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IL SENSO DEL TEMPO PER CHI SOFFRE DI PTSD

15 Gen 19

A cura di avico.raf


Nell’ultima NEWSLETTER inviata dal giornale online dell’ESTD (European Society for Trauma and Dissociation), compare un articolo a proposito del senso del tempo percepito soggettivamente nei rifugiati con vissuti post traumatici.

Gli autori, italiani, approfondiscono la questione del senso del tempo percepito da rifugiati provenienti da Afghanistan, Siria, Mali o Congo.

Il tempo, nel vissuto post-traumatico, si modella in tre modalità diverse:

  1. CONTRAZIONE/DILATAZIONE Il senso del tempo è scandito da un orologio interno, che modella la sua velocità (o meglio, la sua velocità percepita soggettivamente da parte del l’individuo) a partire dall’arousal: questo studio (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22296278) ha osservato come in occasione di iper-arousal e tachicardia, il senso del tempo sembri rallentare; viene ipotizzata la compresenza di tre fattori (impatto, qualità emotiva dell’esperienza, livello di arousal) per spiegare il meccanismo che sta sotto la “distorsione” del senso del tempo percepito. Nell’articolo presente sull’ESTD viene riportata una storia di una rifugiata che raccontava una detenzione durata 3 giorni come se la stessa fosse durata molto di più, tanto da interrogare il terapeuta su quanto la stessa fosse in grado di ricordare effettivamente l’accaduto; osserviamo come, in questi casi, l’attraversare momenti di profondo turbamento traumatico, dilati il tempo, che viene percepito come rallentato, quando non fermo.

    Diverso invece il caso in cui, nel corso di un trauma “irrisolvibile “ in corso (senza vie di fuga mediate da una comunicazione di qualunque tipo), il tempo sembri sparire (sensazione di timelessness): in questo caso, come ci insegna la teoria polivagale di Porges, si attivano sistemi di risposta più antichi: la mente non tenta più di fronteggiare ciò che sta accadendo (attraverso un acuirsi delle facoltà neurofisiologiche, per esempio con uno stato di arousal aumentato), ma “se ne va”, fugge da se stessa in senso dissociativo, e con essa il senso del tempo. Questa risposta si accompagna a un vissuto dissociativo, in occasione di traumi troppo minacciosi per l’integrità psichica, che quindi vengono bypassati in uno stato indotto di coscienza alterata (ipo-arousal e senso di tempo scomparso). L’articolo cita l’esempio di una rifugiata detenuta, abusata e picchiata costantemente per circa un anno: ogni giorno, in questa prigione congolese, accadeva il momento dell’”esecuzione”, in cui qualcuno veniva chiamato per essere portato via e ucciso: in questi particolari frangenti il tempo, per la donna, sembrava “scomparire” (per un approfondimenti su questi temi la Teoria Polivagale di Porges racconta in modo approfondito la neurofisiologia di queste risposte, evolutivamente adattative).                                                

  2. DIVIENE RIPETITIVO/CIRCOLARE
    A seguito di grandi traumi gravi, è come se il tempo ripresentasse se stesso attraverso flashback e incubi notturni (nei casi più comuni e di entità lieve di vissuto post-traumatico) fino a, nei casi limite, produrre uno sdoppiarsi dei registri temporali: la persona in questo caso vive in “due tempi” contemporaneamente. Rivivere il trauma a occhi aperti, in uno stato alterato di coscienza (“crepuscolare”, ristretto e transitorio, “chiuso”, come direbbe Gilberto DiPetta), dà la sensazione al soggetto di sentirsi nel “là e allora” del trauma, perso nella rivisitazione del passato traumatico, a scapito della permanenza nel momento presente. In questo sta la natura circolare del tempo post-traumatico, che torna sempre a bussare alla porta del presente.
  3. CONTINUITA’: LE AMNESIE
    Qui nell’articolo si fa riferimento al fatto che esistono nella storia percepita dei soggetti traumatizzati, dei buchi mnestici che non hanno in sé trama narrativa: il tempo, come un fiume carsico che scompare sottoterra per poi riaffiorare, è come se in certi periodi non esistesse. Sono lampanti a questo proposito le evidenze sui registri della memoria usati da pazienti gravemente traumatizzati, che ricordano il “come” ma non il “cosa” a riguardo del trauma stesso: in questo senso, una buona psicoterapia dovrebbe traghettare il paziente “verso l’episodio”, per forzarlo a una rielaborazione (guidata) delle memorie traumatiche.

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