avviene attraverso processi naturali di crescita, di sviluppo e di maturazione psichica e fisica; e questo non può che significare che i nuovi adulti di oggi hanno forza, equilibrio e maturità.
Naturalmente bisogna pagare un prezzo per questi vantaggi. Le frequenti depressioni adolescenziali richiedono tolleranza e cure, ed inoltre questo processo provoca delle tensioni nella società perchè è stressante per gli adulti, che sono stati defraudati dell’adolescenza, osservare tutt’intorno a loro ragazzi e ragazze che vivono pienamente ed in florido stato questa fase della vita”
Fra i marchingegni psichici che l’adolescente delle società complesse come la nostra deve costruire nel suo lungo percorso che lo porterà dalla palestra adolescenziale in cui comincia a sperimentarsi come adulto, fino all’acquisizione nel tempo di forza, equilibrio e maturità, vi è la elaborazione di oggetti ideali megalomanici che assolvono ad una molteplice funzione.
Intanto, come dice Winnicott, la prolungata permanenza in quest’Isola che non c’è in cui, nell’attesa di un cambiamento che si compirà pienamente solo in un domani che appare lontanissimo e sbiadito nei suoi reali contorni, spinge l’adolescente a ampliare ad libitum i confini temporali di quest'età fino a definirla come il regno dell’immortalità.
In secondo luogo il penoso, ma necessario allontanamento dalle imago genitoriali implica una perdita che ingenera confusione ed angoscia e che richiede una elaborazione attraverso un particolare tipo di lavoro del lutto che, di fronte alla impossibilità di investire dentro casa ed in base alla constatazione di non essere ancora pronti e maturi per investire fuori, fra le altre cose, deve costruire un oggetto ideale megalomanico che permetta al giovane di sentirsi realizzato:
– anche in assenza di un vero oggetto esogamico (è ciò che avviene nella masturbazione adolescenziale);
– – anche in carenza di prove di realtà che possano confermare le proprie illusioni, anche in comunione con altri soggetti, portatori di ideologie gruppali che lo aiutino a definire una nuova identità, ma nel far questo richiedono, specie all’inizio, una adesione che è una scommessa che solo alla fine del percorso si rivelerà per quello che è sul piano di verità per il soggetto.
Tutto ciò vuol dire che il personaggio eroico adolescenziale esercita un insieme di funzioni difensive che, finché è possibile, permettono al ragazzo e al giovane di proseguire per la strada della crescita senza grossi traumi; quando non funzionano più, come dice Winnicott, “richiedono tolleranza e cure” soprattutto allorché ad uno scacco su questo piano corrispondono più ampi conflitti che, “se non risolti in profondità porteranno il più dello volte ad un adattamento forse non patologico, ma al prezzo di una vera e propria amputazione delle potenzialità del soggetto” (Jeammet).
Il personaggio eroico, come abbiamo già intravisto:
– permette all’adolescente di mantenersi in uno stato di illusione circa l’ambito delle proprie potenzialità e di esimersi da un confronto con l’istanza superegoica che imporrebbe, troppo pericolosamente per ora, il riconoscimento della castrazione, cioè dei propri limiti;
– nella ricerca di un legame con l’oggetto d’amore esogamico, gli consente di immaginarsi capace di ogni impresa, e ciò all’inizio vale a dire fino all’impresa assurda di innamorarsi di oggetti d’amore irraggiungibili ad es. perché già morti (la Chasseguet parla del legame d’amore con personaggi quali James Dean);
– gli permette non solo di canalizzare nella masturbazione molte componenti pregenitali, ma di non sentirsi defraudato dall’assenza effettiva in essa dell’oggetto;
– gli consente di convogliare nei legami desessualizzati interni al gruppo di pari una parte delle componenti omosessuali che gli derivano dal legame col genitore dello stesso sesso e perciò di trovare, attraverso la sublimazione di queste istanze, la via per tenere in caldo sotto la cenere del gruppo, tutto il versante che proviene, nella sua formazione, dal genitore del suo stesso sesso (il che si rivelerà un importante giacimento in età adulta);
– di acquisire uno spessore che, se all’inizio è lo spessore che deriva dall’adesione all’ideologia del gruppo, alla fine, depurato da ogni parte che si sarà rivelata spuria e non autentica, diventerà una parte costitutiva del nucleo più vero della soggettività adulta; se per tutta l’adolescenza sarà avvolto dal sacro fuoco della certezza della sua attuazione, poi si acconcerà a più realistici e ‘socialdemocratici’ obiettivi;
– di abbattere i vecchi idoli, di sostituirli con dei nuovi e di innescare una polemica fra vecchio e nuovo che può avvenire in casa, presso i più eminenti rappresentanti della vecchia idealità, che, se le cose vanno sufficientemente bene, come il Capitan Uncino di Peter Pan, ingaggeranno una bella lotta con il nostro eroe mettendolo alla prova, confidando in segreto nel suo successo ed anzi saggiando con occhio non eccessivamente critico le sue bravate.
Speriamo risulti chiaro da quanto andiamo dicendo che la tematica fondamentale allorché, come in adolescenza, vige la legge dell’Ideale dell’Io non è quella della colpa, ma quella della vergogna. Il che testimonia la presenza sulla scena di un personaggio, che stiamo imparando a circoscrivere e a riconoscere – il personaggio eroico -, che non è detto debba essere più buono e caritatevole nei confronti delle nostre mancanze di quanto sia il Grande Giudice superegoico. Un personaggio che anzi, in base all’emergere di uno scacco sul piano della vergogna, può anche condurre il giovane alla più profonda depressione ed al suicidio, specie se, al suo fianco, presenta altri impietosi e severi personaggi che rendano il fallimento insopportabile, irreparabile e la situazione improvvisamente chiusa in una dimensione senza domani.
Ancora più grandi sono i pericoli se poi la forza devastante che può derivare da una troppo repentina disillusione proviene, come ci ricorda Jeammet, dalla “scoperta troppo brutale della ‘realtà’, soprattutto sessuale, dei genitori, o dei conflitti agiti fra loro, e della rottura di una coppia genitoriale, fino al quel momento idealizzata”, oppure dal “pericolo di certi incontri ed esperienze che, ‘rivelando’ all’adolescente piaceri e forme troppo crude di una realtà che non preserva più il velo di rimozione dell’ignoranza o dell’idealizzazione, lo confrontano (come i terrori notturni del bambino) con la crudezza dei suoi fantasmi e con uno slegamento pulsionale”, spingendo ad es. il giovane sulla via dell’agito.
Ed ugualmente pesanti sono le conseguenze allorché i vecchi idoli – lungi dall’incassare, lungi dall’accettare la loro decrescente influenza sul giovane – lo attaccano nel suo ideale, attaccano cioè il suo personaggio eroico, lo denigrano, lo mettono alla berlina e si impongono come istanze onnipotenti e ricattatorie poiché è come se con il loro operato dicessero al giovane che ogni cosa che fa o che pensa non ha valore e che l’unica salvezza per lui è continuare a vestire la casacca di famiglia, ad osannare i vecchi Lari, a innalzare osanna ai vecchi idoli. Inutile dire che tutto ciò risulta ancora più pesante se le cose non sono dette chiaramente ed anzi in casa impera l’atmosfera ambigua e anguillesca del doppio legame.
Al contrario, come ci suggeriscono Jeammet e Charmet, l’emergere di una figura terza in questo periodo della vita – sia essa rappresentata da un insegnante o da un allenatore, o da un terapeuta, o anche da un amico un po’ più grande e maturo – rappresenta un grande aiuto per il giovane.
Noi pensiamo che questo aiuto si esprima anche in quell’opera di levigamento, di modellamento del personaggio eroico adolescenziale che, come dice Jeammet, può essere espressa: – attraverso l’introduzione di limiti al desiderio dell’adolescente circoscrivendo l’ambito delle sue possibili conquiste, aiutandolo a compilare le prime provvisorie gerarchie nell’universo delle sue scelte; – attraverso un opera di ridimensionamento di noi stessi nel momento in cui entriamo in rapporto col lui di modo che egli sia messo nelle condizioni di comprendere che, come noi siamo relativamente potenti, così anch’egli può cominciare a sopportare la sua e la nostra relativa potenza e magari darsi da fare in prima persona per superarsi; – attraverso la scoperta insieme a lui di traguardi raggiungibili che lo impegnino e di fronte ai quali il terzo sia testimone delle sue conquiste.
In questo modo l’adolescenza ci appare come un enorme cantiere in cui l’Ideale dell’Io viene continuamente rimodellato in base a tutta una serie di mutevoli esigenze, e il personaggio eroico come un Fregoli che in continuazione deve cambiare le sue vesti ed interpretare varie parti pur rimanendo ‘se stesso nel cambiamento’.
Quest’opera di continuo rimodellamento ha una funzione difensiva, come abbiamo visto. Ma cosa succede se le cose non vanno bene?
Nell’opera di rimodellamento normale, qualunque sia la morfologia del personaggio eroico e la varietà delle sue trasformistiche mutazioni, dopo l’età dell’illusione verso la fine dell’adolescenza viene ripristinata la dialettica fra illusione e disillusione e si innesca il processo che porta dalla speranza al progetto, come dice la Chasseguet Smirgel, dall’Isola che non c’è al lavoro e alla responsabilità. E ciò può avvenire perché il rimodellamento della realtà per tutta l’adolescenza è avvenuto, almeno parzialmente, in base ad un rapporto non irrealistico fra illusione e possibilità di concretizzazione.
Ma, secondo Chan, vi sono varie possibilità di un rimodellamento patologico:
1. cosicché, nella nevrosi, il modellamento verrà fatto a spese della realtà e attraverso la fuga per timore che la realtà ponga il soggetto in rapporto con parti di sè non integrate;
2. nella perversione interverrà un’azione di diniego che comporterà una virata verso la delinquenza se la realtà per l’adolescente risulterà svalutata (site tutti stronzi) o la tossicomania se invece verranno denegati i pericoli insiti nella sfida alla realtà;
3. nella psicosi infine il rimodellamento va nella direzione del delirio che a Chan appare come un tentativo di difesa dalla realtà vissuta come troppo aggressiva, angosciante, confusa.
Ripristino delle funzioni superegoiche e nuova costruzione interna degli introietti all’esordio dell’età adulta
Se adolescenza significa “nutrirsi al fine di crescere”, la parola adulto, che ha la stessa radice etimologica di adolescenza, allude ad una nuova tappa della vita, quella propria di chi è “già nutrito”, di chi è già maturo.
E’ chiaro poi che il passaggio da una tappa all’altra, come ci ha insegnato Erikson, non avviene a scatti e che – come si era verificato nel momento del passaggio dalla latenza alla preadolescenza – occorre, oltre che all’allestimento di un processo di cerimonializzazione, anche che trascorra un lasso temporale che consenta al soggetto che sta diventando adulto di sopportare la perdita, di elaborala nel lutto e di adattarsi al nuovo, in modo che esso possa essere agglutinato e soggettivato.
Ciò in ultima istanza significa che per passare dallo stato di adolescente a quello di adulto c’è bisogno di tempo, e precisamente del tempo occorrente all’opera di assimilazione e di soggettivazione del nuovo e, potremmo dire, di superamento dialettico del vecchio, che non significa abbandono, ma reintegrazione di tutto quanto si è stati all’interno della nuova dimensione che si va acquisendo.
Questo lavoro di integrazione del vecchio nel nuovo all’esordio dell’età adulta – come sottolineano tutti gli adolescentologi d’impostazione psicoanalitica – è contraddistinto da un elemento fondamentale: il riemergere sulla scena del Super Io che era stato segregato ai margini della scena precedente poiché la dimensione della colpa e della castrazione avrebbero inibito la nascita e l’espansione dell’Ideale dell’Io megalomanico che così tanta importanza, come abbiamo appena visto, ha in adolescenza sul piano della definizione dell’apparato difensivo in questa età particolare in cui la non perfetta acquisizione dell’autonomia e della potenza ha bisogno di essere celata agli occhi di colui che “si sta nutrendo” per crescere.
Il terreno in cui ora comincia a sperimentarsi il giovane adulto è quello della responsabilità, derivante dall’accesso alla produttività e alla riproduttività che, lungi dall’essere circoscritta alle azioni biologiche atte a mettere al mondo un figlio, ora si lega alle funzioni sociali (e socialmente determinate) che provengono dall’esercizio della paternità e della maternità. E la responsabilità implica un necessario lavoro di ridimensionamento del soggetto in questa fase poiché si connette ad operazioni concrete sul mondo esterno, da condividere spesso con un insieme di coetanei e di soggetti più maturi.
Questo insieme di fattori per il soggetto che sta diventando adulto sono come un enorme vasca di fusione in cui il vecchio e il nuovo sotto sottoposti ad un processo di fusione al termine del quale la dimensione che il soggetto assume, se le cose vanno sufficientemente bene, è contraddistinta da un insieme di elementi abbastanza caratteristici.
Innanzitutto ciò che fino a qualche tempo fa apparteneva al regno della speranza ora comincia a virare e ad assumere la dimensione del progetto. E se la speranza poteva essere sospesa dal punto di vista spaziale in una specie di iperuranio fuori dal mondo (e cioè nella famosa Isola che non c’è), dal punto di vista temporale in un futuro indefinibile che a volte sembrava essere lì dietro l’angolo, più spesso collocarsi in un tempo vago e lontano, ora il progetto si impone con la materialità dei suoi luoghi e con la sua consequenzialità e chiarezza di tempi[2].
Se la speranza poteva anarchicamente e onnipotentemente essere piena di tutte le qualità e di ogni ben di dio da un punto di vista quantitativo, ora il lavoro, la prospettiva di andare da soli per il mondo, di metter su famiglia implicano l’acquisizione dell’attitudine alla rinuncia e al ri\dimensionamento e la comprensione che non si può diventare tutto ciò che avevamo pensato e sognato di essere, che anche ciò per cui ci eravamo formati e a cui ci sentivamo vocati si concretizza fino ad un certo punto, solo all’x per cento, non proprio in quello che era il nostro campo di elezione. E tuttavia sentiamo anche che, pur di fronte a questi rimaneggiamenti e ridimensionamenti del nostro ideale, solo il fatto di riuscire a rimanere nell’ambito dell’impegno e delle responsabilità ci dà delle soddisfazioni narcisistiche che non si poggiano più sull’ideale megalomanico, ma derivano dal sentirsi parte di un progetto concreto che si realizza in un luogo e in un tempo circoscritti all’interno dei quali piano piano cominciamo a sentirci a nostro agio.
L’ingresso in un gruppo di lavoro poi implica, da una parte, la possibilità di trovare in esso un contenitore che sia capace di supportare la nostra fresca identità adulta, con tutti i rischi e i vantaggi che provengono dall’appartenenza, dall’altra contribuisce all’opera di ricollocamento e ri\dimensionamento poiché, diversamente di quanto avviene nel regno della fantasia, in cui ogni bozza di progetto di dipana e si realizza senza alcun intoppo, senza alcuna mediazione, ora nel regno della realtà e della responsabilità condivisa tutto si inserisce all’interno di un campo di forze intersoggettivo e mai pienamente orizzontale in cui il fare impone l’assunzione della dimensione temporale della programmazione, intesa qui letteralmente come commisurazione del futuro in base alle mie e alle nostre azioni e previsioni.
E’ facile distinguere il lavorio dell’istanza superegoica in tutte queste assunzioni di responsabilità, in tutte queste rinunce e in questi ri\dimensionamenti che fanno irrompere, a fianco alla dimensione della vergogna, le istanze della colpa e della castrazione che ci impongono di porre in sequenza le idee, di gerarchizzare i progetti, di legarli fra di loro finché e possibile, ma soprattutto di adattarli dinamicamente alle occasioni che la vita ci offre[3].
Su questo piano la specificità del Super Io, le sue caratteristiche particolari, il fatto che non sia eccessivamente rigido nel definire le gerarchie all’interno dei progetti o eccessivamente disposto a tollerare che il giovane conviva con una folla di progetti mai messa in sequenza (sintomo del persistere di aspetti ideali megalomanici), il fatto che esso sia eccessivamente esigente sul paino della assunzione delle responsabilità oppure che autorizzi il giovane a rimanere, come un Peter Pan sempre più attempato e ridicolo, nell’Isola che non c’è del disimpegno, tutto ciò è il frutto della specificità del dialogo che a quest’età di determina fra Super io e altre istanze psichiche, a partire dal personaggio eroico.
Ed il fatto poi che la risoluzione di questi conflitti non vada verso il killeraggio del personaggio eroico, ma verso una sua nuova integrazione nel mondo interno risulta importantissimo allorché poi, sul nostro teatro rappresentazionale, emergeranno nuove storie e nuove imprese che imporranno ancora una volta la presenza di un ideale dell’Io capace di sostenere con ottimismo e con buona lena le avversità consci che dentro di noi qualcosa continua a spingerci “a egregie cose”, nonostante l’età e gli affanni. Esattamente come avviene in Picasso che, alle soglie degli ottant’anni, trova la forza per ispirarsi a Van Gogh e si mette nei suoi panni – proprio come fa un undicenne che si mette nei panni di Maradona – al fine di mantenere dentro di sé la comunione con un personaggio eroico che lo sostenga nell’ultimo tratto della sua produzione artistica.
Il giovane adulto nella realtà attuale del precariato e della globalizzazione
Nella realtà attuale della globalizzazione il precariato di massa ci viene imposto come una ovvia soluzione per salvare la società e soprattutto il PIL dalla rovina. Ed è indubbio che l’elemento di razionalità che è alla base dell’architettura politica ed economica che in questo frangente storico sorregge le nostre società non può essere messo in crisi da un discorso psicologico volto solo a mettere in luce i percorsi dell’ideale dell’Io in adolescenza e nella post-adolescenza.
Pur tuttavia ci preme dire qualcosa in proposito perché è pur vero che è soprattutto di giovani che si parla quando si esalta e si teorizza il precariato come soluzione di tutti i problemi. Così come è vero che il nuovo idolo della globalizzazione – cioè la speculazione transnazionale che sposta il lavoro là dove è più conveniente – impone quotidianamente l’immolarsi in tutto il mondo sui propri altari di legioni di giovani che, in questo modo, sono sottoposti a tutta una congerie di elementi stressanti e sconvolgenti per la psiche individuale che, come effetto di ricaduta, hanno un peso decisivo nella definizione di quel vero e proprio nuovo modello di ingresso nell’età adulta, di quella nuova definizione dei legami familiari, e – ciò che più ci preme in questa sede – di quella nuova definizione dell’Ideale dell’Io e del Super Io in questa età che noi ormai è sotto gli occhi di noi tutti, anche se pochi hanno l’ardire di parlarne dato che il Moloc della globalizzazione non ammette critiche su questo piano.
Ed è proprio su questo ancor nuovo, e però già preciso quadro, che vogliamo concentrare la parte finale del nostro ragionamento.
E viene da chiedersi innanzitutto come in questo quadro, in cui il corso degli studi si allunga indefinitamente e finisce spesso con una specie di balletto fra ingresso e uscita dal mercato del lavoro, come sottolinea Laffi, un giovane adulto possa essere certo del passaggio dal regno della speranza a quello del progetto.
Come si stiano definendo dentro di lui i nuovi luoghi in cui comincia ad abitare senza mai poterli sentire come propri, i nuovi tempi che scandiscono, ma non si sa fino a quando, la sua quotidianità.
Come è possibile sopportare tutto il lavoro di ridimensionamento degli ideali adolescenziali se non si istituisce dentro al neoadulto un bilanciere certo della responsabilità che provenga da un’area in cui la produttività e la generatività possano esprimersi nel tempo ed in rapporto ad un progetto che il giovane possa realmente sentire come suo, ad un gruppo che sia veramente il contenitore della sua neonata identità adulta, in cui lo sforzo di adattamento all’organizzazione sia ripagato dalla soddisfazione di vedere nascere il prodotto del lavoro e di sentirsi compartecipe della sua produzione.
Come è possibile che il Super Io emerga in assenza di una reale assunzione di responsabilità nel tempo, senza che il giovane abbia tempo di sperimentarsi e di guidare l’opera di ridimensionamento necessaria al fine di abbandonare l’ideale megalomanico adolescenziale, condannato da un punto di vista spaziale ad un perenne esodo verso altri lavori, altri studi, un perpetuo va e vieni dalla dimensione dell’impegno a quella dell’anarchia della quotidianità senza lavoro e senza agenda.
Se poi, in una situazione simile, il giovane rimane figlio nella famiglia prolungata, eterno adolescente costretto alla sindrome di Peter Pan e non vocato al disimpegno ed alla vita da vitellone da una qualche istanza interna, incapace di assumersi anche le più lineari responsabilità in questo limbo perenne posto fra studio e lavoro e, soprattutto, schiavo di un personaggio eroico sempre più liso e perciò paradossalmente sempre esposto al rischio di apparire ridicolo, di morire dalla vergogna, che cosa possiamo mai imputare loro se non l’essere figli di questa stagione che sembra votata all’adorazione di un dio sadico e sprecone, capace solo di atterrare i suoi figli più giovani e, di distruggere e sterilizzare le loro più feconde risorse.
In questo modo il giovane precario nell’epoca della globalizzazione va incontro ad una disillusione che non è il frutto di una sua elaborazione personale che, nel momento in cui entra in relazione con le altre istanze interne, rimodella tutto il mondo rappresentazionale sotto l’egida della responsabilità e del progetto, ma l’imposizione di una Legge esterna, che si impone a lui con la forza un comandamento le cui ragioni sono in un a priori di tipo economico, o più spesso gliela si propone come fosse il viatico verso l’autorealizzazione e l’autoaffermazione. Il rischio reale per questa strada è però solo quello di creare individui incapaci di diventare autonomi e fieri delle proprie responsabilità, incapaci di riconoscere i propri sogni, di convivere con essi e non con le croste che ci ammanniscono i media, incapaci di trasformarli in propri progetti, e non nei grigi kit prefabbricati dai signori della Borsa.
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Bibliografia:
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[1] Da ciò la definizione di Bernfeld dell’uomo come ‘animale nidicolo’
[2] con i nostri tirocinanti psicologi noi diciamo che la visualizzazione di questa nuova dimensione temporale è rappresentata dall’agenda che, prosaicamente, ci dice cosa la responsabilità ci impone di fare in concreto oggi, domani, etc.-
[3] Cfr. in proposito: Angelini, Bertani
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