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IL SENSO DELLA VIOLENZA (1): “Femmincidio” e violenza di genere.

25 Ott 13

A cura di Paolo Minerva

La violenza contro le donne, detta femminicidio nella sua forma più estrema, agita la coscienza della “società civile”; pone in primo piano la drammaticità di un fenomeno che appare terribile, aberrante, e inquietante nella sua dimensione.

Esiste un motivo specifico per questo dilagare della violenza contro le donne?

Forse si, ma è da ricercare in una dinamica complessa; guai dunque ad essere semplicistici o sbrigativi.

Punto fermo resta la condanna legale da garantire anche con norme ad hoc, aggravanti di giudizio e severità di punizione, ma questo non basta come deterrente, e neanche ci aiuta a comprendere e prevenire.

La violenza, in senso generale, ha un’origine ancestrale, primordiale, e per certi aspetti, come vedremo, anche funzionale.

È necessario distinguere la violenza come mezzo dalla violenza come scopo.

Della prima possiamo disegnare un percorso psico – antropologico e di senso; mentre per la seconda dobbiamo “accontentarci”  di una rapida lettura psicopatologica: la violenza come scopo è un modello di relazione, appreso e perpetuato come modalità elettiva della rappresentazione di Sé.

Nella società “civile” contemporanea la “violenza come mezzo” (e il femminicidio nello specifico) emerge come esigenza estrema, vissuta come impellente, necessaria, irrefrenabile a rappresentare inconsciamente un disagio, una contraddizione, una contrapposizione; un’azione necessaria ad esprimere il fallimento di un passaggio evolutivo, sociale e soggettivo.

 

È a questa sintesi che vorremmo dare una spiegazione più articolata.

 

La violenza esiste in natura, anche se questo non vuol dire che sia inevitabile, ma piuttosto che essa è l’approdo inevitabile di situazioni estreme, e per non averci a che fare è necessario non arrivare a queste situazioni estreme.

In questa sua caratteristica “universale” la violenza ha un valore che definiamo “archetipale”.

È archetipale tutto ciò che vale in ogni tempo ed in ogni luogo trascendendo le distinzioni di cultura e di epoca storica, ed ha un seme originario (archetipo) dal quale derivano tutte le forme successive, attuali e future.

Per comprendere il senso attuale della violenza dobbiamo individuarne l’archetipo originario che, come ogni archetipo, non è scomparso, non è “passato”, ma soggiace e agisce, si manifesta, si declina in una sua attualizzazione che genera la fenomenologia contemporanea, quella che appare sotto i nostri occhi oggi.

 

L’esperienza primordiale – archetipale della violenza, quella che ha generato un’impronta morfologica sulla nascita e lo sviluppo del Sé degli individui, è legata all’esperienza della sopravvivenza.

Questa è l’esperienza primordiale che ci lega a tutti gli altri esseri viventi, animali e vegetali, e che è stata ampiamente argomentata dalla filosofia darwiniana, come lo scopo primario e fondamentale di qualsiasi specie.

 

La violenza nasce dunque all’interno di un vissuto istintivo, che non è dimenticato dall’uomo con l’evoluzione, ma giace silenzioso nelle parti più recondite della mente pronta a scattare quando si presentano situazioni che non sappiamo come affrontare con gli strumenti della “ragione”.

 

Legata alla sopravvivenza e all’istinto di sopravvivenza è anche la funzione riproduttiva, quella che sta all’origine biologica del rapporto tra il maschile e il femminile. 

Da un punto di vista antropologico, con la creazione del nucleo riproduttivo (quello che garantisce la continuità della specie) la difesa del territorio di caccia si allarga alla difesa del “focolare”.

In questa nuova funzione difensiva la violenza trova, antropologicamente, una nuova ragion d’essere.

Il presupposto della difesa e dei conseguenti atteggiamenti anche violenti connessi alla difesa (la difesa della preda, delle scorte cibo, del territorio, della prole, di tutto ciò che è stato “conquistato” allo scopo di garantire la sopravvivenza di sé, del proprio nucleo riproduttivo, della propria specie) passa inevitabilmente attraverso il vissuto del possesso, attraverso l’esperienza della proprietà, quella che oggi chiamiamo in senso più sociologico la proprietà privata. Difendo qualcosa che è mio.

Nell’uomo, a differenza degli animali, a questi due livelli istintuali (la sopravvivenza e la riproduzione) si sono aggiunti altri livelli dati dalla evoluzione psico-sociale, ma questo non vuol dire che le energie istintuali siano scomparse. Intervengono e prevalgono in caso di stress.

 

Il più recente neurocognitivismo ha ben documentato la relazione esistente tra la struttura morfologica filogeneticamente più antica del cervello, il diencefalo, e le reazioni di stress attivate nell’apparato neurovegetativo di fronte ad una sollecitazione esterna, oggi come nella preistoria.

Le reazioni neurovegetative che si sviluppano in caso di stress sono oggi impropriamente attivate in situazioni ritenute inconsciamente pericolose anche se non lo sono oggettivamente, allo stesso modo di come nell’uomo preistorico venivano attivate davanti ad un pericolo reale davanti al quale era necessario scegliere rapidamente il comportamento più adeguato: fuga, evitamento o attacco.

Questa reazione “impropria” del sistema neurovegetativo scatta dunque in quanto reazione appresa e consolidata nella struttura istintuale della coscienza, conservata nel diencefalo e pronta a scattare al momento opportuno per salvaguardare le funzioni biologiche fondamentali: la sopravvivenza e la riproduzione della specie.

Ma la cosa più importante è che questo tipo di reazione “impropria” scatta solo quando viene meno la capacità elaborativa delle funzioni superiori di carattere cognitivo, quando le funzioni superiori abdicano all’elaborazione del significato dell’evento, quando la persona si trova di fronte ad uno spaesamento emotivo molto forte.

 

I casi di femminicidio riguardano maschi che non sopportano l’idea della separazione dalle loro compagne.

Quello che si muove a livello emotivo e ancestrale nei cuori e nella mente di questi uomini, è qualcosa di più di un dispiacere, di una frustrazione, di un dolore, per quanto grande sia.

È qualcosa che manda in tilt la loro capacità di comprendere la realtà e che li riporta in balia di quell’istinto primordiale che giace in fondo all’anima. Una frustrazione emotiva che li porta a vivere la separazione come un attacco al proprio ruolo di padrone/protettore della coppia, un ruolo oggi socialmente inesistente, ma che vive nell’istinto primordiale di coloro non sono stati in grado o non hanno avuto la possibilità di elaborare un'evoluzione personale.
 

L’atto finale dunque rappresenta l’espressione di un fallimento soggettivo e sociale.

 

Il fallimento soggettivo è quello legato alla incapacità di elaborare il proprio ruolo nella coppia; all'incapacità di elaborare la condivisione e l’accettazione come elementi chiave di una relazione adulta.

Il fallimento sociale è quello relativo al riconoscimento e all’esaltazione di un modello ci comportamento basato sull’accumulo, sul possesso delle risorse, sulla “predazione”, come valori tollerati e anzi incentivati.

 

Possesso, arricchimento, conquista di beni e “territori di caccia”; in questa logica sociale si condizionano e spesso si definiscono le relazioni interpersonali, e le stesse relazioni affettive. 

Il maschile vi trova una connessione inconscia con la funzione primordiale della protezione dei beni; agisce la relazione tra il possesso e la violenza necessaria alla difesa dei beni; attua una sovrapposizione inconscia tra relazione affettiva e relazione di possesso legando l’altro elemento della coppia in un abbraccio di protezione mortale.

 

La responsabilità sociale di tutto questo è molto forte; i modelli sociali esercitano pressioni potenti sulle persone che non hanno elaborato capacità di riflessione e consapevolezza di Sé, lasciandole in preda ai loro istinti più antichi e contraddittori, soprattutto quando si presentano situazioni emotivamente estreme.

La capacità di riflessione e la consapevolezza di Sé è una responsabilità educativa e formativa e necessita di tempo e pazienza perché diventi una base solida di fronteggiamento delle difficoltà, quotidiane e straordinarie, che la vita ci pone davanti.

Oggi invece la velocità, l’efficienza, la competizione, la crescita, sono diventati parametri irrinunciabili. Le persone sono spinte ad agire con questi parametri a discapito della capacità di elaborazione soggettiva, della consapevolezza; a discapito della riflessione sul senso di quello che ci accade, sul senso di questo accelerare, accumulare.

Tutto apparentemente funziona fino a quando non intervengono episodi di carattere emotivo che ci lasciano confusi, perplessi, incapaci di analisi, incapaci di reazioni evolute, spaesati. Emerge la contraddizione, e in questo buco di consapevolezza le uniche reazioni possibili sono quelle istintive, ma sono reazioni che ci fanno precipitare nel baratro emotivo, un baratro in cui rischiamo di trascinare delle vittime.

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2 Commenti

  1. manlio.converti

    Una delle colpe è il gender
    Una delle colpe è il gender apartheid…
    un’altra, specificamente italiana, è l’insegnamento agiografico del ratto della Sabine come atto fondativo della nostra realtà psico.socio.culturale, azione, ancorché mitologicam che oggi sarebbe accusata di STUPRO ETNICO.

    Il senso di colpa d’altra parte è un’elaborazione giudaico.cattolica del vissuto.

    L’autocompiacimento della nascita del figlio maschio e l’autoumiliazione per quella della femmina, dell’ermafrodito o dell’effeminato, quando adolescente, viene d’altra parte rinforzato in tutte le altre culture del mondo dalla componente femminile diretta o trasversale (la suocera in Giappone).

    Ogni aborto frutto spontaneo o da IVG è vissuto culturalmente come la perdita da colpevolizzare di un figlio maschio.
    La femmina che lo contiene non ha alcun valore nel merito di discussione.

    Ma anche questa è un’elaborazione giudaico.cattolica della colpa.

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  2. mori@ipsnet.it

    Chiaro, interessante e ben
    Chiaro, interessante e ben articolato.
    Vorrei aggiungere un aspetto che a volte viene, mi pare, poco considerato. In diversi casi di femminicidio sembra che ci sia una certa convinzione da parte dell’uomo che quello sia l’atto estremo che bisogna assolutamente compiere. Come una necessità dalla quale non ci si poteva sottrarre. Lo si deduce dal mancato pentimento o da un pentimento di maniera, superficiale che sembra giustificato da una ragione superiore. Come se l’identità dell’uomo e la sua autostima fossero determinate proprio da quell’atto. Questo mi pare legato al fatto che la coppia umana nell’evoluzione si è stabilizzata e ha fissato ruoli e identità definiti e non facilmente modificabili. Di più. Li ha sacralizzati e resi indissolubili. Anche le religioni hanno contribuito a questo. Quindi nella percezione maschile, ma anche femminile se succede il maschilicidio, quando quel procedimento di legame di coppia sembra interrompersi è come se non potesse esistere altro dopo e pertanto deve finire tutto e non si può procrastinare un’altra realtà vitale. E’ un destino, una necessità che deve compiersi.
    Certamente questo aspetto non giustifica e non toglie la responsabilità di ciò che accade ma permette di rileggere il fatto sotto una veste che non è solo quella della gelosia, della mancata accettazione della perdita degli affetti, della scarsa crescita sociale, della paura dell’abbandono…

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